giovedì 25 dicembre 2025

Merito o diritti? Bologna riscrive le regole per gli alloggi pubblici - Mauro Boarelli

 

SELEZIONARE I “BUONI”

A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale nell’amministrazione pubblica.

Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali, educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale.

Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare “predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere ugualmente tale “predisposizione”?

E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato?

Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a rispondere:

Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il Progetto?
In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano?
Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua situazione attuale?

In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta bianca.

Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del bando.
Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione: dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età, composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione, etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico che legittima questa inquietante innovazione.

Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i pericoli.
L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra, bisognerebbe iniziare a preoccuparsi.

D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016 per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è un fatto inedito.
In sostanza, determinati elementi culturali sono in circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta.


CHI INSEGNA A CHI?

Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del cohousing”.
Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita, disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve soddisfare.
Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e partecipate”.

Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”. In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo.

Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di “facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di marketing.

C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari rimarranno esclusi dall’assegnazione.
In pratica, all’interno di un processo finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che pervade il bando.

Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il bando prevede due passaggi. Il primo si chiama  “autoselezione”: “Dopo i primi otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”.

Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia addirittura dissuasiva?
E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti
La risposta è semplice, per certi aspetti disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale, vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale.


LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI

Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna.

XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di “normalizzazione” in atto da tempo.
Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti. Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole.

Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del deserto urbanistico creato in quell’area […]”.

Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto.

(*) Tratto da Napoli Monitor. Disegno di apertura di Chiara Tirro.

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mercoledì 24 dicembre 2025

Il furto dei gioielli della corona come specchio del saccheggio coloniale - Rokhaya Diallo

Il furto al Louvre suscita indignazione ma Mediapart ricorda che i musei francesi vengono dal saccheggio dei territori conquistati

Il clamoroso furto di parte dei gioielli della corona di Francia al museo del Louvre ha avuto il merito di riunire la classe politica in un coro di deplorazione per un grave misfatto contro l’integrità di un bene che sarebbe comune a tutti i francesi. Emmanuel Macron si è affrettato a denunciare «un attacco a un patrimonio che amiamo perché è la nostra Storia». Una storia molto più oscura di quanto sembri.

Mentre il mondo intero era rattristato dalla perdita di gioielli sontuosi, l’attenzione si è concentrata maggiormente sui dettagli della composizione di questi gioielli costituiti da pietre preziose appartenute a personaggi del Primo e del Secondo Impero: Maria Amalia di Borbone-Sicilia, Hortense de Beauharnais, Maria Luisa d’Austria (moglie di Napoleone I) e l’imperatrice Eugenia di Montijo (moglie di Napoleone III).

Gli account Instagram Everything is Political e Slow Factory hanno condotto una rapida indagine, ipotizzando l’origine dei gioielli rubati. Gli smeraldi provengono senza dubbio dalla Colombia, dove la miniera di Muzo era all’epoca la sola miniera conosciuta che fornisse gemme di questo tipo attorno all’inizio del secolo XIX; i diamanti proverrebbero da India e Brasie les diamants viendraient d’Inde et du Brésil (altre fonti indicano il Sudafrica, dove i primi giacimenti di Kimberley furono sfruttati già negli anni 1850-1860); le perle naturali del Golfo Persico o dell’Oceano Indiano; gli zaffiri di Ceylon (l’attuale Sri Lanka), principale fonte mondiale di zaffiri blu all’inizio del XIX secolo. Solo i granati provenienti dalle miniere degli Urali venivano trasportati nell’ambito del libero commercio europeo.

Nei territori sotto il dominio britannico, portoghese o spagnolo, era il lavoro coatto delle popolazioni indigene colonizzate a consentire l’estrazione di questi preziosi minerali. Che la manodopera fosse schiavizzata o a contratto, l’ottenimento di questi beni avveniva a vantaggio delle potenze imperialiste, che si arricchivano grazie all’estrattivismo praticato sui territori conquistati con la violenza e il lavoro delle popolazioni inferiorizzate.

Se oggi si deplora la perdita dei beni simbolici del regno di Napoleone Bonaparte, il cui nome è indebitamente venerato nella politica francese, ricordiamo che la sua fortuna è stata ampiamente costruita sulla violenza e la spoliazione di altre popolazioni.

Sotto il Consolato e l’Impero, l’arricchimento di Napoleone e dello Stato francese si basava in parte su un sistema di spoliazioni organizzate, indissociabile dalla logica dell’espansione coloniale e militare. Le grandi «campagne» (termine che difficilmente rende l’idea del livello di violenza impiegato), in particolare in Italia, Spagna ed Egitto, permisero il saccheggio massivo di opere d’arte, di tesori archeologici e risorse naturali, legittimandolo con il pretesto del “progresso scientifico” oppure con la pretesa della “civilizzazione” di popolazioni che non l’hanno richiesto.

La campagna d’Egitto è allo stesso tempo una spedizione militare e un saccheggio economico e culturale, volto a controllare le rotte commerciali orientali e a riportare in Francia antichità, manoscritti e oggetti d’oro. Questi bottini, registrati nei rapporti della Commissione delle scienze e delle arti e successivamente esposti al Louvre, hanno alimentato il prestigio imperiale, radicando al contempo l’economia francese nelle nascenti reti coloniali.

Così, la costruzione del potere napoleonico si inserisce nella continuità di un modello europeo di accumulazione basato sulla conquista, il dominio e l’appropriazione violenta delle ricchezze materiali e simboliche dei territori conquistati.

La Francia si vanta dei beni acquisiti con la brutalità

Alla luce di queste considerazioni, cosa significa la grande desolazione che ha accompagnato la scomparsa di questi oggetti rubati dal Museo del Louvre? Quale significato attribuisce il nostro presidente al concetto di “patrimonio francese”, considerando le origini immorali della costituzione di questi gioielli?

Il fatto che la Francia possa ancora oggi vantarsi del possesso di beni acquisiti con la brutalità e l’ingiustizia la dice lunga sul rispetto per la vita delle vittime della colonizzazione.

La maggior parte dei grandi musei europei ha costruito il proprio prestigio esponendo opere acquisite tra la fine del XIX e la metà del XX secolo – periodo segnato da un’espansione coloniale costellata di massacri e coercizioni – e provenienti da presunte spedizioni etnografiche che in realtà erano solo un pretesto per la predazione.

In Francia, secondo un rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoye nel 2018, oltre il 90% delle opere d’arte più emblematiche dell’Africa subsahariana si trova al di fuori del continente. Ad esempio, il famoso museo Quai Branly-Jacques-Chirac, che raccoglie arte indigena proveniente da Asia, Africa, Oceania e Americhe, è ricco di oggetti arrivati in Francia all’epoca in cui il nostro Paese aveva un ascendente su questi territori: è il caso del 66% della collezione dell’unità “Africa”.

Per conservare queste opere sul proprio territorio, la Francia ha elaborato un espediente giuridico: integrarle nel demanio pubblico dello Stato, rendendole così insequestrabili e inalienabili.

Un vero e proprio museo degli orrori

Peggio ancora, i nostri musei conservano ancora importanti collezioni di resti umani, in primo luogo il Museo Nazionale di Storia Naturale e il Museo dell’Uomo, la cui “collezione moderna” comprende più di 1.000 scheletri e circa 18.000 crani ereditati da raccolte pseudo-scientifiche (in realtà razziste), coloniali e di polizia del XIX e XX secolo.

Un vero e proprio museo degli orrori che raccoglie resti umani provenienti da tutto il mondo (Algeria, Senegal, Madagascar, Guyana…), tra cui quelli di numerosi resistenti alla colonizzazione francese, ma anche di bambini. È quanto racconta Xavier Leclerc nel suo ultimo romanzo Le Pain des Français (Gallimard), dando voce a «Zohra», una bambina kabyle di 7 anni il cui cranio è conservato in una scatola da scarpe tra i circa 9.000 crani conservati nel Museo dell’Uomo.

La storia di Saartjie (Sawtche), detta “Sarah Baartman”, donna di origine ottentotta nata in Sudafrica e morta a Parigi dopo essere stata vittima di ripetuti abusi sessuali e fisici ed essere stata esibita nelle fiere, è emblematica di questa spoliazione. Dopo la sua morte, calchi in gesso del suo corpo, dei suoi organi genitali e del suo cervello furono esposti al Musée de l’Homme alla vista di tutti fino al 1974, prima di essere relegati nel seminterrato. Dopo un’aspra battaglia legale, promossa da Nelson Mandela, il Sudafrica ha finalmente potuto recuperare il suo corpo nel 2002.

Nel luglio 2020, Parigi ha restituito all’Algeria 24 teschi di resistenti anticolonialisti, tra cui Cheikh Bouziane, Cherif Boubaghla e Si Mokhtar ben Kouider al-Titraoui, conservati dal XIX secolo al Musée de l’Homme. Da allora, la Francia si è dotata di un quadro giuridico specifico: una legge del 2023 autorizza, in deroga all’inalienabilità, la restituzione di resti umani a uno Stato straniero a fini funerari.

In precedenza, nel 2012, erano state restituite le teste di alcune persone māori (originari di Aotearoa, nome māori della Nuova Zelanda).

Nel 2024, i corpi di sei Kali’na – Pékapé, Couani, Emo-Marita, Mibipi, Makéré e Miacapo -, rapiti in Guyana per essere esposti in una mostra coloniale, vengono celebrati al Musée de l’Homme nell’ambito di una cerimonia sciamanica, alla presenza di di capi tradizionali provenienti dal Suriname e dalla Guyana. Tuttavia, i loro resti non sono stati restituiti. Diversi altri casi sono ancora in corso e, di conseguenza, molti corpi rimangono ancora lontani dai loro territori d’origine.

Sotto la pressione del rapporto Sarr-Savoy, che esortava lo Stato francese a restituire le opere ai loro paesi d’origine e ai paesi africani, la Francia ha dovuto riconoscere l’ingiustizia. Nel dicembre 2020 è stata quindi approvata una legge per restituire alcuni beni culturali al Benin e al Senegal.

Il primo oggetto restituito è stata una sciabola attribuita al capo politico El Hadj Omar Tall. Anche il Madagascar ha recuperato la corona della regina Ranavalona III, considerata dal ministro della Cultura Lalatiana Andriatongarivo Rakotondrazafy uno dei simboli più preziosi dell’«orgoglio nazionale malgascio».

Inoltre, ventisei opere d’arte note come “Tesoro di Béhanzin”, donate allo Stato dal generale Alfred Dodds dopo essere state saccheggiate durante una guerra e conservate al museo del Quai Branly-Jacques-Chirac, sono state restituite al popolo beninese. Il loro ritorno è stato oggetto di un magistrale film documentario, Dahomey, realizzato dalla franco-senegalese Mati Diop.

Tuttavia, con ventisei opere, siamo ben lontani da una rivoluzione. Il museo ne conserva almeno 45.000 provenienti dai saccheggi coloniali.

La Francia fatica ancora a riconoscere che gran parte del suo potere e del suo fascino derivano dal suo ruolo violentemente distruttivo nelle ex colonie. Celebrare un patrimonio acquisito con disprezzo per le vite umane testimonia un persistente rifiuto di ammettere il prezzo del proprio prestigio, alimentato dai gravi danni causati in passato e che persistono ancora oggi.

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martedì 23 dicembre 2025

Il territorio sardo può esser in buona parte tutelato dalla speculazione energetica - Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

 

La recentissima sentenza Corte cost. 16 dicembre 2025, n. 184 ha delineato la ripartizione delle competenze riguardo l’ubicazione degli impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili, dichiarando illegittime varie parti della legge regionale Sardegna 5 dicembre 2024, n. 20 di individuazione delle aree idonee e non idonee per l’installazione di impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili, accogliendo in gran parte il ricorso governativo n. 8 del 2025 che ne chiedeva la declaratoria di illegittimità costituzionale (art. 127 Cost.) per contestata violazione delle competenze esclusive statali in tema di energia e ambiente.

E’ ben noto, infatti, che la giurisprudenza costituzionale sia estremamente chiara nell’attribuire allo Stato l’emanazione dei principi fondamentali della materia “energia”, fra cui le disposizioni in materia di individuazione di aree idonee e non idonee per l’ubicazione degli impianti, la predisposizione di un’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio dei medesimi impianti, previa intesa in sede di Conferenza Stato – Regioni – Province autonome (vds. sentenza Corte cost. n. 27/2023sentenza Corte cost. n. 11/2022;  sentenza Corte cost. n. 177/2021sentenza Corte cost. n. 106/2020) e l’abbia in precedenza ribadito con la sentenza Corte cost. n. 28 dell’11 marzo 2025 che aveva dichiarato illegittima la legge regionale Sardegna n. 5/2024, contenente la moratoria temporanea degli impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili in palese contrasto con l’art. 20, comma 6°, del decreto legislativo n. 199/2021, secondo cui “nelle more dell’individuazione delle aree idonee, non possono essere disposte moratorie ovvero sospensioni dei termini dei procedimenti di autorizzazione”.  

La Corte ha ricordato ancora che la qualifica di non idoneità di un’area non può tradursi in un automatico divieto di installazione degli impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili (vds. Corte cost. n. 134/2025), ma ha l’effetto conseguenziale di negare l’accesso ai procedimenti autorizzatori semplificati previsti dal legislatore statale per velocizzare la diffusione delle fonti rinnovabili nelle aree invece definite idonee.

E basterebbe questo per accantonare la proposta di legge popolare denominata Pratobello ’24, contenente addirittura (art. 3) una moratoria sine die.

Ma allora non vi sarebbero freni al dilagare  alla speculazione energetica in stile Far West che sta ponendo in pericolo i valori ambientali, naturalistici, storico-culturali e identitari dell’Isola senza nemmeno risolvere il problema della decarbonizzazione e consentire il raggiungimento degli obiettivi in materia fissati a livello nazionale ed europeo?

No, non è così.

Rimarrebbero, in ogni caso, applicabili le altre discipline di salvaguardia del territorio.

In primo luogo, è bene ricordare che in Sardegna fin dall’entrata in vigore del piano paesaggistico regionale (P.P.R. – 1° stralcio costiero, esecutivo con D.P.RAS n. 82 del 7 settembre 2006), “negli ambiti di paesaggio costieri …  è comunque vietata la realizzazione di centrali eoliche e di trasporto di energia di superficie” (art. 112 delle N.T.A.). E tale divieto è confermato dal decreto-legge 21 novembre 2025, n. 175 (art. 2, comma 4°, lettera m).

Inoltre, trovano applicazione i vincoli temporanei vigenti fino all’adozione delle norme d’individuazione delle aree idonee e inidonee all’ubicazione di impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili: l’art. 6, comma 1°, del decreto-legge n. 50/2022, convertito con modificazioni e integrazioni nella legge n. 91/2022, in relazione all’installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili ha individuato una “fascia di rispetto … determinata considerando una distanza dal perimetro di beni sottoposti a tutela di sette chilometri per gli impianti eolici e di un chilometro per gli impianti fotovoltaici”. Successivamente, con l’art. 47, comma 1°, del decreto-legge n. 13/2023, convertito con modificazioni e integrazioni nella legge n. 41/2023, la fascia di tutela è stata ridotta a “tre chilometri” per gli impianti eolici e a “cinquecento metri” per gli impianti fotovoltaici. 

Tali fasce di rispetto sono state confermate dal decreto-legge 21 novembre 2025, n. 175 (art. 2, comma 4°, lettera m).

Si tratta di fasce di rispetto dal limite delle zone tutelate con vincolo culturale (artt. 10 e ss. del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) e/o con vincolo paesaggistico/ambientale (artt. 136 e ss. e 142 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), per cui è fondamentale, per esempio, l’incremento dei provvedimenti di vincolo culturale da parte del Ministero della Cultura in presenza di beni di proprietà privata (vds. T.A.R. Sardegna, Sez. I, 29 maggio 2024, n. 414).

Inoltre, non possono esser destinati legittimamente a sede di impianti energetici le aree appartenenti ai demani civici (legge n. 1766/1927 e s.m.i.legge n. 168/2017 e s.m.i.regio decreto n. 332/1928 e s.m.i.), perchè il regime giuridico delle terre collettive “resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale” (art. 3, comma 3°, della legge n. 168/2017 e s.m.i.).

Infine, la stessa Corte costituzionale (sentenza Corte cost. 16 dicembre 2025, n. 184) ha affermato che “il regolamento n. 2024/1991/UE si preoccupa di chiarire che gli Stati membri possono stabilire che la realizzazione di determinati impianti incidenti su specifiche parti del loro territorio sia esclusa dalla presunzione di interesse pubblico prevalente, facendo quindi venir meno il relativo favor” verso l’incremento di produzione elettrica da fonti rinnovabili.  Il medesimo Regolamento UE 2024/1991 (il c.d. Nature Restoration Law) prevede, quindi, la possibilità per gli Stati membri di individuare aree di valore naturalistico assolutamente non idonee all’ubicazione degli impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili.

Riguardo gli impianti energetici offshore, se è vero che la Corte costituzionale ha confermato sia esclusiva competenza statale “mediante l’approvazione dei piani di gestione dello spazio marittimo” (attualmente art. 2, comma 1°, lettera h, del decreto-legge 21 novembre 2025, n. 175), finora si son fatti i conti senza l’oste, perchè i piani approvati con decreto ministeriale n. 237 del 25 settembre 2024 non hanno e non possono avere prescrizioni vincolanti oltre il limite delle acque territoriali (12 miglia marine dalla battigia) in quanto non è stata istituita la Zona Economica Esclusiva (ZEE) italiana, lo strumento giuridico necessario per l’istituzione di limiti e prescrizioni oltre le 12 miglia marine.

E in assenza di una definita Zona Economica Esclusiva (ZEE) concordata a livello internazionale con gli altri Stati rivieraschi del Mediterraneo occidentale (Spagna, Algeria, Tunisia), come richiesto dalla Convenzione internazionale dell’O.N.U. sul diritto del Mare (UNCLOS), qualsiasi decisione in proposito vale meno della carta su cui è scritta.

La speculazione energetica.

Il ricorso all’energia prodotta da fonti rinnovabili è fondamentale per il contrasto ai cambiamenti climatici, tuttavia non versiamo il cervello all’ammasso dell’ideologia dell’ambientalmente corretto che scivola troppo spesso nell’oggettivo favore verso un’ipocrita speculazione energetica, che danneggia ambiente e soldi dei cittadini. 

La Soprintendenza speciale per il PNRR, dopo approfondite valutazioni, ha evidenziato in modo chiaro e netto: “nella regione Sardegna è in atto una complessiva azione per la realizzazione di nuovi impianti da fonte rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore ed offshore) tale da superare già oggi di ben 7 volte quanto previsto come obiettivo da raggiungersi al 2030 sulla base del FF55, tanto da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica oltre il fabbisogno regionale previsto” (nota Sopr. PNRR prot. n. 27154 del 20 novembre 2023 e nota Sopr. PNRR prot. n. 51551 del 18 marzo 2024).

Ma questo vale per tutto il territorio nazionale: “tale prospettiva si potrebbe attuare anche a livello nazionale, ove le richieste di connessione alla RTN per nuovi impianti da fonte rinnovabile ha raggiunto il complessivo valore di circa 328 GW rispetto all’obiettivo FF55 al 2030 di 70 GW” (nota Sopr. PNRR prot. n. 51551 del 18 marzo 2024).

Qui siamo alla reale sostituzione paesaggistica e culturale, alla sostituzione economico-sociale, alla sostituzione identitaria

In tutto il territorio nazionale le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a. (gestore della rete elettrica nazionale) al 31 luglio 2025 risultano complessivamente ben 6.133, pari a 336,11 GW di potenza, suddivisi in 3.912 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare per 155,40 GW (44,90%), 2.063 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra per 110,18 GW (31,83%), 117 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a mare per 77,72 GW (22,46%), 24 richieste di impianti di produzione energetica da fonte idroelettrica per 2,49 GW (0,72%), 11 richieste di impianti di produzione energetica da biomasse per 0,24 GW (0,07%) e 6 richieste di impianti di produzione energetica da fonte geotermica per 0,08 GW (0,02%).

Significa energia che dovrà esser pagata dal gestore unico della Rete (cioè soldi che usciranno dalle tasse dei contribuenti).

Gli unici che guadagneranno in ogni caso saranno le società energetiche, che – oltre ai certificati verdi e alla relativa commerciabilità, nonchè agli altri incentivi – beneficiano degli effetti economici diretti e indiretti del dispacciamento, il processo strategico fondamentale svolto da Terna s.p.a. per mantenere in equilibrio costante la quantità di energia prodotta e quella consumata in Italia: In particolare, riguardo gli impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili, “se necessario, Terna invia specifici ordini per ridurre aumentare l’energia immessa in rete alle unità di produzione”, ma l’energia viene pagata pur non utilizzata.  I costi del dispacciamento sono scaricati sulle bollette degli Italiani.

 

Inoltre, la Commissione europea – su richiesta del Governo Italiano – ha recentemente approvato (4 giugno 2024) un regime di aiuti di Stato “volto a sostenere la produzione di un totale di 4 590 MW di nuova capacità di energia elettrica a partire da fonti rinnovabili”.   In particolare, “il regime sosterrà la costruzione di nuove centrali utilizzando tecnologie innovative e non ancora mature, quali l’energia geotermica, l’energia eolica offshore (galleggiante o fissa), l’energia solare termodinamica, l’energia solare galleggiante, le maree, il moto ondoso e altre energie marine oltre al biogas e alla biomassa. Si prevede che le centrali immetteranno nel sistema elettrico italiano un totale di 4 590 MW di capacità di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. A seconda della tecnologia, il termine per l’entrata in funzione delle centrali varia da 31 a 60 mesi”.

Il costo del regime di aiuti in favore delle imprese energetiche sarà pari a 35,3 miliardi di euro e, tanto per cambiare, sarà finanziato “mediante un prelievo dalle bollette elettriche dei consumatori finali”.

Insomma, siamo all’overdose di energia producibile da impianti che servono soltanto agli speculatori energetici.

Che cosa si potrebbe fare.

Dopo aver quantificato il quantitativo di energia elettrica realmente necessario a livello nazionale, sarebbe cosa ben diversa se fosse lo Stato a pianificare in base ai reali fabbisogni energetici le aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), mettesse a bando di gara i siti al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica.

Inoltre, come afferma e certifica l’I.S.P.R.A. (vds. Report Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2023, Report n. 37/2023), è molto ampia la superficie potenzialmente disponibile per installare impianti fotovoltaici sui tetti, considerando una serie di fattori che possono incidere sulla effettiva disponibilità di spazio (presenza di comignoli e impianti di condizionamento, ombreggiamento da elementi costruttivi o edifici vicini, distanza necessaria tra i pannelli, esclusione dei centri storici).

Qui la stima ISPRA 2023, suddivisa per superfici utili per ogni Comune italiano.

Dai risultati emerge che la superficie netta disponibile può variare da 757 a 989 km quadrati. In sostanza, si spiega, “ipotizzando tetti piani e la necessità di disporre di 10,3 m2 per ogni kW installato, si stima una potenza installabile sui fabbricati esistenti variabile dai 73 ai 96 GW”. A questa potenza, evidenziano i ricercatori dell’Ispra, si potrebbe aggiungere quella installabile in aree di parcheggio, in corrispondenza di alcune infrastrutture, in aree dismesse o in altre aree impermeabilizzate; “ipotizzando che sul 4% dei tetti sia già installato un impianto, si può concludere che, sfruttando gli edifici disponibili, ci sarebbe posto per una potenza fotovoltaica compresa fra 70 e 92 GW”. Analoghe considerazioni sono state argomentate (vds. Fotovoltaico, all’Italia basterebbero i capannoni industriali, su Nuova Energia 3/2023) dal Prof. Angelo Spena, professore emerito di Fisica Tecnica Ambientale e Gestione ed Economia dell’Energia presso l’Università degli Studi di Roma – Tor Vergata, in precedenza presso le Università di Roma La Sapienza e di Perugia, attualmente Presidente del Gestore Mercati Energetici (GME), società pubblica che agisce nel rispetto degli indirizzi del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) e delle previsioni regolatorie definite dall’Autorità di Regolazione per Energia Rete e Ambiente (ARERA). Il GME organizza e gestisce i mercati dell’energia elettrica, del gas naturale e quelli ambientali, nel rispetto dei principi di neutralità, trasparenza, obiettività e concorrenza

Energia producibile senza particolari impatti ambientali e conflitti sociali.

Che cosa può fare ognuno di noi.

Nessun cittadino che voglia difendere il proprio ambiente e il proprio territorio, salvaguardando contemporaneamente il proprio portafoglio, può lavarsene le mani.

Quanto sta accadendo oggi in Italia nell’ambito della transizione energetica sta dando corpo ai peggiori incubi sulla sorte di boschi, campi, prati, paesaggi storici del nostro Bel Paese.

Il sacrosanto passaggio all’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile (sole, vento, acqua) dalle fonti fossili tradizionali (carbone, petrolio, gas naturale) in assenza di pianificazione e anche di semplice buon senso sta favorendo le peggiori iniziative di speculazione energetica.

E’ ora che ciascuno di noi faccia sentire la sua voce: firma, diffondi e fai firmare la petizione popolare Si all’energia rinnovabile, no alla speculazione energetica!

La petizione popolare, promossa dall’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG), si firma qui https://chng.it/MNPNNM9Q62. Ormai siamo in più di 22 mila ad averlo già fatto.

Siamo ancora in tempo per cambiare registro.

In meglio, naturalmente.

da qui

lunedì 22 dicembre 2025

Il rispetto di ogni vita passa anche dalla tavola: a Natale facciamo scelte consapevoli - Roberta Marchi


(Rete dei Santuari

Network di rifugi per animali scampati all'industria zootecnica)


Celebrare la vita mentre altre vite vengono sacrificate per imbandire le tavole è una contraddizione che non possiamo più ignorare. Il veganismo, in questo senso, non è una rinuncia ma un atto di coerenza

 

Il Natale è da sempre associato a parole come amore, famiglia, condivisione, pace. È un tempo dell’anno in cui si celebra la nascita, la speranza, la possibilità di un mondo migliore. Eppure, proprio durante le feste natalizie, milioni di animali vengono uccisi per diventare “tradizione”, “piatto tipico”, “consuetudine”. Durante le feste la richiesta di carne cresce e di conseguenza cresce il numero degli animali uccisi. Come Rete dei Santuari di Animali Liberi sentiamo la necessità di fermarci, ancora una volta, a riflettere sul significato profondo di questo periodo e su quanto sia urgente estendere il messaggio del Natale a ogni forma di vita.

L’antispecismo ci invita a mettere in discussione un’idea radicata: quella secondo cui alcune vite valgano più di altre solo in base alla specie di appartenenza. È una prospettiva che ribalta completamente il modo in cui siamo stati educati a guardare il mondo e che ci chiede di riconoscere gli animali non umani come individui senzienti, capaci di provare paura, gioia, dolore, desiderio di libertà. Nei santuari, ogni giorno, viviamo questa esperienza: incontriamo sguardi, conosciamo storie e scopriamo personalità che rendono impossibile continuare a pensare agli animali come a risorse o prodotti.

Il Natale, se davvero vuole essere una festa di amore universale, non può escludere proprio chi paga il prezzo più alto della nostra incoerenza. Celebrare la vita mentre altre vite vengono sacrificate per imbandire le tavole è una contraddizione che non possiamo più ignorare. Il veganismo, in questo senso, non è una rinuncia, ma un atto di coerenza e responsabilità. È una scelta che trasforma il Natale in un momento di rispetto reale e concreto, in una giornata dal vero sapore di pace e amore.

Mangiare veg durante le feste non significa rinunciare alla convivialità o alla tradizione, ma riscriverle in chiave etica. Significa scegliere piatti che non portano con sé sofferenza, che non implicano la separazione forzata di madri e figli, che non sono il risultato di allevamenti intensivi e violenza sistemica, che non prevedono la prigionia e l’agonia di altri individui. Oggi esistono infinite alternative vegetali capaci di raccontare nuovi sapori e nuove storie, senza tradire lo spirito di condivisione che dovrebbe caratterizzare il Natale: condividere una ricetta veg natalizia, sperimentarla e provarla con le persone con cui si condivide il pranzo di Natale. E’ così che si compie un gesto politico e affettivo allo stesso tempo.


Nei santuari, il giorno di Natale è spesso un momento silenzioso ma potentissimo. È il tempo in cui guardiamo animali che hanno conosciuto lo sfruttamento finalmente al sicuro, liberi di esprimere se stessi. E’ un giorno dove si celebra la vita ma dove c’è una grande sofferenza pensando a tutti coloro che non ce l’hanno fatta. Ogni animale salvato è la dimostrazione vivente che un altro mondo è possibile, che la compassione non è utopia ma pratica quotidiana e nei Santuari si lavora e si lotta ogni giorno per realizzare questo mondo. Visitare un santuario, soprattutto durante le feste, significa incontrare da vicino queste storie, dare un volto e un nome a chi solitamente resta invisibile, trasformare l’empatia in consapevolezza.

Per questo il nostro invito è semplice ma profondo: venite a conoscere i santuari dove gli animali sono finalmente liberi. Guardateli negli occhi. Ascoltate le loro storie. Sosteneteli con una donazione, fondamentale per garantire cure, cibo e protezione durante tutto l’anno. Valutate l’adozione a distanza di un animale libero: un gesto simbolico che crea un legame e rende concreta la responsabilità verso chi dipende interamente dalla solidarietà umana. E portate il cambiamento anche nelle vostre case, condividendo ricette vegane natalizie, sperimentando nuovi piatti, dimostrando che un Natale senza sfruttamento non solo è possibile, ma è anche più giusto.

Vivere un Natale antispecista significa allargare il cerchio dell’empatia, riconoscere che la pace non può essere selettiva e che l’amore non può fermarsi davanti al piatto. Significa accettare che le tradizioni non sono immutabili, ma evolvono insieme alla nostra coscienza. Se il Natale è davvero il momento in cui celebriamo la vita, allora è il momento perfetto per scegliere di non toglierla a nessuno. Come Rete dei Santuari, continueremo a ricordarlo: il Natale può essere davvero di tutti solo se non esclude nessuno.

da qui

domenica 21 dicembre 2025

Il problema della Sardegna non è Alessandra Todde ma sistemico. Presto non voterà più nessuno - Enrico Lobina

Una legislatura regionale consta di 60 mesi. Quella sarda è cominciata 20 mesi fa. Tenendo presente che l’ultimo anno è di campagna elettorale, e che i cambiamenti importanti hanno bisogno di tempo per essere realizzati, altrimenti rimangono sulla carta, la situazione è grigia. Sempre più elettori disertano le urne. La Sardegna vive un inverno demografico tra i più gravi d’Europa, con cause multifattoriali che agiscono sul breve, medio e lungo periodo. Lo Statuto sardo, a seguito della riforma del Titolo V, sostanzialmente non esiste, ed alla riforma del Titolo V si è aggiunto il processo di attuazione dell’autonomia differenziata (art. 116 Costituzione).

Questa legislatura, in lieve peggioramento rispetto alle precedenti, si caratterizza per una serie di leggi regionali – pur non numerose nel complesso – sulle quali il governo statale solleva rilievi di costituzionalità (ad esempio sul suicidio assistito). Da ultimo, con la sentenza 184/2025, sulla legge sarda sulle aree idonee atte ad ospitare impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, la Corte costituzionale ha smantellato l’unica vera legge importante approvata dal Consiglio regionale nel 2024. Un consiglio regionale che mi pare lavorare poco.

Solo per rimanere alla strettissima attualità, è di questi giorni la scadenza dei 60 giorni (sessanta) entro i quali la Regione si doveva esprimere in relazione all’ampliamento dello stabilimento di bombe e droni della RWM di Domusnovas, attualmente bloccato in quanto irregolare. Si tratta di una scelta di campo: o stai col piano di riarmo, o stai con la pace. La Giunta, divisa al suo interno, ha deciso di non decidere, e di lasciare che il Tar nomini un commissarioIntanto il governo nazionale sta tentando il colpo di mano con un emendamento ad hoc alla manovra.

Ma allora la Regione a che serve, verrebbe da chiedersi.

Qualche giorno prima l’Assessore più importante della Giunta, l’Assessore alla Sanità, espressione dei Cinque Stelle, è stato defenestrato e lo stesso assessore ha accusato il suo (ex) partito di avere ceduto al clientelismo, ed ha anche affermato che fosse per lui avrebbe chiamato solamente manager dal continente, in quanto in Sardegna non c’è nessuno capace. Se volete sapere come sta la sanità, vi basti chiedere ad un qualunque sardo, o basti il dato che i sardi che non si curano sono 1 su 6, nel resto d’Italia 1 su 10.

Da ultimo, per mesi ci hanno detto che bisognava dare priorità alla sessione di bilancio per approvarlo per tempo (ma quante leggi importanti si sono fatte prima?), e poi come se niente fosse, senza un minimo di autocritica o senza chiedere scusa, ci si prepara ad (almeno) un mese di esercizio provvisorio. Nel frattempo, si spaccia per grande vittoria il fatto che lo Stato ci ha reso una parte dei soldi che doveva ai sardi, dato che gliene abbiamo abbuonato moltissimi.

Il problema non è Alessandra Todde. Può esserci lei o chiunque altra o altro. Il problema è sistemico.

Il rischio concreto, come peraltro stiamo vedendo da 15 anni a questa parte, è che ogni singola giunta sia peggiore di quella precedente, e che sempre meno persone vadano a votare. D’altra parte, perché lo dovrebbero fare?

Una volta passate le elezioni, prima delle quali si sentono slogan roboanti (“è il tempo del noi” lo dovrebbero dire ai 211.000 sardi, una enormità, che nell’estate 2024 hanno firmato una proposta di legge sull’energia), Consiglio e giunta diventano dei passacarte, molto attenti al piccolo orto elettorale, comprensivo di consulenti, che alla Sardegna del XXI secolo.
Eventuali dimissioni, o elezioni, non risolveranno nulla.

La Sardegna ha perso la bussola, la può ritrovare con un sardismo democratico diffuso, coraggioso e impegnato. Chi è sceso in piazza per la Palestina, e l’anno scorso contro la speculazione energetica, è una speranza su cui innestare un processo inclusivo che sparigli.

da qui