Dietro ai sorrisi, ai fiori, agli applausi ben inquadrati dalle telecamere e alle strette di mano con il premier Abiy Ahmed, il viaggio di Giorgia Meloni in Etiopia conferma ciò che ormai appare chiaro: il cosiddetto Piano Mattei è una costruzione propagandistica, più utile a fare campagna elettorale che a definire una reale politica estera e di cooperazione.
Il viaggio, presentato come “storico”, non
ha prodotto nulla di realmente misurabile. Accordi vaghi, fondi non
quantificati, progetti indefiniti. Si parla di sviluppo, ma non si sa per chi,
come, né quando. Nessuna delle promesse ha una calendarizzazione concreta, e
gli investimenti italiani restano ipotetici, condizionati da dinamiche future
non precisate. Ancora una volta, si annuncia molto e si realizza poco.
Ma il problema più grave è la visione geopolitica
completamente assente. La premier si è recata in una delle aree più instabili
del continente africano senza nemmeno citare le tensioni crescenti tra Etiopia
ed Eritrea.
Silenzio sulla militarizzazione della
regione del Tigrai, sui rigurgiti autoritari del governo Abiy, sulle tensioni
lungo il corridoio del Mar Rosso, strategico anche per l’energia italiana. Se
si cerca stabilità senza parlare di conflitti, si mente per omissione.
Il silenzio di Meloni sui diritti umani è
ancora più grave. L’Etiopia è uno dei Paesi con la più alta incidenza di
sfollati, vittime civili, e repressioni politiche degli ultimi anni. Dopo la
brutale guerra civile nel Tigrai, non c’è stato alcun reale processo di verità
o riconciliazione.
L’idea di rafforzare i rapporti senza
neanche accennare a condizioni democratiche o libertà civili non è solo cinica:
è miope. Aiutare regimi repressivi non costruisce stabilità, la deteriora.
Il Piano Mattei – che si propone come
alternativa alla Cina e come argine alle migrazioni – continua a oscillare tra
una facciata di cooperazione solidale e un evidente intento securitario.
Dietro la narrazione umanitaria, si cela
l’idea che basti comprare la “buona volontà” dei governi africani per bloccare
i flussi verso l’Europa. Una logica da outsourcing coloniale, mascherata da
partenariato.
Infine, un’ultima osservazione: dove sono
i partiti di opposizione? Questo vuoto strategico e diplomatico dovrebbe
offrire terreno fertile per una critica politica chiara e alternativa. E invece
nulla.
Nessuna voce autorevole mette in
discussione le ambiguità del Piano Mattei, né denuncia la copertura politica
offerta a governi che reprimono, affamano e respingono. Anche su questo fronte,
il silenzio è assordante.
Se l’Italia pensa di costruire una nuova
relazione con l’Africa a colpi di sorrisi, contratti vuoti e omissioni comode,
il fallimento è garantito. E i costi – economici, politici e morali – li
pagheremo tutti.
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