lunedì 28 agosto 2017

Paura della morte - Rita

  
Della domesticazione della natura si parla da secoli, ci hanno scritto su migliaia di libri e girato centinaia di film. 
Della rimozione della nostra parte selvatica che si esprime attraverso la soppressione degli istinti - e meno male, riguardo alcuni, la civilizzazione ha comunque innegabilmente portato anche dei vantaggi - e del selvatico in generale pure.
Cosa ci resta da dire?
Forse che osservare non basta più.
Dobbiamo mettere in moto pratiche collettive più incisive per spazzare via l'antropocentrismo e quel concetto sbagliato di razionalità come negazione del sentimento. La razionalità senza il sentimento è asettica gestione delle risorse senza comprenderne la complessità e vitalità. La razionalità senza il sentimento è quella che ha permesso il nascere dei lager e che ora dice di dover chiudere le porte agli immigrati. È quella che ha ucciso Daniza e KJ2, ma continua a far prosperare gli zoo perché lì gli orsi si possono ammirare senza pericolo. È quella che ha consentito il nascere degli allevamenti e dei mattatoi e che distrugge foreste e interi ecosistemi in nome dell'ottimizzazione delle risorse; è quella che aliena la maggior parte della popolazione imprigionandola dentro schemi esistenziali, orari, convenzioni. 
È quella che pretende di sconfiggere la morte uccidendo migliaia di animali dentro i laboratori e che, soprattutto, ha amplificato la paura della morte facendoci vivere in punta di piedi e trattenendo il respiro, così facendoci morire ancor prima che l'evento naturale si verifichi. 
Vogliamo che nulla ci turbi, che nulla metta in pericolo quella che crediamo essere la nostra tranquillità e le nostre certezze senza sapere che è tutto illusorio. 
Temiamo l'invasione dello straniero, il caldo, il freddo, i terremoti, le alluvioni, gli animali selvatici e anche quelli semiselvatici perché ci potrebbero ferire, uccidere, trasmettere malattie. 
Sì, certo, alcune di queste cose come i disastri naturali possono mettere effettivamente in pericolo la nostra esistenza, così come ci si può ammalare in qualsiasi momento o si può restare coinvolti in un incidente (fatto, questo, molto più probabile dell'aggressione di un orso in montagna), ma il pensiero che possa accadere ci terrorizza ancora più dell'evento in sé che non è affatto detto che si verificherà. E pure queste fobie diffuse, queste nevrosi che ci caratterizzano così tanto e che sono diventate oramai tratti peculiari della nostra identità anziché patologie da curare, sono sempre da ascrivere al più ampio concetto di razionalità inteso come soppressione del sentimento, ossia del sentire.
Abbiamo così paura che temiamo anche il sentire, vogliamo smettere di sentire, ci anestetizziamo di surrogati e di tutto quello che ci distoglie da noi e dalla realtà che ci circonda. Poi, quando la realtà torna a colpirci per qualche motivo, siamo incapaci di viverla, di comprenderla, di accoglierla e ci facciamo cogliere, letteralmente, dal panico (che subito mettiamo a tacere con la pasticchina di ansiolitico).
La paura della morte ci fa giocare - un gioco che prendiamo terribilmente sul serio - a essere già morti come se troppa vita ci facesse male. E non la tolleriamo in chi ancora sa vivere pienamente - gli altri animali, per esempio, che definiamo stupidi, sciocchi, poco intelligenti; per questo vogliamo tenere lontano da noi chi rischia il tutto e per tutto pur di sopravvivere perché un istinto di vita ancora ce l'ha, come gli immigrati che fuggono da pericoli reali, gli animali selvatici che ne sono ebbri, i bambini e tutto ciò che ci ricorda che essa, la potenza di vita, cresce in ogni dove e si manifesta ovunque, come quelle piantine selvatiche che spuntano tra le crepe del cemento.
In Rumore Bianco, Don DeLillo dice che uccidiamo nell'illusione di sconfiggere la nostra stessa morte. 
Ma l'unico antidoto alla paura della morte che possa davvero funzionare è uno soltanto: vivere e lasciar vivere. 

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