I
puntini sulla mappa hanno nomi come Nueva Esperanza, Nuevo Destino, Nueva
Patria. Oppure El Porvenir (“l’avvenire”) o ancora nomi di santi, perfino un
ottimista Nuevo Paris. Sono villaggi sparsi intorno alla cittadina di Pucallpa,
nell’Amazzonia peruviana, tra canali e lagune formati dal fiume Ucayali – che
poi è il Rio delle Amazzoni, che per una buona metà scorre in Perù. Qui però è
indicato con altri nomi: Urubamba quando scende dalle Ande sotto a Cuzco,
Ucayali quando ha raggiunto la pianura, infine Amazonas ma solo centinaia di
chilometri più a valle, dopo la fusione con il fiume Marañon.
Insomma:
siamo nella parte più occidentale e remota del bacino amazzonico; da qui il
fiume percorrerà ancora più di cinquemila chilometri prima di raggiungere
l’oceano Atlantico.
Alla
fine dell’ottocento Pucallpa era solo una missione francescana sperduta nella
selva. Poi sono arrivati i caucheros, avventurieri che hanno
accumulato fortune mandando i nativi a estrarre il caucciù (sì, come Fitzcarraldo,
ma la realtà era meno romantica e più violenta): è stato il primo sfruttamento
“industriale” dell’Amazzonia. Poi sono arrivati imprenditori in cerca di legno
pregiato.
Il fiume della speranza
Nel
1945 è arrivata anche la strada, l’unica che collega Lima all’Amazzonia
scavalcando le Ande. Così Pucallpa è diventata una piccola città: oggi conta
220mila abitanti, alcune vie asfaltate, il mercato, le scuole, ed è il primo
porto fluviale con un regolare servizio di traghetti per navigare a valle (cioè
verso nord). Un crocevia di commercio, passaggio di tagliatori di legname
(spesso di frodo), imprenditori, avventurieri, missionari, nativi. E
poverissimi contadini meticci arrivati dalle Ande o dalla costa in cerca di
fortuna: per questo i villaggi dell’Amazzonia si chiamano destino, speranza,
avvenire.
All’alba
di un giorno di luglio partiamo in direzione di quei puntini. Eccoci a Puerto
Callao, sul lago di Yarinacocha che in realtà è una laguna dell’Ucayali appena
a nord di Pucallpa. Voltiamo le spalle a un “lungolago” di ristorantini
popolari, piccoli negozi di generi vari, e alcuni bar con verande e nomi
esotici.
Nella
stagione delle piogge il lago sale fin qui, ma ora è in secca e bisogna
scendere una lunga scarpata fino all’imbarcadero, cioè le barche tirate in
secca e qualche passerella di legno per non scivolare sulla sponda argillosa.
Ci facciamo largo tra il vociare dei venditori di pesce e i richiami dei
barcaioli che fanno la spola tra le località del lago. Infine eccoci sulla
Normita, barca dalla sagoma allungata, con una tettoia a dare ombra e un motore peki-peki,
con l’elica retta da un’asta che permette di sollevarla quando il fondale è
troppo basso. Abbiamo l’attrezzatura essenziale: tenda-zanzariera, acqua
potabile, vettovaglie, carburante, fornellino, lampada a petrolio e qualche
torcia. E una guida esperta, buon conoscitore della natura e degli umani della
zona.
Attraversato
il lago passiamo il villaggio San Francesco, fondato da un padre francescano
con nativi shipibo “riscattati” dai caucheros. Imbocchiamo un
canale che taglia verso il rio Ucayali. È solo un fiumiciattolo fangoso, ma c’è
un intenso traffico, barche collettive, chiatte cariche di merci, canoe. Sulle
sponde si intravede a volte una coltivazione di banani, un orto, magari una canoa,
segno che dietro c’è un villaggio. Passiamo accampamenti temporanei di
pescatori, semplici amache sotto piccole tettoie: pescano un paio di giorni poi
vanno a vendere il pescato a Pucallpa.
Attraversato
l’Ucayali imbocchiamo il rio Blanco, un piccolo affluente sul lato orientale.
Qui la vegetazione è più vecchia, grandi ficus con radici a lamine, liane che
diventano tronchi, mangrovie con le radici in acqua: ma è una foresta rada
perché gli alberi più pregiati sono scomparsi, tagliati da tempo.
Il fiume
si stringe. La nostra guida descrive in modo variopinto gli animali della
foresta, uccelli, serpenti. Promette di mostrarci i caimani, che si acquattano
nella riva fangosa lasciando fuori solo gli occhi che di notte brillano come
catarifrangenti, e scattano appena vedono una preda. Parla dell’anaconda, che
quando ha fame esce dall’acqua ed è capace di portarsi via una pecora o un bue
da cento chili: “Lo rispetto molto, l’anaconda”. Nei passaggi difficili si
siede a prua per segnalare gli ostacoli al figlio, che guida la barca tra
secche e correnti.
Imbocchiamo
il rio Calleria, passiamo il villaggio Patria Nueva. Giunti a un ampio approdo
lasciamo la Normita e risaliamo un sentiero fino al villaggio Calleria, abitato
da nativi shipibo. Bel villaggio, solide case di legno costruite su palafitta,
tetti di foglie di palma rifatti con cura ogni anno. Ogni casa ha il suo
pannello solare, grazie a un progetto sovvenzionato dal governo. Strano però,
di solito nei villaggi nativi le case sono sparse tra gli alberi. Qui invece
sono tutte in vista, ben allineate ai due lati di un lungo prato che funge da
spazio comune, piazza, viale. Poi capisco: era una pista d’atterraggio per i
piccoli aeroplani usati dai missionari mandati dalla chiesa battista degli
Stati Uniti, con il progetto di evangelizzare i nativi traducendo la Bibbia
nelle loro lingue (quella del Summer institute of linguistics è una delle
storie più straordinarie e ambigue dell’Amazzonia moderna).
La teoria e la realtà della foresta protetta
Oggi
non vedo più missionari americani a Calleria; invece sento parlare il
linguaggio dello sviluppo sostenibile, le risorse naturali, i “saperi
ancestrali”. Il villaggio ha 315 abitanti, una settantina di famiglie. Luis, il
capovillaggio, spiega che molti giovani della comunità sono andati a studiare a
Pucallpa o fuori, a Lima, perfino all’estero, e “sono tornati con grandi idee
di sviluppo”. Ora i dirigenti della comunità sono eletti “con il metodo
democratico”, spiega.
“La comunità è molto cambiata negli ultimi anni”. Luis mostra con
orgoglio l’antenna parabolica, la radio e il telefono pubblico; la scuola e la
casa comune. Parla di forestazione sostenibile, che significa tagliare solo
alberi adulti, non a tappeto ma a “sfoltimento”, su un ciclo ventennale per
lasciar crescere la foresta; ci lavorano 12 persone, “appena avremo la
certificazione forestale potremo vendere il nostro legname”. Infine ci porta
giù verso il fiume a vedere l’immancabile allevamento di pesce (ogni villaggio
nativo ne progetta uno) e le vasche con i girini di paiche, il più pregiato tra
i grandi pesci dell’Amazzonia, che si sta estinguendo per eccesso di pesca (di
frodo, perché è una specie protetta: ma ceviche e zuppe di paiche sono servite
in tutte le osterie dell’Amazzonia peruviana).
Il
progetto qui è ripopolare il fiume con giovani paiche e anche venderne sul
mercato, perché resta un pesce ricercato.
Il rio
Calleria si addentra serpeggiando nella zona “intangibile”, secondo la
definizione burocratica. In parte è riserva indigena: ogni comunità ha il suo
territorio e ha il diritto di estrarne le risorse (incluso il legname), per
questo a Calleria aspettavano la certificazione.
Altrimenti,
tagliare alberi o estrarre qualunque risorsa è vietato ai non nativi –
“intangibile” – almeno in teoria. Nei fatti, la regione alla frontiera tra il
Perù e il Brasile è terra di conquista per tagliatori di frodo. La deforestazione
illegale è così massiccia che, secondo uno studio della Banca mondiale, l’80
per cento del legname esportato dal Perù è tagliato illegalmente.
I
tagliatori di frodo sono bande armate che invadono il territorio dei nativi, si
accampano nella foresta profonda con le loro motoseghe, tagliano il possibile –
mogano, cedro, caoba, specie protette dal legno pregiato – e poi caricano il
bottino su chiatte e barche. Proprio da queste parti qualche tempo fa la
forestale ha fatto irruzione in un campo
illegale, arrestato 15 abusivi e recuperato 12 metri cubi di buon legno. Spesso
gli abusivi ingaggiano piccole guerre per difendere la loro economia illegale,
anche se poi loro stessi sono solo l’ultima pedina. Due anni fa alcuni
dirigenti nativi ashaninka sono stati assassinati, dopo aver denunciato un traffico
illegale con complicità di spicco.
Ridiscendiamo
verso la laguna. Due ragazzi su una canoa si avvicinano per venderci dei pesci.
Saranno la cena, fritti sulla nostra barca insieme a fette di platano, la
banana verde. Butto in acqua lische e teste di pesce, ma faccio appena in tempo
a vederle scomparire in un guizzo: divorate all’istante da piccoli piranha,
voracissimi, poco più grandi del palmo di una mano (piccola ecologia
quotidiana: gli scarti organici rientrano subito nel ciclo naturale).
Suoni inaspettati
Prima
del tramonto troviamo una radura dove sistemare il campo per la notte, prima
che il crepuscolo porti i terribili sancudos, grossi tafani.
Ripuliamo il terreno, stendiamo una spessa tela cerata. Non abbiamo una vera e
propria tenda ma un’ampia zanzariera che fissiamo da una parte agli alberi
vicini, dall’altra a pali conficcati ben a fondo nel terreno. Stendiamo i
materassini, fissiamo un telo impermeabile a tettoia. Infine la nostra guida
traccia un piccolo solco intorno alla tenda-zanzariera e lo cosparge di
petrolio: “È infallibile, tiene lontano i serpenti”.
Otto di
sera: due ore dopo il tramonto è buio pesto. Acrobazie per scivolare sotto la
zanzariera senza portarci dietro la nuvola di insetti che ci segue (nonostante
i repellenti di cui siamo cosparsi).
La
notte si riempie di suoni inaspettati. Scricchiolii, sgocciolii. Versi di
animali notturni a noi sconosciuti. Cigolio di rami. Fruscio di passi? Passi,
non c’è dubbio, qualcuno cammina nel sottobosco, si avvicina. Sotto la
zanzariera però nessuno reagisce. Mi rassegno a dormire, un sonno popolato di
passi furtivi nella foresta.
La
mattina dopo, mentre scaldiamo l’acqua per il tè (e per lavarsi i denti o fare
la barba), la nostra guida ride: passi, fruscii? Saranno stati animaletti che
andavano a bere al fiume, o serpenti che strisciavano sulle foglie: “Nella
foresta non siamo mai soli”.
(*)
Ripreso dal settimanale «Internazionale». Marina Forti ha un
suo blog:www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache
da un pianeta in bilico». (db)
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