Per quanto mi sforzi di ricordare, non riesco a trovare nessun atleta, nella storia dello sport, che abbia avuto la potenza pura di Jonah Lomu. L’unico che forse poteva avvicinarlo è il pugile George Foreman. Nessun altro mi viene in mente. (Anzi, mi torna in mente un tale Ben Johnson, velocista squalificato per doping, dotato di una potenza mostruosa, ma frutto più della chimica che del talento).
Nessuno del peso di 118 chili e dell’altezza di 1 metro e 96 era in grado di correre i 100 metri in 10 secondi e 8 decimi, tempo preso quanto Lomu era ancora ragazzino. Un mostro.
Lomu giocava per la nazionale neozelandese. Veniva dai bassifondi di Auckland, figlio di genitori Tongani. Non era di etnia maori, quelli della famosa danza Haka, ma era pur sempre uno di quei “aborigeni” che nell’emisfero australe solo il Rugby poteva riscattare.
Palla alla mano Lomu ha fatto la leggenda del Rugby. Durante la Coppa del mondo del 1995, fece una meta travolgendo uno dietro l’altro tre dei più forti giocatori della nazionale inglese. Contro la Francia si trovò, ai mondiali di Rugby del 1999, circondato di sei avversari. Bucò quella muraglia di bestioni come se niente fosse.
E’ come se attorno alla sua figura si formasse un alone di invincibilità. Improvvisamente, dal mucchio, spuntava lui alla velocità di un treno in corsa. Afferrava la palla vagante ad una velocità che ti faceva dubitare che fosse davvero destinata a lui. Oppure i suo validi compagni sapevano che lì, in quel punto, nessun altro poteva afferrarla.
Sbucava lui ad una velocità pazzesca, dunque, e la controffensiva veniva subito annichilita da quella sola forza e potenza, qualche finta, qualche manata per tenere distanti gli avversari che, come mosche in nugolo, gli si formavano attorno. Il resto lo facevano la velocità e la forza. Chi gli stava dietro, non poteva raggiungerlo, chi gli stava davanti, veniva travolto.
Era come se fosse invincibile. Per tornare ai paragoni, solo Eddy Merckx, o Carlos Monzon, o, per certi versi, Pietro Mennea, hanno fornito alla storia dello sport la stessa sensazione di prepotenza, di invincibilità, di voglia di vincere. Una forza oscura, misteriosa, sembrava animarlo, palla alla mano.
Per i puristi dello sport, per gli esteti del gesto atletico, era una meraviglia da ammirare. La corsa era quella di un centrometrista naturale, con la spinta completa e le ginocchia tenute alte. Impressionava poi la facilità con cui l’atleta fintava e scartava lateralmente, a quella velocità.
In soli due campionati del mondo Lomu stabilì il record dei punti ottenuti tramite le mete. Purtroppo la sua carriera, di fatto, si è interrotta a soli 25 anni, con la terribile diagnosi della nefropatia.
E’ come se madre natura avesse concentrato tutta la potenze mostruosa in un solo corpo, ma con una breve scadenza. Per solo 5 anni, Lomu, mostrò al mondo il suo impareggiabile talento.
Tutto quel concentrato di forza esplosiva risiedeva in una macchina imperfetta, difettosa, affetta da questa malattia, la sindrome nefropatica, che distrugge anima e corpo con inesorabile e logorante lentezza.
Il gigantesco rugbista iniziò così il suo calvario, fino al primo trapianto del rene, avvenuto nel 2007. Tuttavia, le dialisi e il trapianto non gli impedirono di giocare fino al 2010, anche se in squadre minori, persino dilettantistiche. Il rugby era la sua vita.
Dammi il tempo, malattia, per vedere crescere i miei figli, diceva con tutto l’ottimismo possibile. Anche dopo il rigetto del trapianto, avvenuto nel 2011.
L’immagine che mi viene in mente, ora, in associazione mentale e involontaria, è quella in bianco e nero di un letto di ospedale, dove annaspa moribondo un uomo, magro e ossuto, con il volto caratterizzato dalle inconfondibili guance scavate e il naso sottile e aquilino. Forse il più grande ciclista di tutti i tempi, Fausto Coppi, morto a 40 anni per una malaria contratta durante una gara in Africa. Certamente è quel numero tondo, 40, che mi porta ad associare queste due figure dello sport, unite dalla leggenda, dal mito, e da una morte così ingiusta.
Jonah Lomu muore il 18 novembre del 2015, a soli 40 anni.
da qui
Nessuno del peso di 118 chili e dell’altezza di 1 metro e 96 era in grado di correre i 100 metri in 10 secondi e 8 decimi, tempo preso quanto Lomu era ancora ragazzino. Un mostro.
Lomu giocava per la nazionale neozelandese. Veniva dai bassifondi di Auckland, figlio di genitori Tongani. Non era di etnia maori, quelli della famosa danza Haka, ma era pur sempre uno di quei “aborigeni” che nell’emisfero australe solo il Rugby poteva riscattare.
Palla alla mano Lomu ha fatto la leggenda del Rugby. Durante la Coppa del mondo del 1995, fece una meta travolgendo uno dietro l’altro tre dei più forti giocatori della nazionale inglese. Contro la Francia si trovò, ai mondiali di Rugby del 1999, circondato di sei avversari. Bucò quella muraglia di bestioni come se niente fosse.
E’ come se attorno alla sua figura si formasse un alone di invincibilità. Improvvisamente, dal mucchio, spuntava lui alla velocità di un treno in corsa. Afferrava la palla vagante ad una velocità che ti faceva dubitare che fosse davvero destinata a lui. Oppure i suo validi compagni sapevano che lì, in quel punto, nessun altro poteva afferrarla.
Sbucava lui ad una velocità pazzesca, dunque, e la controffensiva veniva subito annichilita da quella sola forza e potenza, qualche finta, qualche manata per tenere distanti gli avversari che, come mosche in nugolo, gli si formavano attorno. Il resto lo facevano la velocità e la forza. Chi gli stava dietro, non poteva raggiungerlo, chi gli stava davanti, veniva travolto.
Era come se fosse invincibile. Per tornare ai paragoni, solo Eddy Merckx, o Carlos Monzon, o, per certi versi, Pietro Mennea, hanno fornito alla storia dello sport la stessa sensazione di prepotenza, di invincibilità, di voglia di vincere. Una forza oscura, misteriosa, sembrava animarlo, palla alla mano.
Per i puristi dello sport, per gli esteti del gesto atletico, era una meraviglia da ammirare. La corsa era quella di un centrometrista naturale, con la spinta completa e le ginocchia tenute alte. Impressionava poi la facilità con cui l’atleta fintava e scartava lateralmente, a quella velocità.
In soli due campionati del mondo Lomu stabilì il record dei punti ottenuti tramite le mete. Purtroppo la sua carriera, di fatto, si è interrotta a soli 25 anni, con la terribile diagnosi della nefropatia.
E’ come se madre natura avesse concentrato tutta la potenze mostruosa in un solo corpo, ma con una breve scadenza. Per solo 5 anni, Lomu, mostrò al mondo il suo impareggiabile talento.
Tutto quel concentrato di forza esplosiva risiedeva in una macchina imperfetta, difettosa, affetta da questa malattia, la sindrome nefropatica, che distrugge anima e corpo con inesorabile e logorante lentezza.
Il gigantesco rugbista iniziò così il suo calvario, fino al primo trapianto del rene, avvenuto nel 2007. Tuttavia, le dialisi e il trapianto non gli impedirono di giocare fino al 2010, anche se in squadre minori, persino dilettantistiche. Il rugby era la sua vita.
Dammi il tempo, malattia, per vedere crescere i miei figli, diceva con tutto l’ottimismo possibile. Anche dopo il rigetto del trapianto, avvenuto nel 2011.
L’immagine che mi viene in mente, ora, in associazione mentale e involontaria, è quella in bianco e nero di un letto di ospedale, dove annaspa moribondo un uomo, magro e ossuto, con il volto caratterizzato dalle inconfondibili guance scavate e il naso sottile e aquilino. Forse il più grande ciclista di tutti i tempi, Fausto Coppi, morto a 40 anni per una malaria contratta durante una gara in Africa. Certamente è quel numero tondo, 40, che mi porta ad associare queste due figure dello sport, unite dalla leggenda, dal mito, e da una morte così ingiusta.
Jonah Lomu muore il 18 novembre del 2015, a soli 40 anni.
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