Intervista di Marina Forti ad Amitav
Ghosh (*)
Conosciamo Amitav Ghosh come un romanziere, probabilmente uno dei
più grandi scrittori indiani contemporanei. Ghosh però è anche uno studioso, e
la sua formazione di antropologo è visibile nel rigore della documentazione in
ogni suo romanzo. Ghosh è anche un giornalista, autore di alcuni bellissimi
reportage e di numerosi saggi.
È un lungo saggio anche il suo ultimo libro, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, che tratta di come la cultura, e in particolare la
letteratura, reagisce alla drastica trasformazione dell’ambiente in cui
viviamo. Un cambiamento globale e profondo, che ormai è sotto i nostri occhi.
Basti pensare agli eventi degli ultimi mesi: la siccità in Italia, l’ondata di
caldo battezzata Lucifero, le disastrose alluvioni in Asia Meridionale, una
serie di uragani nel golfo del Messico (eventi che hanno ricevuto attenzione
diseguale: alla fine di agosto, proprio mentre i media mondiali seguivano la marcia
del ciclone Harvey verso il Texas, in Bangladesh e India le alluvioni hanno
ucciso 1.500 persone: senza quasi lasciare traccia sui media italiani).
Insomma: per dirla con Amitav Ghosh, le forze naturali che plasmano il nostro ambiente ci lanciano segnali che però stentiamo a
riconoscere. Ho incontrato Amitav Ghosh durante il recente festival
Internazionale a Ferrara.
Lei sostiene che il cambiamento del clima sta
sconvolgendo il nostro ambiente fisico ma noi, gli umani, non vogliamo vederlo.
È questa “la Grande Cecità”?
È vero, assistiamo a fenomeni meteorologici estremi un po’
ovunque. Quello che più mi ha impressionato è la recentissima inondazione a
Livorno: una famiglia va a dormire tranquilla, senza segni di avvertimento, e
si sveglia mentre sta annegando. Non solo non vogliamo riconoscere le forze
naturali intorno a noi, non vogliamo neppure prendere atto dei pericoli che
corriamo a causa del cambiamento climatico.
Ma perché lei chiama in causa gli scrittori?
Un argomento centrale del suo libro è che la letteratura non riesce a
riflettere sulla trasformazione del clima, benché sia di gran lunga la crisi
più drastica del nostro tempo: dice che gli intellettuali, e più precisamente i
letterati, rischiano di essere complici della “Grande cecità”.
Parlo degli scrittori in primo luogo perché è ciò io faccio
proprio questo, scrivere. Ma è un atto di auto-critica, non sto additando gli
altri. Mi interessa analizzare questo fallimento collettivo: noi,
intellettuali, scrittori, artisti, ci stiamo dimostrando incapaci di riflettere
sul cambiamento del clima. L’ironia è che questa è un’epoca di intellettuali e
scrittori impegnati, engagés su ogni tipo di questione e in particolare questioni di
identità, genere, razza, nazionalità, o delle diseguaglianze. Eppure la crisi
ambientale, benché sia di gran lunga il pericolo più grande per l’umanità,
resta al margine. È bizzarro che il grande cambiamento intorno a noi non entri
a far parte della nostra consapevolezza.
Il ruolo del narrare, lei ha scritto, è “affrontare il mondo al congiuntivo“, cioè “immaginare
altre possibilità”. La crisi del clima ci impone di immaginare altre forme
di esistenza umana sul pianeta, e lei dice che la fiction è l’espressione
culturale più adatta a farlo. Dunque oggi cosa si aspetterebbe da uno scrittore?
Se guardiamo il romanzo del Diciannovesimo secolo credo che Moby Dick sia
uno dei romanzi più intensi mai scritti. Riesce a esprimere un profondo legame
con il mondo non-umano: in Moby Dick la balena è un essere pensante, dotato di un’energia quasi
diabolica. Herman Melville è consapevole del danno ambientale provocato
dalla caccia alla balena, spinta quasi all’estinzione, e attraverso il
linguaggio riesce a mostrarci le contraddizioni della storia umana in relazione
al mondo naturale. Mi viene da pensare anche a Zola, e a come ha esplorato le
prime fasi dell’economia basata sui combustibili fossili: il carbone è un tema
ricorrente nel suo lavoro. Nel romanzo del Ventesimo secolo, prendiamo Furore di John
Steinbeck: per me è un romanzo sul cambiamento climatico ante litteram.
Steinbeck descrive la risposta umana a un catastrofico evento climatico, la
grande siccità, e le prime quattro pagine del romanzo sono forse la più potente
narrazione del clima mai scritta. Insomma: voglio dire che gli umani hanno
avuto gli strumenti per parlare di tutto ciò. Ma questo si è perso negli ultimi
cinquant’anni. Per ironia proprio i processi che hanno portato in campo i gas
di serra, responsabili del riscaldamento globale, sono gli stessi processi che
stimolano il consumismo e ci portano a dimenticare il mondo fisico intorno a
noi.
In effetti l’ambiente naturale è molto
presente nei suoi romanzi – penso a Il paese delle Maree, dove la foresta del Sundarban, in Bengala, è protagonista della
narrazione. In La grande
cecità troviamo numerose digressioni narrative, che ne fanno una
lettura affascinante. Ad esempio racconta come la Birmania aveva sviluppato una
primitiva industria petrolifera, poi assorbita dalle compagnie britanniche. In
effetti un grande merito di questo libro è che sposta lo sguardo: dal nostro
punto di vista Euro-centrico, ci porta a spostare l’attenzione sull’Asia. Dice
che l’Asia è cruciale nella crisi del clima. In che senso?
L’Asia è al centro di tutta la faccenda del clima perché è stato
il rapido sviluppo economico di alcuni paesi asiatici negli ultimi vent’anni a
far precipitare la crisi climatica. La crescita in Cina, India, Indonesia, per
citare i tre paesi più popolosi, ha accelerato le emissioni globali dei gas di
serra, quindi il riscaldamento dell’atmosfera. Ma così l’Asia ha dimostrato che
un modello di economia ad alta intensità di risorse e di capitali può
funzionare solo se praticato da una piccola minoranza della popolazione
mondiale. In effetti, nell’Ottocento e fino agli anni ’70 del Novecento era
così, solo il mondo Occidentale poteva praticare un’economia basata sui
combustibili fossili. Ma poi quando Cina, India e Indonesia sono entrati in
gioco – sia pure in piccolo, perché l’impronta ecologica di questi paesi resta
molto piccola se paragonata all’Europa – questa sia pur modesta espansione ha
accelerato il collasso del clima. L’Asia ha dimostrato che l’economia basata
sui combustibili fossili non può essere estesa a tutto il mondo. E questa è
un’altra straordinaria ironia: negli anni seguiti al 1789 la Rivoluzione
francese ha affermato le idee di libertà, eguaglianza e fraternità, ma allo
stesso tempo abbiamo enormi diseguaglianze, il lavoro forzato, la corsa delle
potenze coloniali ad arraffare le risorse nel Sud del mondo. Per tutto il
Ventesimo secolo abbiamo inseguito idee di progresso per combattere le
diseguaglianze. Ma ora dobbiamo scoprire che era solo un’illusione: non
possiamo perseguire in modo paritario il consumo di combustibili fossili.
Quindi il cambiamento del clima mette sul
tavolo la questione dell’accesso alle risorse e della giustizia globale.
Certo. Il mondo in cui viviamo oggi è più diseguale di quello del
Diciottesimo secolo. Le disparità di ricchezza e di potere non sono mai state
così forti, sia tra nazioni – ad esempio l’Asia rispetto all’Occidente – sia
all’interno delle singole nazioni, ad esempio in Cina o in India. E questo è un
effetto del neoliberalismo.
Nel dibattito sul clima parliamo spesso di
“scettici”,“negazionisti”, ma lei argomenta che i veri detentori del potere
sono ben consapevoli della sfida del clima: semplicemente non hanno alcuna
intenzione di modificare il modello di economia su cui è fondato lo stile di
vita Occidentale.
Questo è un punto importante. È un errore pensare che quanti avversano
le politiche sul clima siano inconsapevoli. L’amministrazione Trump, lo stesso
presidente Donald Trump, il segretario di stato Rex Tillerson, perfino Steve
Bannon, sono ben informati. Sanno. E sarebbe un errore anche pensare che non
abbiano un piano: il loro piano è questo. Il piano è lo status quo. Contano su
un’apocalisse climatica che ucciderà un gran numero di esseri umani. E questo
perché sanno benissimo che l’economia estrattiva su cui si fonda lo stile di
vita occidentale può funzionare solo per numeri piccoli. In un certo senso sono catastrofisti malthusiani. Pensano che una catastrofe malthusiana si avvicina, e si stanno
preparando.
È quella che lei chiama “politica della
scialuppa armata”?
Esatto. La “politica della scialuppa armata” significa tenere
fuori gli immigranti a tutti i costi, militarizzare le frontiere, armarsi fino
ai denti, difendere il proprio accesso alle risorse, e fare di tutto ciò una
questione di sicurezza.
In effetti negli ultimi dieci o quindici anno
diverse istituti di studi strategici hanno cominciato a ragionare sull’impatto
del cambiamento climatico come una questione di sicurezza. Non ultimo il
Pentagono, cioè il ministero della difesa della prima potenza mondiale…
Sì, ed è interessante. Oggi il più grande singolo consumatore di
combustibili fossili al mondo è proprio il Pentagono. Un anno di operazioni
militari brucia una quantità di energia fantasmagorica. E tutti gli eserciti
sono in espansione: Russia, Cina, India, tutti paesi che hanno firmato gli
Accordi di Parigi sul clima, eppure stanno rapidamente rafforzando la propria
difesa: e questo perché dall’inizio della Rivoluzione industriale i
combustibili fossili e il potere sono inestricabilmente legati. Il carbone ha
permesso alla Gran Bretagna di innescare la rivoluzione industriale e allo
stesso tempo creare un’industria delle armi: è così che ha sconfitto l’intera
flotta cinese con una sola nave da guerra a vapore, la Nemesis. Da allora ogni
paese sa che i combustibili fossili hanno una relazione diretta con il potere,
e ogni paese sta surrettiziamente allargando l’uso di combustibili fossili per
la difesa.
Solo che nessuno dirà al Pentagono “ora dovete tagliare”. E questo
anche perché via via che il cambiamento del clima accelera, e cresce il suo
impatto, vedremo più insicurezza. Conflitti per l’acqua e per le risorse sono
già una realtà in diverse parti del mondo. Un circolo vizioso: aumentano i
conflitti per le risorse e aumenta il consumo di combustibili fossili, cosa che
a sua volta accelera il cambiamento del clima.
Vuol dire che andiamo verso una situazione in
cui una piccola élite mondiale vorrà monopolizzare le risorse naturali, l’acqua
l’energia?
Appunto. Il cambiamento del clima è in sostanza una questione di
potere: non ci sarà un approccio realistico se non metteremo in discussione la
distribuzione globale del potere.
Tra gli effetti del cambiamento del clima si
parla spesso di masse di persone costrette a sfollare da eventi estremi some
alluvioni o siccità, quindi nuove ondate di migranti. Nei suoi romanzi
l’esperienza del migrare è molto presente – contadini egiziani che si spostano
in Medio oriente, migranti bengalesi nella penisola Arabica, commercianti
indiani nella Cina del secolo scorso… Lei sembra suggerire che attraversare
frontiere, sia geografiche che culturali, è parte dell’esperienza umana, e di
sicuro parte della modernità. In Europa però l’arrivo di alcune centinaia di
migliaia di persone suscita paure e reazioni ostili…
La crisi dei migranti mi interessa molto. Sarà per la mia storia
familiare: io sono bengalese; i miei avi venivano da quello che ora è
Bangladesh ma dovettero emigrare, intorno al 1850, perché un fiume aveva
cambiato il suo corso e sommerso il nostro villaggio. Forse è per questo che mi
sono sempre interessate le storie di sfollati e migranti. Negli ultimi mesi ho
visitato diversi centri per migranti in Italia – in Sicilia, vicino a Milano, a
Venezia. Io parlo bengalese, hindi, urdu, arabo, e queste oggi sono le lingue
dei poveri globali: posso avere una comunicazione diretta con le persone che ho
incontrato. Cosa ho ricavato da queste visite? Primo, che in effetti è vero, la
gran parte di questi migranti sono spinti da effetti del cambiamento climatico:
è vero per il Sahel e l’Africa sub sahariana, ma anche per il Bangladesh, che
oggi è il secondo paese di provenienza di immigrati in Italia. Ma è complicato.
Prendiamo una famiglia rurale in Bangladesh. Un anno la terra viene allagata: è
cosa che succede, e loro riescono a farvi fronte. Ma l’anno dopo l’alluvione si
ripete, e anche quello dopo ancora, e le risorse per fare fronte non ci sono
più. Di solito, la prima risposta sarà mandare il figlio, un ragazzo di 16 o 17
anni, a cercare lavoro in città, magari a Dhaka. Se non lo trova, il ragazzo
finirà su una delle barche che attraversano il Mediterraneo. Ma se gli chiedete
‘sei un migrante climatico’ lui negherà. Un elemento che spesso sfugge agli
europei è che nessuno dei migranti che sbarca in Europa si percepisce come
vittima. Loro sono protagonisti. Hanno iniziativa. E in effetti per
intraprendere un viaggio così pericoloso devi avere iniziativa, e coraggio.
Un altro aspetto spesso tralasciato è l’impatto delle nuove
tecnologie delle comunicazioni. I telefoni cellulari e l’internet sono
fondamentali per i migranti. Il telefonino ti permette di vedere foto, sapere
cosa succede in Europa, essere aggiornato sui percorsi, trasferire soldi. Forse
il servizio più importante che le Ong possono offrire ai migranti sono i punti
di ricarica.
In questo vedo un’altra delle ironie del cambiamento del clima:
proprio il tipo di consumismo che porta alla crisi del clima porta anche a una
sempre maggior dipendenza da questi strumenti che stanno tagliando la nostra
connessione storica alla terra. In un villaggio del Bangladesh vedi telefilm magari
girati a Calcutta, che mostrano una vita piena di automobili e frigoriferi e
cose simili: e sono gli oggetti che tutti vorranno.
Voglio dire che siamo di fronte a una crisi su parecchi livelli. È
una questione di cambiamento del clima e anche una questione di desideri, solo
che questo aspetto non è spesso considerato. Forse il solo che abbia compreso
la natura ambigua della questione è Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Sì. Il
capo della chiesa cattolica, con la sua rete di istituzioni a diretto contatto
con i poveri, deve avere percepito che il desiderio di migrare non riguarda
solo la povertà.
Amitav Ghosh è nato a Calcutta nel 1956. Ha studiato
a Oxford, dove ha conseguito un dottorato in antropologia sociale. Vive tra New
York e l’India. È autore dei romanzi Il cerchio della ragione; Le linee d’ombra; Il cromosoma Calcutta; Il palazzo degli specchi;Il paese delle maree; e la “trilogia dell’Ibis” (Mare di papaveri, Il fiume dell’oppio eDiluvio di fuoco). La grande cecità è il suo secondo lavoro di non-fiction dopo Lo schiavo del manoscritto. Fra i reportage vanno segnalati Conto alla rovescia (sui test nucleari dell’India nel 1998) e Danzando in Cambogia. Articoli e saggi di Ghosh sono stati pubblicati da The New Yorker, The New Republic e The New York Times; una
raccolta di saggi brevi è pubblicata nel volume Circostanze incendiarie.
Credits: Evaristo Sa / AFP
(*) ripreso da www.reset.it
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