SELEZIONARE I “BUONI”
A Bologna è stata adottata una nuova modalità
di assegnazione di alloggi pubblici densa di implicazioni, la cui portata va
ben al di là del modesto patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa
occasione specifica (dieci alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia
residenziale sociale). Si tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel
quartiere popolare della Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria.
Sulla collocazione (che ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla
fine. L’attenzione va posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta
solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale
nell’amministrazione pubblica.
Il bando (il cui slogan è “collegare
vite/coltivare idee”) parte dal presupposto che per concorrere a un posto nel
“cohousing” occorra possedere una predisposizione verso questa specifica
tipologia abitativa. Chi abiterà in quel luogo dovrà essere parte di una
comunità, gestire le zone comuni (lo spazio verde e la lavanderia), “avere una
spiccata sensibilità alla riduzione dei consumi” e la capacità di promuovere
“un nuovo modo di vivere la città, il quartiere, la casa”. Di conseguenza,
secondo l’amministrazione comunale, i candidati devono dimostrare di possedere
determinate caratteristiche, a ciascuna delle quali corrisponde un punteggio
attribuito dalla commissione di valutazione, come stabilito nella sezione
intitolata “requisiti di affinità al progetto”. I requisiti previsti sono:
esperienze documentate di volontariato o attivismo in campo sociale o
ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale o ambientale; titolo o
percorso di studio attinente a materie sociali, educative, del mondo
cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale.
Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico.
Per quale ragione una persona che ha fatto del volontariato, o lavora in campo
ambientale, o ha studiato “materie sociali” possiede, solo per questo, in
modo automatico, una particolare “predisposizione” ad abitare in un cohousing?
E per quale misterioso motivo si esclude a priori che persone prive delle
esperienze elencate possano avere ugualmente tale “predisposizione”?
E soprattutto: su quali criteri la commissione
attribuirà il punteggio? In base a cosa verrà stabilito che un’esperienza di
“attivismo” merita un punteggio più elevato rispetto a un’altra? Come verrà
valutato l’“attivismo” svolto in contesti informali, dal momento che non potrà
essere documentato?
Gli interrogativi non si fermano qui. La
commissione, infatti, dovrà valutare anche la “rispondenza” al “Profilo di
Comunità”, sulla base di un questionario compilato dai candidati. Queste sono
alcune delle domande cui saranno chiamati a rispondere:
Perché sei interessato/a a
partecipare alla selezione dei candidati per il Progetto?
In base a quanto hai potuto comprendere
sull’iniziativa, quali sono gli aspetti che maggiormente ti attraggono? E
quelli che più ti preoccupano?
Prova a immaginare alcuni aspetti della tua
vita una volta entrato/a a far parte del progetto. In cosa vorresti che si
differenziasse rispetto alla tua situazione attuale?
In base a cosa la commissione attribuirà un
punteggio a queste risposte? Non è dato saperlo, nessun criterio specifico è
indicato (anche perché sarebbe impossibile stabilire parametri rigorosi). In
pratica, la commissione avrà carta bianca.
Questa arbitrarietà non rappresenta solo una
evidente carenza nell’impianto del bando.
Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo
centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione:
dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito,
età, composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità,
disoccupazione, etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero oggetto della valutazione.
La “costruzione della comunità” è il quadro retorico che legittima questa
inquietante innovazione.
Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a
confronto decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera
pubblica che hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva
convergenti) di valutazione dei comportamenti, mostrandone
l’espansione ed evidenziandone i pericoli.
L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione comunale
aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino virtuoso” (che
sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva introdotto negli anni
scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti degli alloggi popolari
finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli,
insomma. Quando un’autorità politica – o chi per essa svolge una specifica
funzione pubblica (per esempio un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da
una parte e chi sta dall’altra, bisognerebbe iniziare a preoccuparsi.
D’altra parte, le indicazioni contenute nel
bando di cui ci stiamo occupando non sono una novità assoluta. Il testo,
infatti, ricalca quello adottato nel 2016 per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità
tra questa amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di
Bologna fa un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali,
e questo è un fatto inedito.
In sostanza, determinati elementi culturali sono in circolazione già da tempo,
ma stavolta si sono combinati in una formulazione più insidiosa. Quale sarà il
passo successivo? In quale ambito verranno applicati criteri analoghi, o
appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi legittimi, che spingono a
non sottovalutare la portata di quello che, a prima vista, si presenta come un
esperimento su scala ridotta.
CHI INSEGNA A CHI?
Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura
fin qui descritta, basata sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio
concetto di “merito” (mai esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la
minacciosa presenza), la procedura prevede una seconda fase, denominata
“Progettazione partecipata del cohousing”.
Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i cui
obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing
presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di
vita, disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire
un gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi
temi in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come
deve essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve
soddisfare.
Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla solidarietà, la
sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per misurarsi su queste
tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere una corretta gestione
delle riunioni: come prendere la parola, costruire un ordine del giorno, fare
sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e partecipate”.
Otto incontri per imparare a vivere, in
sostanza. Con il presupposto che qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si
intende). Il verbo “fornire” utilizzato per introdurre gli scopi di questa fase
è indicativo: “fornire ai/alle partecipanti gli strumenti per diventare
protagonisti/e del proprio progetto”. In poche righe è sintetizzata l’idea di
città che gli amministratori hanno in mente, una città in cui i modi di abitare
non nascono dalle relazioni quotidiane e dagli scambi nei luoghi di vita e di
lavoro – come è sempre avvenuto nella storia – ma vengono “insegnati” a partire
da un modello normativo.
Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga
perfettamente con il modello di partecipazione perseguito dalle
amministrazioni che si sono susseguite al governo di Bologna da almeno quindici
anni a questa parte, fortemente centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto
di una retorica che lo promuove come diffuso e spontaneo. Anche il percorso
“formativo” previsto dal bando per il cohousing rientra in questo schema. Gli
incontri, infatti, saranno guidati da professionisti, secondo un copione che si
ripete invariabilmente. Stuoli di “facilitatori” hanno attraversato negli
ultimi anni decine e decine di “percorsi partecipativi” intorno ai temi della
“rigenerazione urbana”, senza che ne sia mai risultato davvero accresciuto il
potere decisionale delle cittadine e dei cittadini, senza il quale la
partecipazione si riduce a pura operazione di marketing.
C’è un altro aspetto da cogliere nella
procedura prevista dal bando: la sua contraddittorietà. Agli incontri saranno
chiamati a partecipare i richiedenti che abbiano superato la prima fase della
selezione (quella dei punteggi attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla
disponibilità degli alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici
nuclei familiari rimarranno esclusi dall’assegnazione.
In pratica, all’interno di un processo finalizzato a promuovere la solidarietà, viene
insediato un meccanismo di concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno
allo stesso tavolo per discutere come “costruire la comunità”, i candidati
dovranno sgomitare per prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in
affitto, un bene oggi rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro
dell’ideologia del merito che pervade il bando.
Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con
quali criteri? Nell’impossibilità di individuare parametri “oggettivi” per
governare questa fase così delicata, il bando prevede due passaggi. Il primo si
chiama “autoselezione”: “Dopo i primi otto incontri, l’individuazione dei
futuri dieci nuclei di coabitanti sarà basata sull’autoselezione da parte degli
stessi partecipanti che decideranno se Fioravanti 24 è il progetto di cohousing
che fa per loro”.
Sostanzialmente, il Comune spera che la metà
dei partecipanti rinunci perché scoprirà di non essere interessata al progetto.
Però gli incontri non sono informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente
che per almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia
addirittura dissuasiva?
E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono sufficienti? Se, folgorati
dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo strumentale ma non per
questo meno legittimo – spinti
La risposta è semplice, per certi aspetti disarmante: “si procederà per
sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale, vista la posta in gioco: non si
tratta di una partita di calcio terminata in parità dopo i rigori, ma del
soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella logica del bando si tratta di una
scelta perfettamente coerente: se si prevedono meccanismi di valutazione
arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non ci si deve stupire se
all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale.
LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI
Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri
di XM24, uno spazio sociale autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6
agosto 2019. Quel giorno un massiccio spiegamento di polizia eseguì uno
sgombero violento, con tanto di ruspa al seguito, su richiesta del comune di
Bologna.
XM24 non poteva più stare lì, in quei locali
dismessi del vecchio mercato ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune –
proprio lì era assolutamente necessario e urgente costruire un cohousing. La
bugia era patetica, allora come oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel
corso del tempo: all’inizio l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in
quel luogo una caserma dei carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a
termine l’opera di “normalizzazione” in atto da tempo.
Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati molti altri, mostrando un’avversione
profonda per tutti gli spazi autogestiti. Ne rimaneva solo uno, bisognava
completare l’opera. E poi quel luogo disturbava il progetto di “rigenerazione
urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento abitativo di grandi
dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni a seguito del
fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per ripartire, meglio
sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il Comune ha mostrato
in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole.
Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello
sgombero, una formazione politica in quel momento all’opposizione – e che ora,
invece, fa parte della maggioranza di governo e siede in giunta con l’assessora
alla casa artefice del bando – aveva scritto un comunicato di critica all’amministrazione
comunale, che si concludeva in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di
uno spazio di creatività e socialità con dieci appartamenti in co-housing a
risollevare le sorti del deserto urbanistico creato in quell’area […]”.
Giuste parole, alle quali si potrebbe
aggiungere che non sarà l’abito nuovo confezionato intorno all’opera a cambiare
a posteriori la sua natura strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo
gusto.
(*) Tratto da Napoli Monitor.
Disegno di apertura di Chiara Tirro.