L’ipocrisia di tanti imprenditori è il miglior alleato del caporalato. Il maggiore è invece l’inerzia con la quale una parte delle Procure della Repubblica applica la norma del codice penale che, dal 2016, definisce il perimetro per perseguire gli sfruttatori di chi è in stato di “necessità”.
L’ipocrisia
riguarda l’atteggiamento diffuso fra i datori di lavoro che si rivolgono a
imprese individuali e a finte cooperative – spesso costituite da ex lavoratori
– per ottenere manodopera a bassissimo costo e con la quale non hanno rapporti
formali. Il caso estivo delle Langhe è tuttora tra i più
significativi: mostra che la norma introdotta otto anni fa è inefficace
contro l’ipocrisia di certi imprenditori di Barolo e Barbaresco che
vendono le loro bottiglie a 50 euro l’una, e realizzano «margini di
guadagno scandalosi – come dichiara don Mario Melotta, direttore della
Caritas di Alba – grazie a paghe in nero di soli 3 euro l’ora per 10-12
ore consecutive di lavoro». Anche i margini di guadagno dei caporali sono
scandalosi, perché quegli uomini e donne (un’indagine astigiana ha individuato
una “caporala” che girava in Bmw per le colline del Moscato) speculano pure sui
bisogni primari (sete, fame) di quanti sfruttano, imponendo loro di pagare
anche acqua e panini, oltre al trasporto nelle vigne. I 30-40 euro al giorno
sulla carta “calano”, così, drasticamente a fine giornata. Dice ancora don
Melotta: «La vita dei migranti sotto questa gente è da sopravvivenza, dopo
grandi fatiche quotidiane. Prova ne sono i piedi piagati al termine di giornate
di lavoro trascorse con le infradito adattate a calzari da lavoro. Parliamo
davvero di persone disperate. Se no, chi si ridurrebbe ad accettare compensi
così bassi?».
Come
riuscire ad applicare la legge 199/2016 per il contrasto al caporalato? Controlli mirati sulle
estensioni dei vigneti di ogni impresa, numero di dipendenti regolari, inclusi
quelli a tempo determinato (i filari vanno curati per gran parte dell’anno,
specialmente se si offre poi vino biologico) e ore ufficialmente lavorate per
la vendemmia. Incrociando i dati si chiarisce chi impiega manodopera
irregolare. Ma ciò avviene in maniera ampiamente insufficiente. Il bilancio
post-vendemmia dell’Ispettorato del lavoro di Cuneo e dei carabinieri è stato
riportato dalla Gazzetta d’Alba, il 24 ottobre scorso: 88 ditte
controllate, 7 casi riscontrati di illiceità dell’appalto da parte di
“contoterzisti”, irregolarità in materia di sicurezza sul lavoro contestate a
54, cioè il 62 per cento del totale. E infine a 20 è stata comminata la
sospensione dell’attività. Il dato che colpisce di più è che siano
stati individuati solo 48 braccianti (di cui 10 stranieri) a lavorare in nero quando, durante
la vendemmia, vengono impiegati dai 4 ai 5 mila lavoratori. La stessa Gazzetta
d’Alba riferisce, in altro servizio, che il caporalato controlla il 40
per cento della manodopera impiegata durante la vendemmia nelle Langhe.
Qualcosa si è mosso, incluso l’annuncio del Consorzio di tutela, di costituirsi
parte civile nei processi. Ma è ancora poco.
Il fronte
variegato della magistratura nella lotta al caporalato è un secondo fattore di
peso. Lo
sottolinea Claudio Riccabone, responsabile della Caritas di Canelli: «Le
indagini della Procura di Asti hanno portato a numerosi arresti e spinto parte
delle coop sospette a trasferire la propria attività, a cominciare dalla sede
legale, nel Saluzzese e nell’Albese». Chi si mette a posto e chi si sposta dove
spera di rischiare meno. Non c’è solo la vendemmia in ballo. Il caporalato si è
diffuso prima ancora che sulle colline in pianura dove si coltivano ortaggi e
si curano le piante da frutta per buona parte dell’anno. Quest’anno, semmai,
l’attenzione dell’opinione pubblica su questo fenomeno criminale si è accesa,
prima, sul caso di Latina del migrante mandato a casa dal datore di lavoro con
il braccio staccato e riposto in una cassetta, e poi sulla scoperta mediatica
delle Langhe, simbolo dell’uva più pregiata in Italia, anche come terra in cui
sguazza il caporalato grazie all’interesse di tanti imprenditori di ricavare ad
ogni costo dal proprio vino margini di profitto altissimi.
Un dato
importante è che alla chiesa albese questa ipocrisia (della serie «la
cosa non mi riguarda perché io pago un certo signore che porta nelle mie vigne
i suoi lavoratori»), spesa per giustificare la compromissione con il
caporalato è andata di traverso. Lo documenta un recente coraggioso
servizio di Famiglia Cristiana in cui compaiono le interviste
al vescovo della diocesi albese, monsignor Marco Brunetti, e all’ex presidente
del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, Matteo
Ascheri. Il vescovo ha pure indirizzato una lettera alle comunità parrocchiali:
«Chi sfrutta i lavoratori più fragili come i migranti incorre in un gravissimo
peccato che lo esclude dalla comunione eucaristica». Semmai c’è da chiedersi se
vi sia stato qualche don Abbondio.
Anche
Ascheri si è speso per la sua parte: da presidente del Consorzio di tutela, nel
marzo scorso, ha firmato con istituzioni e parti sociali il protocollo
di contrasto al caporalato a seguito del quale le 550 aziende socie
del Consorzio avrebbero dovuto rinunciare a lavorare con certi
soggetti che, a dirla tutta, sono ben conosciuti da gran parte degli
imprenditori. Ascheri è un produttore vinicolo stimato: dirige l’azienda di
famiglia, 12 dipendenti fissi, 20 ettari di vigneto, 240 mila bottiglie l’anno
(«metà di Barolo e l’altra metà di Barbera e Nebbiolo»). Per questo era stato
scelto come presidente del Consorzio. Firmando il protocollo si è esposto: «Dal
2020 – ha raccontato a Famiglia Cristiana – mi sono pronunciato apertamente
contro il caporalato. Ma sono stato lasciato solo». E a inizio estate non si è
ricandidato: «Mi sono vergognato di rappresentare alcune aziende e con la mia
ho deciso di uscire dal Consorzio». Scelta clamorosa e preveggente: in
occasione di quest’ultima vendemmia il protocollo è stato largamente disatteso.
Ascheri ne aveva fatto e continua a farne una questione di etica del lavoro, ma
anche di immagine per lo stesso consorzio che presiedeva: le Langhe sono
diventate un simbolo di terra che dà ricchezza, tanto da attirare investitori
da tutto il mondo e turisti stranieri interessati all’enogastronomia. Diventare
anche la terra di un vergognoso sfruttamento di lavoratori fra i più
vulnerabili rischia di trasformarne l’immagine.
Su molti
imprenditori – che non avrebbero alcun motivo di sottopagare i propri
lavoratori e di lasciarli vivere in casolari diroccati lungo il Tanaro – agisce
forse, paradossalmente, il Dna di immigrati ereditato dalle famiglie: le
Langhe sono state in passato terre molto povere da cui partivano i bambini per
andare a lavorare in Francia, i maschi nelle industrie del vetro, le
femmine a raccogliere lavanda e altri fiori in Provenza o per essere impiegate
come servette nelle famiglie. Succedeva nell’Ottocento, e questa particolare
migrazione ha continuato a verificarsi sino agli anni ‘50 del Novecento. Tali radici,
anziché agire da anticorpo contro lo sfruttamento dei migranti, potrebbero aver
incoraggiato qualcuno a pensare storto: «Tocca a tutti, quindi ci sta che
ce ne laviamo le mani».
Il sistema è
apparentemente perfetto, avvolto nella carta argentata dell’ipocrita Grande
Convenienza. Chi va ad Alba in questi giorni post-vendemmia può respirare
un’atmosfera da liberi tutti: la vendemmia è finita, tanti migranti si sono
spostati a lavorare altrove, ne restano, ma ancora più invisibili. E la
“questione caporalato” pare assopirsi. Ma è veramente come sembra a chi arriva
da fuori? Monsignor Pierpaolo Fellicolo, direttore della Fondazione Migrantes,
sostiene la pratica della legalità come ricetta per sconfiggere il caporalato e
racconta come sia decisivo per cambiare le cose riuscire a rendere
visibili i lavoratori stranieri vittime di un fenomeno che impedisce loro di
progettare un futuro dignitoso: casa, famiglia, scuola per i figli,
integrazione sociale. Dice: «La denuncia è fondamentale. Ma lo è anche la
politica del fare. Faccio un esempio. In Campania, come Fondazione Migrantes,
abbiamo acquistato due pulmini e li abbiamo messi a disposizione di un primo
gruppo di lavoratori migranti. Con i pulmini a disposizione è stato assai meno
complicato riuscire, da parte loro, ad organizzarsi in cooperativa. Il passo
successivo, con più denaro in tasca, è diventato cercare casa nei paesi, e noi
li abbiamo aiutati a superare i pregiudizi. Cominciare a vivere nei
paesi li ha resi improvvisamente visibili e ciò ha messo in moto un meccanismo
di relazioni: ci si incontra per strada, nei negozi, nei bar. Le prime
volte si sconta una certa diffidenza, poi si passa a un cenno di saluto e si
finisce per prendere un caffè insieme, a volte. È una politica di relazione di
piccoli passi, ma decisivi, uno dopo l’altro, per creare una rete di
integrazione nelle comunità».
In Campania
tanti paesi sono vivi, nelle Langhe molto meno. Carlin Petrini, fondatore di Slow
Food, racconta dell’avvicendarsi di ristoranti stellati alle vecchie osterie,
della scomparsa dei negozietti e pure dei preti, delle abitazioni private
trasformate in B&B, dell’esaurirsi del tessuto sociale che rendeva solide
le antiche comunità. Ci può stare che in quel vuoto trovi spazio, convenienza e
persino vitalità un fenomeno orrendo come la tratta delle persone nei campi più
ricchi di futuro per chi li sfrutta. Non certo per i migranti, il cui ultimo
luogo di reclutamento quotidiano, ad Alba, per la stagione della vendemmia, era
non a caso il cimitero locale.
https://volerelaluna.it/territori/2024/12/09/langhe-barolo-e-caporalato/
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