Si contano a centinaia le morti chiamate ‘bianche’
solo perché non sono rivendicate. Fanno vergogna a chi le pedina e conta.
Eppure si tratta di crimini di pace, come aveva affermato Franco Basaglia
nell’omonimo libro che
denunciava la pazzia da esclusione. I crimini di pace sono il frutto del
sistema violento e perverso che li produce e li esporta. Nel Sahel ne sappiamo
qualcosa, grazie alle nostre frontiere coloniali. Il problema è che non sembrano neppure crimini ma opere di
bene umanitario. La sola differenza coi crimini di guerra è perchè questi
ultimi occupano lo spazio mediatico che li fa esistere agli occhi. I crimini di pace mettono insieme misure di contenimento,
progetti di sviluppo e reti metalliche spinate quando occorre.
Alla radice di questi
crimini si trova l’invisibilità che sola può garantire la riuscita
dell’operazione. La prima
di queste si trova nel grembo materno che dell’assoluta povertà è il simbolo
più eloquente. L’attentato originario si riproduce poi in molte altre forme.
Chi non ha modo di difendersi, nel sistema neoliberale che solo valuta le
merci, sarà un oggetto tra gli altri, a volte vendibile come gli uteri. E’ in tempo di pace che questo occorre e
si insinua poi, come un virus, negli altri organi della democrazia selettiva. I
non nati non hanno chi li rappresenti e non ci si accorge che sono loro i primi
stranieri senza visto di soggiorno. Non si vogliono vedere e quando questo
occorre è troppo tardi per tutti. Il loro grido diventa un legame spezzato.
I crimini di pace hanno come mano
d’opera la parola. Nessuna di queste è innocente o neutrale. Ogni parola e ogni
verbo sono una vita che nasce o che si tradisce. La menzogna ne è
l’espressione più eloquente. Chi sulle parole ha il potere è come l’ultimo dio
in ordine di apparizione negli spettacoli. Le guerre sono azioni nobili, le
armi necessarie a prevenirle, l’economia di accumulazione è quanto di più
naturale ci sia, le migrazioni un’invasione e il migrante un potenziale
terrorista di cui l’illegalità non è che il primo passo, le elezioni un mercato
ambulante di promesse, il colonialismo porta civiltà e le frontiere sono
divinamente rivelate per il consolidamento delle identità nazionali. I crimini di pace sono effetti
collaterali.
Sono ospiti a Niamey in
attesa di trovare un paese e raccontano di essere stati detenuti per anni in
Libia. A
migliaia sotto un hangar con un pasto al giorno da consumare in fretta d’un
pezzo. Per usufruire dell’acqua la coda era interminabile e lo stesso per le
latrine. Lager nella sponda mediterranea
custodita dal Mare Nostro, con aguzzini nelle due sponde, gli uni per fare ciò
per cui gli altri pagano. I crimini di pace sono possibili perché si appaltano
a chi accetta di perpetrarli. In questo mondo di ladri la mano d’opera non
manca. Chi con la camicia e i polsini e chi con la mimetica, il prodotto
finale è lo stesso. Si tratta di crimini di pace garantiti da accordi
internazionali firmati e poi ratificati dall’ipocrisia sovrana dei potenti.
Per Basaglia i crimini di
pace, per essere dichiarati tali, devono possedere base empirica. Derivano
dall’impianto istituzionale così com’è andato formandosi con le scelte
politiche. Muoiono di sete nel deserto, sono rinsecchiti dal vento, sepolti
nella sabbia del mare, scompaiono con la carestia annunciata nel Niger meta di
pellegrinaggi delle missioni militari. Almeno 800 mila persone a rischio, calcola
l’UNICEF, che si occupa di sé e dei bambini quando capita. L’insicurezza di
cibo è un crimine di pace mentre i politici si mettono a commerciare la polvere
del Niger sperando diventi oro quanto prima sul mercato. E’ di queste ore la
notizia della scoperta di nuovi possibili giacimenti di idrocarburi nel deserto
del Niger. Si sa, i crimini di pace prosperano sempre nel sottosuolo.
Niamey, febbraio 018
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