L’immagine biblica del “diluvio
universale” e la costruzione di un’arca da parte di Noè per salvare l’umanità e
le altre specie da una distruzione certa, è troppo conosciuta per spiegarla. È
sufficiente solo chiarire che si tratta di una parabola presente in diverse
culture e che non è patrimonio esclusivo delle religioni che si ispirano alla
Bibbia.
Il diluvio è la
tormenta, nel linguaggio zapatista, per cui si tratta di un primo parallelismo
con le riflessioni dei movimenti anti-sistemici. Proprio come nel racconto della
Genesi, ai nostri giorni l’umanità affronta la possibilità della sua scomparsa
come conseguenza di un insieme di fattori come il cambiamento climatico e la
crisi degli antibiotici, ma soprattutto per la quarta guerra mondiale scatenata
da los de arriba contro l’umanità.
Una seconda
questione riguarda le ragioni per costruire un’arca. Ossia un rifugio davanti
alla catastrofe. Questo è uno dei temi centrali degli attuali movimenti e del
dibattito che promuove l’EZLN. Non si tratta di un rifugio al fine di
rinchiudersi bensì per proteggersi e continuare a costruire mondi nuovi, continuare a
resistere alle aggressioni del capitale e degli stati.
Lo zapatismo ci chiama a organizzarci,
un primo e ineludibile passo per affrontare la tormenta/diluvio. A partire da
questo passo, possiamo pensare a farne altri ancora, come costruire qualcosa di
nuovo e quindi difenderlo nel mezzo della distruzione. Il punto chiave è cosa e come costruire. Di per sé, ne consegue che non possono essere costruzioni identiche a quelle che stanno portando
l’umanità alla rovina.
A mio parere, queste [arche] sono le autonomie. Spazi creati e controllati dai
diversi abajos per sostenere la vita. Se non siamo capaci
di costruire le arche/autonomie, semplicemente non potremo sopravvivere alla
quarta guerra mondiale. Sono i modi per tenere lontano i potenti e le loro
guardie armate, perché sappiamo che vengono per noi.
Dobbiamo decidere
di quali materiali saranno le arche, quale progettazione devono avere, chi vi
può entrare. Il punto chiave, quello che ci distingue dall’arriba, è come
prendiamo le decisioni. Nel sistema capitalista le prendono una manciata di persone situate al
vertice della piramide sociale, i più ricchi e influenti. Tra di noi, le prende
la gente comune, los de abajo, uomini e donne
semplici.
La terza
questione consiste se Noè doveva tener conto o meno della derisione dei suoi
vicini, se doveva cercare di convincerli che il diluvio era imminente e le
ragioni per cui costruiva l’arca. Se si fosse dedicato a ciò, non gli avrebbero
dato né il tempo né le energie per finire il suo lavoro. L’esempio è la
migliore pedagogia.
In questo
momento, succede qualcosa di simile. Se dedichiamo le nostre energie a
discutere all’interno del sistema, che sia in campo elettorale o in qualsiasi
altro, che sia per conquistare un qualche governo o per “migliorare” quello già
esistente, allora non avremo le forze per costruire qualcosa di diverso. È l’esca che ci
mettono davanti per disarmare la nostra capacità di costruzione e quindi, di
resistenza.
La creazione del
nuovo e la resistenza si nutrono in forma reciproca. La resistenza non
può essere di pure idee, ideologica come si dice nei circoli di militanti
avvezzi. La resistenza di lunga durata deve includere l’acqua e il cibo (ma di
qualità), la salute e un’istruzione a nostra misura, scienza e tecniche
appropriate, giustizia comunitaria e difesa degli spazi e dei territori. Se non
è così, se si esaurisce nel discorso, è una resistenza che durerà poco,
probabilmente tanto quanto durano i discorsi.
Difendersi dai de arriba ma incentrarsi sui de abajo. Una volta
passata la tormenta, arriverà il momento della ricostruzione, che può essere il
momento di espandere i mondi nuovi che già esistono in piccole dimensioni,
nelle arche/autonomie che abbiamo costruito e difeso. Nulla è certo, né si
tratta di una proposta con pretesa di strategia, ma solo uno sguardo di quanto
fanno da qualche tempo una manciata di movimenti anti-sistemici.
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