Della domesticazione della natura si parla da secoli,
ci hanno scritto su migliaia di libri e girato centinaia di film.
Della rimozione della nostra parte selvatica che si
esprime attraverso la soppressione degli istinti - e meno male, riguardo
alcuni, la civilizzazione ha comunque innegabilmente portato anche dei vantaggi
- e del selvatico in generale pure.
Cosa ci resta da dire?
Forse che osservare non basta più.
Dobbiamo mettere in moto pratiche collettive più
incisive per spazzare via l'antropocentrismo e quel concetto sbagliato di
razionalità come negazione del sentimento. La razionalità senza il sentimento è
asettica gestione delle risorse senza comprenderne la complessità e vitalità.
La razionalità senza il sentimento è quella che ha permesso il nascere dei
lager e che ora dice di dover chiudere le porte agli immigrati. È quella che ha
ucciso Daniza e KJ2, ma continua a far prosperare gli zoo perché lì gli orsi si
possono ammirare senza pericolo. È quella che ha consentito il nascere degli
allevamenti e dei mattatoi e che distrugge foreste e interi ecosistemi in nome
dell'ottimizzazione delle risorse; è quella che aliena la maggior parte della
popolazione imprigionandola dentro schemi esistenziali, orari,
convenzioni.
È quella che pretende di sconfiggere la morte
uccidendo migliaia di animali dentro i laboratori e che, soprattutto, ha
amplificato la paura della morte facendoci vivere in punta di piedi e
trattenendo il respiro, così facendoci morire ancor prima che l'evento naturale
si verifichi.
Vogliamo che nulla ci turbi, che nulla metta in
pericolo quella che crediamo essere la nostra tranquillità e le nostre certezze
senza sapere che è tutto illusorio.
Temiamo l'invasione dello straniero, il caldo, il
freddo, i terremoti, le alluvioni, gli animali selvatici e anche quelli
semiselvatici perché ci potrebbero ferire, uccidere, trasmettere
malattie.
Sì, certo, alcune di queste cose come i disastri naturali
possono mettere effettivamente in pericolo la nostra esistenza, così come ci si
può ammalare in qualsiasi momento o si può restare coinvolti in un incidente
(fatto, questo, molto più probabile dell'aggressione di un orso in montagna),
ma il pensiero che possa accadere ci terrorizza ancora più dell'evento in sé
che non è affatto detto che si verificherà. E pure queste fobie diffuse, queste
nevrosi che ci caratterizzano così tanto e che sono diventate oramai tratti
peculiari della nostra identità anziché patologie da curare, sono sempre da
ascrivere al più ampio concetto di razionalità inteso come soppressione del
sentimento, ossia del sentire.
Abbiamo così paura che temiamo anche il sentire,
vogliamo smettere di sentire, ci anestetizziamo di surrogati e di tutto quello
che ci distoglie da noi e dalla realtà che ci circonda. Poi, quando la realtà
torna a colpirci per qualche motivo, siamo incapaci di viverla, di
comprenderla, di accoglierla e ci facciamo cogliere, letteralmente, dal panico
(che subito mettiamo a tacere con la pasticchina di ansiolitico).
La paura della morte ci fa giocare - un gioco che
prendiamo terribilmente sul serio - a essere già morti come se troppa vita ci
facesse male. E non la tolleriamo in chi ancora sa vivere pienamente - gli altri
animali, per esempio, che definiamo stupidi, sciocchi, poco intelligenti; per
questo vogliamo tenere lontano da noi chi rischia il tutto e per tutto pur di
sopravvivere perché un istinto di vita ancora ce l'ha, come gli immigrati che
fuggono da pericoli reali, gli animali selvatici che ne sono ebbri, i bambini e
tutto ciò che ci ricorda che essa, la potenza di vita, cresce in ogni dove e si
manifesta ovunque, come quelle piantine selvatiche che spuntano tra le crepe
del cemento.
In Rumore Bianco, Don DeLillo dice che uccidiamo
nell'illusione di sconfiggere la nostra stessa morte.
Ma l'unico antidoto alla paura della morte che possa
davvero funzionare è uno soltanto: vivere e lasciar vivere.
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