Una nuova guerra, subdola e silenziosa, è
iniziata contro i popoli nativi del Nord America, sia in Canada sia negli Usa:
la guerra dell’acqua e del petrolio, dichiarata dalle multinazionali, in
particolare dalla compagnia Enbridge, che in nome del progresso e dei profitti
sta mettendo a repentaglio la stessa terra, i fiumi e le risorse necessarie per
sopravvivere in quei territori.
La realizzazione di un gigantesco oleodotto, il Dapl
(Dakota Access Pipeline), definito emblematicamente «serpente nero», che
prevede l’attraversamento di quattro stati, tra cui il North Dakota, passerà
anche sotto il fiume Missouri e diversi altri corsi d’acqua, minacciando
seriamente l’incolumità di milioni di persone, tra cui gli indigeni della
nazione Hunkpapa Lakota di Standing Rock.
L’oleodotto è un progetto che costa circa 4 miliardi di
dollari e che dovrebbe portare 470mila barili di petrolio al giorno, dai
giacimenti petroliferi della parte occidentale del North Dakota fino
all’Illinois, dove sarebbe collegato con altre condotte. Le proteste dei Lakota
sono iniziate già dallo scorso aprile ed hanno coinvolto diverse altre tribù
(Cheyenne, Arapaho, Crow) trasformandosi nel più grande raduno permanente dai
tempi della storica occupazione di Wounded Knee, nel 1973. All’allargamento
della rivolta, ferma ma pacifica, purtroppo c’è stata una risposta repressiva e
violenta da parte della polizia, con pestaggi, arresti indiscriminati di più di
40 nativi e persino l’utilizzo di cani da combattimento aizzati anche contro
donne e bambini. Tra gli arrestati spiccano i nomi del presidente tribale Dave
Archambault II e quello del consigliere tribale Dana Wasinzi, rei di aver
oltrepassato il cordone di sicurezza degli agenti. E’ emblematico il fatto che,
ancora oggi, esponenti delle tribù amerindie vengano arrestati per violazione
di domicilio della loro stessa terra.
Nella dichiarazione congiunta «No Keystone XL Pipeline
Will Cross Lakota Lands», i movimenti indigeni Honor the Heart, Oglala Sioux
Nation, Owe Aku e Protect the Sacred, si rivolgono direttamente al presidente
degli Stati uniti, Barack Obama: «La Oglala Lakota Nation ha assunto la
leadership dicendo «no» alla Keystone XL Pipeline. Ha fatto ciò che è giusto
per la terra, per il suo popolo ed ha invitato i suoi leader ad alzarsi in
piedi e proteggere le loro terre sacre. E hanno detto che il KXL non deve
attraversare il territorio che si estende oltre i confini della Riserva. I loro
cavalli sono pronti. Così come lo sono i nostri. Noi siamo con la Nazione
Lakota, siamo al loro fianco per proteggere l’acqua sacra, stiamo con loro
perché gli stili di vita indigeni basati sulla terra non siano danneggiati da un
oleodotto nocivo e tossico.
Riconoscendo la responsabilità di proteggere Madre Terra,
i popoli indigeni non permetteranno che questo oleodotto attraversi le nostre
aree protette dal Trattato». A seguito della mobilitazione, la costruzione
dell’oleodotto è stata temporaneamente sospesa, in attesa della decisione di un
giudice federale. Nel frattempo, la società di costruzione dell’impianto, la
«Partner Energy Transfer», ha citato in giudizio diversi manifestanti indigeni,
accusandoli di intimidire gli imprenditori e di bloccare i lavori di
costruzione.
Inizialmente la rivolta è stata silenziata dai media locali, che in molti casi hanno utilizzato la già collaudata tecnica di criminalizzazione dell’azione intrapresa dagli esponenti indigeni.
Inizialmente la rivolta è stata silenziata dai media locali, che in molti casi hanno utilizzato la già collaudata tecnica di criminalizzazione dell’azione intrapresa dagli esponenti indigeni.
Il Governatore del South Dakota, Jack Dalrymple (tra
l’altro è anche il consigliere di Donald Trump), ha cercato in tutti i modi di
disperdere i manifestanti con posti di blocco e il taglio dell’acqua nei campi
dove i dimostranti erano radunati. In seguito è emerso che Dalrymple, assieme
ad altri sostenitori del progetto KXL, possiedono quote nella società stessa e
che sono quindi in palese conflitto d’interessi.
Dopo diversi appelli, continue marce di protesta e il
coinvolgimento attivo di personalità dello spettacolo, tra cui Leonardo Di
Caprio e Susan Sarandon, la vicenda è stata finalmente ripresa anche sulla
prima pagina del New York Times e su diversi altri media americani e
internazionali.
Il 9 settembre scorso, un giudice federale ha però
respinto la richiesta dei nativi e delle associazioni ambientaliste, decidendo
quindi di far proseguire i lavori dell’oleodotto. Ma, nello stesso giorno,
subito dopo la decisione del giudice, è scesa in campo l’amministrazione Obama
che, attraverso il Dipartimento di giustizia, ha emanato un decreto che
sembrerebbe bloccare i lavori di costruzione nell’area in cui si trova la
riserva dei nativi. Ma un articolo di Jafari Tishomingo e M. David, pubblicato
sul Counter Current News dell’11/09/2016 ci mette in guardia: «Obama ha solo
suggerito di “fermare volontariamente” la costruzione del pipeline per un
piccolo tratto del gasdotto proposto, d’accordo con i leaders di Standing Rock
coi quali ha parlato. Quindi, perché il governo esagera, se non addirittura
mente, su quello che è successo con la Casa Bianca nell’“intervento” di
venerdì? Molti dei manifestanti del campo di Standing Rock ritengono che il
motivo sia quello di convincere la gente a desistere».
L’efficacia della protesta Lakota risiede nel fatto che
essi non si considerano semplici «protestors», cioè manifestanti, ma
«protectors», vale a dire protettori che stanno lottando non solo
egoisticamente per una causa che li riguarda, ma per la Madre Terra, quindi per
tutti noi.
Una delle loro parole d’ordine è Mni wiconi, cioè
«L’acqua è vita». Confidiamo che possa continuare ad esserlo.
(*) ripreso da «il manifesto» del 14 settembre
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