da qui
L’aria è quella tipica del deserto Saudita al mattino. Secca,
fresca, salubre. Camion carichi di cereali s’incolonnano sulla polverosa strada
di Al Kharj, due ore a sud di Riyadh, per scaricare il contenuto nella più
grande fattoria casearia integrata del mondo, l’Almarai. La metà degli oltre
due milioni di tonnellate di foraggio, consumato annualmente dalle centomila
vacche da latte, proviene da appezzamenti di terra coltivata all’estero.
Il sole etiope è allo Zenit, la terra tanto sterile e slavata da rendere impossibile camminare senza alzare nuvole di polvere giallastra che riempie la bocca e il naso. Un operaio arraffa con le mani nude quanta più terra può, e copre le talee di canna da zucchero di una nuova piantagione. Infatti, il clima caldo e l’abbondanza d’acqua fanno dell’Afar il luogo eletto per la produzione di canna da zucchero. Poco distante i fumi della raffineria di biofuel si diffondono sulla piantagione che in passato era un pascolo.
L’enorme soffitto a volta della sala dei ricevimenti è luccicante e d’orato come nell’immaginazione delle mille e una notte. Più sotto il presidente del Mozambico e altri dignitari africani si dividono le attenzioni dei governanti dei paesi del Golfo; ma si dividono anche l’Africa, visto che partecipano a una conferenza sulla promozione di investimenti per acquisire terreni agricoli in paesi in via di sviluppo: il Land Grabbing.
Il Land Grabbing nacque in seguito alla crisi alimentare del 2007 e al conseguente rialzo dei prezzi delle materie prime agricole che fece iniziare la corsa alle terre coltivabili. Il fenomeno si contraddistingue per non avere il consenso della popolazione locale, in violazione dei diritti umani e in mancanza di un adeguato studio dell’impatto socio-ambientale dell’investimento. L’Università della Virginia l’ha definito come un accordo per accaparrarsi appezzamenti agricoli di almeno 200 ettari che converte in produzione commerciale un’area naturale in precedenza usata dagli abitanti locali.
In ogni continente, eccetto l’Antartide, è possibile imbattersi nel Land Grabbing, e nonostante la terra coltivabile sia stata da sempre usata come forma di controllo sociale, questa è la prima volta dalla fine del colonialismo che gli stati sovrani e le istituzioni governative dei paesi sviluppati promuovono una simile pratica.
Le risorse finanziarie allocate dai paesi Arabi, le politiche d’incentivo al consumo di biofuel della Comunità Europea e degli Stati Uniti, le assicurazioni private, i carbon trade, i finanziamenti della banca mondiale, e il prezzo irrisorio della terra, concessa di solito dai governi locali in modo incondizionato, sono tutti fattori che azzerano il rischio dell’investimento, rendendolo estremamente redditizio.
Controllare la terra significa assumere anche la totale gestione delle risorse idriche presenti sul territorio, con impatti devastanti sulla vita della popolazione locale.
Il 5,7% degli abitanti mondiali controlla attraverso il Land Grabbing, il 40% delle risorse idriche globali, una quantità d’acqua che sarebbe sufficiente a nutrire adeguatamente 300-390 milioni di persone, la metà della popolazione malnutrita del mondo. Stati Uniti, Emirati Arabi, India, Gran Bretagna, Egitto, Cina e Israele sono responsabili del 60% di questo scambio d’acqua virtuale.
Imprenditori e politici discutono gli investimenti e le strategie in conferenze distanti migliaia di chilometri dalla terra che andranno a controllare, e ideologicamente ancor più distanti dalle persone che la usano per sopravvivere.
La scelta di svolgere questa ricerca in Etiopia è stata naturale: è discutibile l’eticità di trarre profitto da prodotti coltivati in un paese mentre i suoi abitanti muoiono di fame. Sei milioni di etiopi, infatti, sopravvivono solo grazie agli aiuti alimentari distribuiti dalle Nazioni Unite – uno dei programmi d’aiuto più costosi del mondo. Al tempo stesso, aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Il paradosso è più che evidente.
Il sole etiope è allo Zenit, la terra tanto sterile e slavata da rendere impossibile camminare senza alzare nuvole di polvere giallastra che riempie la bocca e il naso. Un operaio arraffa con le mani nude quanta più terra può, e copre le talee di canna da zucchero di una nuova piantagione. Infatti, il clima caldo e l’abbondanza d’acqua fanno dell’Afar il luogo eletto per la produzione di canna da zucchero. Poco distante i fumi della raffineria di biofuel si diffondono sulla piantagione che in passato era un pascolo.
L’enorme soffitto a volta della sala dei ricevimenti è luccicante e d’orato come nell’immaginazione delle mille e una notte. Più sotto il presidente del Mozambico e altri dignitari africani si dividono le attenzioni dei governanti dei paesi del Golfo; ma si dividono anche l’Africa, visto che partecipano a una conferenza sulla promozione di investimenti per acquisire terreni agricoli in paesi in via di sviluppo: il Land Grabbing.
Il Land Grabbing nacque in seguito alla crisi alimentare del 2007 e al conseguente rialzo dei prezzi delle materie prime agricole che fece iniziare la corsa alle terre coltivabili. Il fenomeno si contraddistingue per non avere il consenso della popolazione locale, in violazione dei diritti umani e in mancanza di un adeguato studio dell’impatto socio-ambientale dell’investimento. L’Università della Virginia l’ha definito come un accordo per accaparrarsi appezzamenti agricoli di almeno 200 ettari che converte in produzione commerciale un’area naturale in precedenza usata dagli abitanti locali.
In ogni continente, eccetto l’Antartide, è possibile imbattersi nel Land Grabbing, e nonostante la terra coltivabile sia stata da sempre usata come forma di controllo sociale, questa è la prima volta dalla fine del colonialismo che gli stati sovrani e le istituzioni governative dei paesi sviluppati promuovono una simile pratica.
Le risorse finanziarie allocate dai paesi Arabi, le politiche d’incentivo al consumo di biofuel della Comunità Europea e degli Stati Uniti, le assicurazioni private, i carbon trade, i finanziamenti della banca mondiale, e il prezzo irrisorio della terra, concessa di solito dai governi locali in modo incondizionato, sono tutti fattori che azzerano il rischio dell’investimento, rendendolo estremamente redditizio.
Controllare la terra significa assumere anche la totale gestione delle risorse idriche presenti sul territorio, con impatti devastanti sulla vita della popolazione locale.
Il 5,7% degli abitanti mondiali controlla attraverso il Land Grabbing, il 40% delle risorse idriche globali, una quantità d’acqua che sarebbe sufficiente a nutrire adeguatamente 300-390 milioni di persone, la metà della popolazione malnutrita del mondo. Stati Uniti, Emirati Arabi, India, Gran Bretagna, Egitto, Cina e Israele sono responsabili del 60% di questo scambio d’acqua virtuale.
Imprenditori e politici discutono gli investimenti e le strategie in conferenze distanti migliaia di chilometri dalla terra che andranno a controllare, e ideologicamente ancor più distanti dalle persone che la usano per sopravvivere.
La scelta di svolgere questa ricerca in Etiopia è stata naturale: è discutibile l’eticità di trarre profitto da prodotti coltivati in un paese mentre i suoi abitanti muoiono di fame. Sei milioni di etiopi, infatti, sopravvivono solo grazie agli aiuti alimentari distribuiti dalle Nazioni Unite – uno dei programmi d’aiuto più costosi del mondo. Al tempo stesso, aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Il paradosso è più che evidente.
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