Il pane carasau è un pane della mia
terra. È costituito da fogli rotondi di un sottile impasto, abbrustolito e
croccante. È fragile e si spezzetta facilmente, ma può essere anche bagnato e
in pochi minuti un foglio si trasforma in un lenzuolo di pane. Può essere così
piegato, arrotolato o tagliato nel modo che si preferisce.
Provengo da un’isola, nella quale forte si
fa sentire il canto del mare che chiama. Una stanza può diventare una gabbia,
una casa un carcere, un’isola può finire per soffocare. Nella mia terra non è
troppo facile vivere e il mio mare sa cantare canzoni che ti fanno venir voglia
di andar via. I desideri diventano necessità, le aspirazioni lavori, le
metropoli case in cui risiedere. La mia è una terra di partenze.
Provengo da una terra in cui si parla
un’altra lingua. Gli anziani custodi della lingua sono suonatori virtuosi, è un
piacere ascoltarli. Sono lenti e pazienti nei gesti, scorbutici nei modi ma
come se dovessero difendersi. Hanno le mani spaccate dal lavoro e quasi mai
pulite del tutto. Quando parlano sembrano recitare delle formule magiche. Anche
il più stupido fra loro appare saggio, e se apre bocca per parlare cancella
ogni traccia di stupidità. La mia è una terra di musica.
Provengo da un mondo con le lacrime agli
occhi e il coltello in tasca. Spesso siamo uno contro l’altro, affoghiamo il
dolore nel sangue, non sappiamo perdonare. Le madri piangono i figli. L’odio ha
trovato posto fra i nostri monti e ho paura tarderà ad andare via. Siamo in
pochi, è facile prendersela con il più vicino. Fra noi c’è chi è stato capace
di barbarie imperdonabili.
Provengo da un mondo con le lacrime agli
occhi e il riso e il grano fra le mani. Fra la mia gente ho conosciuto l’amore
tenero e sincero di chi può andare avanti solo condividendo tutto. Si piange
per la felicità del figlio sposo. Sappiamo festeggiare e volerci bene. I nostri
bambini, quando parlano come solo qui si parla, sembrano avere centinaia d’anni
e fanno sorridere. La mia, come tutte, è una terra di gente. Bella e
brutta.
Provengo direttamente dalla bellezza. Il
mare qui è azzurro. La primavera verde di vita, l’estate gialla di sole,
l’autunno rosso di vino e l’inverno bianco di neve. Il vento sconvolge i
pensieri, il sole si fa maledire per quanto è forte. Abbiamo case in pietre e
legno veri, paesini sparpagliati sulle vallate, alternati a pascoli e boschi.
La mia è una terra di colori.
Provengo dal meravigliarsi. Da noi tutti
hanno da parte un’espressione, per quando ci si meraviglia. E tutto ci ha
meravigliato, almeno una volta. Dirai, questo capita dappertutto: sì, ma è un
processo che dopo un po’ si ferma. Qui c’è gente pronta a meravigliarsi ancora
oggi per il telefono senza fili, e non è uno scherzo. Ci si meraviglia per i
turisti molto alti, per certi modi di comportarsi, per certe usanze. E chi
arriva qui fa lo stesso, ma al contrario. C’è davvero da meravigliarsi per le
vecchine minuscole, per certi modi di vestirsi e di comportarsi, per certe
tradizioni. La mia è una terra di meraviglie.
Provengo da un luogo in cui tutto sembra
dover essere per sempre. Ci sono maschere, costumi, canti e balli: raccontano
la storia della mia isola a testa alta. Da sempre. I litigi, da me, sono per
sempre. L’amicizia e la lealtà. Niente è vero in assoluto, è chiaro. Per
fortuna o per sfortuna, questo dipende. La mia terra è la mia terra, lo sarà
per sempre. Non ci sarà altro posto che potrò mai chiamare casa.
Tutto da me è come il pane carasau.
Appariamo forti, sembra preferiamo spezzarci piuttosto che piegarci. È proprio
così, eppure una parola gentile o una difficoltà vera ci ammorbidiscono
l’anima. Abbiamo il cuore come il sughero. Ruvido e fastidioso al tatto, ma a
saperlo lavorare vengono fuori dei capolavori.
Questo è per gli esuli, per chi ha
ascoltato il canto del mare senza dimenticare. Se qualcuno di loro lo stampasse
e lo leggesse a voce alta, e il suono che ne verrebbe fuori gli piacesse.
Allora mi piacerebbe pensare: stampata, questa sarebbe carta da musica.
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