Martedì 22 luglio a Roma il Consiglio comunale ha deciso di acquistare uno
stabile nel quartiere di Cinecittà, in Via Bibulo, per aggiungerlo al proprio
patrimonio abitativo, trasformando così un centinaio di appartamenti occupati
in case popolari. Il tutto a un costo molto vantaggioso (ventidue milioni di
euro), che rapidamente rientreranno nelle casse comunali attraverso i canoni
d’affitto, e che anzi in un tempo ravvicinato produrranno perfino una rendita.
Al di là dell’efficacia della procedura, che se estesa e moltiplicata
ridurrebbe sensibilmente la pressione dell’emergenza alloggiativa a Roma, e non solo quella
cronicizzata negli edifici occupati, la decisione di riguarda un
palazzo che ha una storia particolare. Mi prendo qualche riga per
raccontarla, perché penso possa rappresentare una felice esemplarità.
Nella primavera del 2005, vent’anni fa, l’allora X Municipio decise di
requisire quello stabile e vi sistemò centinaia di senzacasa, che altrimenti
avrebbero continuato a vivere in strada. La cosa suscitò un gran
clamore, immobiliaristi e palazzinari si allarmarono quanto non mai e la loro
stampa di complemento pubblicò pagine e pagine scandalizzate e intimidatorie.
Io stesso venni attaccato e minacciato con svariate canagliate. Com’era
pressoché scontato venni denunciato (Sandro Medici era
l’allora Presidente del Municipio X, ndr) per abuso di potere,
reato oggi allegramente abolito, e a lungo perseguito con richieste di danni
finanziari per svariati milioni di euro.
Grazie a queste denunce venimmo a scoprire chi fosse il proprietario dello
stabile di Via Bibulo. Era un monsignore che viveva e lavorava in Vaticano.
Successivamente, in occasione di altre requisizioni, c’imbattemmo in altri
proprietari, un detenuto nel carcere di Isernia per reati di camorra, una
contessa che aveva la sua residenza nel Principato di Monaco, ecc.
In sede penale venni assolto in tutt’e tre i gradi di giudizio: i giudici riconobbero
il mio diritto a requisire immobili vuoti e inutilizzati e non riscontrarono
alcun dolo da parte mia. Più lunga e tormentata fu invece la causa civile per
il risarcimento delle mancate rendite immobiliari, ma anche in quel caso
l’assoluzione fu piena. Non finirò mai di ringraziare i miei due compagni
avvocati, Lucentini e Grimaldi. Ma l’aspetto più interessante che
emerse da questa lunga ricaduta giudiziaria è che, in condizioni di emergenza
sociale, venne confermata la congruità del ricorso alla requisizione: strumento
giuridico che può essere usato dai sindaci o dai prefetti.
Nel frattempo, per venti lunghi anni, le famiglie beneficiarie
dalla requisizione si “barricarono” nel loro diritto, benché la validità
dell’ordinanza municipale si esaurì nel tempo. La loro fu una lotta di strenua
resistenza, che non cedette di un millimetro lungo le varie compravendite dello
stabile, con le relative minacce, intimidazioni e ingannevoli lusinghe.
Restarono unite e non furono sgomberate. Tutto questo fino a ieri. Da oggi in
poi potranno finalmente godere appieno del loro diritto a restare in quelle
case.
Quando ripenso a questa vicenda, mi torna sempre in mente una battuta
consolatoria che mi rivolse uno dei senzacasa all’indomani della requisizione:
“Al sindaco La Pira l’hanno fatto beato, a te, preside’, te volevano manda’ in
galera”.
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