Tutti siamo stati, siamo e saremo sempre più turisti, anche se ci piace
raccontarci come viaggiatori, escursionisti, scopritori, eccetera. Inutili e
sottilmente reazionarie le intemerate contro “i turisti” o, peggio ancora,
contro il turismo “low cost”, protagonista dell’imbarbarimento progressivo
delle nostre città d’arte. Posto il freno dunque a certo facile moralismo, va
però rilevata la funzione a dir poco epocale che sta assumendo il turismo come
modello economico, produttivo, geopolitico e relazionale. Da decenni si sente
dire che il turismo sarebbe “il nostro petrolio”, la risorsa inesauribile che
dovrebbe arricchire le nostre tasche e il nostro Pil. Non solo non è così, ma
le due cose sono in diretta contrapposizione. Un conto è avere il petrolio, un
altro intercettare i flussi turistici globali. Un conto è avere industrie,
altro conto è specializzarsi nella ricettività alberghiera. Un conto è produrre
automobili, altro è sfornare pizze. In altre parole: un conto è
l’autosufficienza economica, altro la dipendenza dai suddetti flussi turistici.
Anche a parità di Pil, la prima garantisce una certa quota di indipendenza
politica, mentre la dipendenza economica si traduce inevitabilmente in
subalternità sistemica. Per dirla con un esempio: in Italia si producono 1,1 milioni di automobili, mentre se ne
immatricolano circa 1,8 milioni l’anno.
E’ un dato, quello della produzione, in costante discesa: secondo uno studio della Unioncamere, «in Italia, le
attività industriali dell’Automotive contribuivano per il 3% del valore
aggiunto nazionale nel 1990, per il 2,4% nel 2007 e per il 2% nel 2012, ultimo
anno rilevabile. La distribuzione, nello stesso periodo, è scesa dal 3,7 al
2,7%. In Germania, invece, l’Automotive ha aumentato il suo contributo
all’economia con le attività industriali che salgono al 9% e la distribuzione
stabile sul 2%». Quelle 700mila automobili in più – quasi il 50% del mercato! –
che servono a soddisfare la domanda nazionale devono essere acquistate
dall’estero. In Germania si immatricolano ogni anni circa tre milioni di
automobili (3.2 milioni nel 2015), ma se ne producono più di 5,5 milioni (5,7 milioni sempre nel 2015). Nel settore
capitalisticamente più rilevante di ogni produzione economica “matura”,
l’Italia è costretta a dipendere per quasi la metà del proprio fabbisogno
dall’estero, la Germania ha invece la forza non solo di “controllare” il
proprio mercato, ma anche di influenzare con la propria forza produttiva i
mercati (dell’automotive, in questo caso) internazionali. E stiamo parlando del
confronto tra la prima e la seconda industria manifatturiera d’Europa, non fra
un gigante produttivo e un paese della periferia capitalista!
E’ in corso una progressiva suddivisione specialistica tra paesi
all’interno dell’Unione europea. Alcuni rafforzano il proprio ruolo produttivo,
altri stanno tragicamente incentivando la propria propensione
turistico-ricettiva. Il confronto tra Italia e Germania è in questo senso
sempre più calzante. Nonostante a livello turistico i due paesi si assomiglino
molto più di quello che possa credersi (per flussi, numero di turisti, siti
Unesco e via dicendo), in Germania non è in corso alcuna sostituzione
produttiva, cosa che invece è in atto in Italia. I motivi sono molti, a partire
dalla gabbia economica europeista che desertifica industrialmente i territori a
scarsa produttività relativa per concentrare la produzione in quelli
economicamente competitivi. Il problema è che invece di ragionare sulle
contromisure, le classi dirigenti nazionali stanno incoraggiando questa
selezione competitiva che lascia alla Germania le industrie e all’Italia la carbonara.
Il gioco non è a somma zero, come cercano di presentarlo: un Pil in crescita
per il turismo non ha la stessa equivalenza di un Pil in crescita grazie alla
produzione industriale, sia in termini occupazionali che in termini politici.
Le differenze non finiscono qua. Anche rispetto al mercato del lavoro, un
conto è avere operai impiegati nei settori della trasformazione manifatturiera,
un altro è avere operai (opportunamente ridefiniti dalla più stravagante
terminologia post-moderna) impiegati nel settore turistico. Non serve scomodare
il marxismo per capirlo, basta leggere Michele Boldrin, liberista di primo pelo, che
non avendo incarichi amministrativi si lascia sfuggire pezzi di verità altrove
bollati come anti-sistema: «Chi se ne frega se il turismo è da record! Il
turismo è un settore marginale ed a basso valore aggiunto nel sistema economico
italiano: hai presente cosa siano i salari medi nel settore turistico? Perché
continuare a diffondere questa bufala del turismo che dovrebbe portare
ricchezza? Il turismo porta ricchezza per pochi, lavori miserabili per alcuni e
scempio delle città storiche e degli ambienti naturali».
E’ un’evidenza empiricamente riconosciuta da milioni di precari
iper-sfruttati nel settore turistico. Salari da fame (soprattutto se paragonati
alle competenze richieste, a cominciare dalla conoscenza delle lingue),
contratti inesistenti, caporalato mascherato, autosfruttamento, cottimo,
eccetera. La ragione del basso valore aggiunto e dell’inutile valore aggregato
che produce il settore turistico ha però una ragione strutturale, non deriva
cioè dalla tracotanza padronale. Il turismo, in questo senso speculare al
settore dell’export, non ha la necessità di confrontarsi con la domanda
nazionale di beni e servizi. E’ totalmente orientato alla soddisfazione di una
fascia di mercato sostanzialmente internazionale. Non produce beni che devono
essere rivenduti nel paese, interpolandosi così con una dinamica salariale che
tiene in conto della necessità sistemica di assorbire la produzione nazionale.
“Produce” beni e servizi rivolti al mercato internazionale. Che i lavoratori
del paese non possano assorbire – comprando – ciò che producono non interessa
più, perché quei beni non sono destinati a loro. Questo il motivo per cui non
si instaura nessun circuito virtuoso tra aumento della produzione e aumento
degli stipendi. Al contrario, la produzione (turistica, o export
oriented) aumenta proprio al calare degli stipendi. Una
dinamica improbabile nel capitalismo novecentesco, ma che diviene centrale nel
capitalismo liberista globalizzato attuale.
Ci sarebbe infine la questione – pure determinante – della completa rovina
paesaggistica, culturale, ambientale, urbanistica, ecologica, umana, dei centri
ricettivi del turismo globale. Ogni città d’arte, ma più in generale ogni
ambiente “unico”, viene piegato, deformato e standardizzato dalle e sulle
esigenze della ricettività turistica. Non è tanto il patrimonio fisico a
incorrere nel progressivo disfacimento, quanto il patrimonio umano di chi vive
nei suddetti centri. Le città vengono ridefinite sugli interessi di chi ne
dispone turisticamente, producendo lo svuotamento dei centri e della periferia
consolidata, l’esclusivizzazione dei servizi e degli spazi, il ricollocamento
della popolazione residente e dei suoi interessi al di fuori dei percorsi
turistici ma che, essendo al tempo stesso fuori dalla catena del valore da
questi generata, viene di fatto esclusa da qualsivoglia processo di
arricchimento e di inclusione. A tutto questo è impossibile e a dir poco
reazionario rispondere con il “numero chiuso”, mantra agitato
dall’intellettualità liberista di fronte a qualsiasi processo di
“massificazione” sociale. Il numero chiuso si tradurrebbe immediatamente in
numero chiuso per i poveri, lasciando i centri storici alle scorribande dell’upper
class internazionale che è la prima responsabile del decadimento delle
città d’arte. E’ impossibile allora risolvere il problema dentro l’attuale
logica capitalista neoliberista, perché non è un problema di “gestione” o
“contenimento” ordinato dei flussi, quanto spezzare l’economia del turismo, che
si presenta sempre più come paradigma economico attraverso cui regolare le
relazioni produttive tra le classi.
Mario Galati 2017-08-31 21:49
Il ruolo
assegnato all'Italia nella divisione internazionale del lavoro e la conseguente
deindustrializzazione risale all'accordo multifibre del 1974. All'Italia veniva
assegnato il settore del tessile e alla Germania e all'Inghilterra quello degli
altri settori industriali, automobili, mezzi di produzione per Germania, ecc.
Negli anni '80 si esaltava il nuovo rinascimento dei nuovi Michelangelo e Leonardo
che "creavano" stracci, modelli di sedie, scarpe. Il meraviglioso
made in italy. Poi si è continuato su questa falsa riga con l'esaltazione del
turismo. Mentre avviene ciò che è efficacemente descritto nell'articolo, si
prendono per i fondelli gli italiani, o meglio, i lavoratori, invitandoli a
convertirsi in un popolo di servi. Basta vedere come stanno nei paesi dove si
vive solo di turismo, tra i paesi più arretrati del mondo, costretti a servire
l'idiotismo turistico dei paesi ricchi, all'interno di un rapporto di tipo
coloniale. La gente è talmente stordita dalla propaganda da non capire la
necessità di un'ossatura economica forte, soltanto all'interno della quale il
turismo potrebbe avere una valenza diversa (come il riportato esempio della
Germania. Ma anche alcune zone italiane). Una volta un compagno, mio amico, si
trovava a un dibattito con personalità politiche, in Calabria. Quando chiese
cosa è previsto per la zona ionica nel sistema produttivo calabrese, si sentì
dire: "Niente, turismo.". Riferendomi il fatto, mi fece notare
l'equivalenza tra "Niente" e "Turismo" della risposta.
Turismo uguale niente.
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