Noi donne sappiamo cosa significa
“trasportare” un bambino.
Ce lo portiamo appresso per nove mesi, quando
tutto va bene. Lo culliamo nel liquido amniotico, gli parliamo senza proferir
parola. Lo accarezziamo attraverso il ventre. Lo partoriamo nel dolore per
godere subito dopo della gioia della sua pelle, del vagito, del pugno che
stringe il dito e delle labbra che si attaccano al seno.
Sappiamo che ogni distacco è fonte di dolore,
ansia e preoccupazione.
Ma, nel nostro mondo fatto di tutele e
certezze, il tempo del distacco possiamo gestirlo, sappiamo che nessuno potrà
frapporsi, senza fare i conti con la legge, a volte un poco miope, al
ricongiungimento di una madre con il proprio figlio. Questo “naturalmente” se
sei una madre dell’opulento Occidente industrializzato, membro dunque della
“civilissima” Europa, quella trincerata dietro il filo spinato di una linea
Maginot tesa a escludere gli ultimi, i fratelli e i figli più bisognosi: quelli
che eravamo noi… non molto tempo fa.
Perchè se sei nato dalla parte sbagliata del
mondo – quello che fa partorire infinite volte nel dolore, nella fame, nella
guerra – il distacco si fa odissea. E il mare non è liquido amniotico ma
nemico, una scommessa che sai di poter perdere ma che devi fare se vuoi far
sopravvivere i tuoi figli. «Fatti non fummo a viver come bruti, ma seguir virtute
e conoscenza» ma quella conoscenza pare perduta nel nostro comodo experire il mondo.
Quando non è il mare, il limbo da attraversare
per trovare una parvenza di futuro si fa aria. Cercare di ritrovare una madre
attraverso l’aria è un poco più arduo. Il cordone ombelicale si avviluppa e si
annoda, persino in un trolley: solo che il neonato è già cresciuto, ha 8 anni
ormai, eppure non ha dimenticato la postura fetale. La tiene per ore. Infinite.
Il grembo di plastica non lo culla; non è l’ ecografia che lo indaga per
tutelarlo, è uno scanner che lo rivela per denunciarlo: clandestino. Bimbo
clandestino alla ricerca del suo destino che ha nome di madre. Bizzarro
bagaglio in mano a una fanciulla, nipote di Nessuno, 19 anni a sfidare il filo
spinato che separa madri e figli.
Sento
di non poter contenere questa infamia. Mi arrogo il diritto di donna di
appellarmi a tutti i tribunali del mondo perché facciano propria la postura
fetale di un figlio che sfida la sorte e sceglie di rattrappirsi in un utero di
plastica per ritrovare sua madre.
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