Mentre in
Italia aumenta il numero dei suicidi nelle università, tarda ad arrivare un
cambiamento strutturale. Il sistema formativo, sempre più competitivo e
aziendalizzato, non lascia spazio all’identità e alla vulnerabilità degli
studenti.
E così di
università si muore.
Il caso di Fisciano: l’ultimo di una lunga serie di
suicidi nelle università
Lo scorso 17
febbraio, uno studente napoletano si è tolto la vita, precipitando dal quarto
piano del parcheggio del campus di Fisciano (Università di Salerno). Si
chiamava Nunzio. Sul Corriere del Mezzogiorno si legge che era stato dichiarato
“decaduto” dalla carriera universitaria.
Solo a
Salerno è il quinto caso in pochi anni. L’ennesimo caso destinato
all’anonimato, al quale vengono condannate tutte le storie ritenute non
meritevoli di attenzione pubblica da parte della stampa mainstream.
Ogni volta
ci si dice “stupiti”, “sconcertati”, “increduli” (il campo semantico è sempre
quello), si cade dalle nuvole e si invoca un cambiamento. Nei casi migliori,
segue l’inaugurazione di uno sportello per il supporto psicologico. Ma un
ripensamento strutturale della carriera universitaria stenta ad arrivare e ad
interessare i decisori pubblici: nella sua attuale configurazione, l’esperienza
universitaria è anticamera di un mondo iper-competitivo in cui bisogna produrre
per poter sperare di contare qualcosa nella società. Ogni ostacolo sul percorso
è un errore imperdonabile. Ogni digressione, una perdita di tempo.
L’obiettivo
è quello di assorbire acriticamente saperi e conoscenze funzionali a un preciso
modello di società, e, soprattutto, farlo nei tempi prestabiliti. Chi ci riesce
ottiene più chances di sbarcare il lunario, chi perde corre il rischio di
essere lasciato indietro.
Il lutto come ostacolo alla riflessione politica:
suicidi nelle università e silenzio istituzionale
Ricercando
su Google “studente suicida Salerno”, nell’intento di approfondire la notizia
di poche settimane fa, i risultati hanno restituito un numero impressionante di
storie di suicidi in università. Procedendo a ritroso fino al 2017, sono stati
registrati decine e decine di casi in tutta Italia, tutti sovrapponibili al caso
di Fisciano. Decine e decine di studenti e sempre lo stesso rituale “in
memoriam”: i peana di cordoglio di rettrici e rettori, i palloncini
liberati in aria di fronte alle sedi universitarie, il minuto di
raccoglimento.
Il lutto
finisce sempre per inibire la riflessione politica, che potrebbe risultare
strumentale, fuori luogo: un atto di cattivo gusto in momenti tanto tristi e
delicati. Funziona così anche per le morti sul lavoro e i femminicidi. Non a
caso, quando Elena Cecchettin provò a catalizzare l’attenzione per intavolare
un discorso di consapevolezza collettiva, la accusarono di non soffrire
abbastanza. Inchiodare le istituzioni alle loro responsabilità, insomma, sembra
essere ancora una questione di stile e corretto tempismo. Questo perché culturalmente
consideriamo il silenzio come la più alta forma di cordoglio. La morte riduce a
questione privata qualsiasi problema (anche quello dei suicidi in università,
clamorosamente collettivo), e tanto basta.
Il ruolo della società e dei media
Proprio come
accade per i femminicidi, anche in questi casi esistono modi giusti e sbagliati
di raccontare i fatti. La maggior parte delle testate ha scelto di parlare di
Nunzio, nei titoli, come di uno “studente di 27 anni”. Il fatto che l’età venga
riportata come prima informazione nella notizia del suicidio di uno studente
universitario è già di per sé parte del problema.
Come se nel
dato anagrafico si dovessero rintracciare, dunque validare, le ragioni del
gesto, che pure restano insondabili, inafferrabili. Nonostante si tenda a
considerare assurda l’idea che l’età basti a pacificarci con la coscienza, il
pensiero si insinua subdolamente nel caso dei suicidi nelle università. Così,
tutto il resto viene tralasciato: la società, il contesto socioeconomico, i
modelli di consumo.
Si finisce
per ignorare il fatto che, per esempio, i trent’anni sono diventati i nuovi
venti, per forza di cose. Questo perché nessuno è economicamente indipendente o
riesce agilmente a pagarsi l’affitto prima di quell’età. Almeno, nessuno che
non abbia potuto investire il denaro di famiglia in un percorso di formazione
privata. Per il resto, la quasi totalità dei pochi che oggi riescono ad
auto-percepirsi indipendenti prima dei trent’anni, deve questo status ai propri
genitori e nonni.
Suicidi nelle università: la fine della corsa
Insomma,
nonostante i percorsi si siano ridefiniti, leggere “studente di 27 anni” fa
comunque storcere il naso. Quel numero accanto alla parola “studente”,
quell’età adulta in cui è ridicolo stare ancora parcheggiati all’università,
testimoniano un disagio che conosciamo bene.
È lo stesso
dal quale un po’ tutti – anche chi non ha mai avuto problemi particolari lungo
il proprio percorso accademico – imparano presto a scappare. Pena: restare
indietro (l’incubo! La minaccia!). Qualcuno ci è riuscito, con lode e senza
particolari intoppi. Forse ha potuto studiare in un contesto sereno o non ha
dovuto trovare un equilibrio tra studio e lavoro; non ha dovuto trascorrere ore
sui mezzi pubblici o è stato tanto fortunato da azzeccare il percorso al primo
tentativo. Magari, per qualche ragione, aveva uno schema di apprendimento
conforme a quello su cui si basano gli attuali parametri di valutazione, oppure
ha abbracciato, più o meno consapevolmente, la retorica del sacrificio.
In questi
anni si è letto di tutto sui giornali: giovani laureati e ventenni prodigio che
si vantavano di rinunciare a intere ore di sonno pur di sfruttare al massimo
ogni appello. L’ultima notizia è del 24 febbraio, ci parla di una ventenne
“laureata record” alla Normale di Pisa, ma l’elenco è lungo. Immancabile,
arriva ogni volta il plauso sottinteso delle testate, colpevoli invece di dare
spazio e lustro a questo approccio discutibile. Ecco perché, probabilmente, si
tende a fuggire dalle notizie che raccontano una realtà diversa: esse sono il
riflesso di ciò che sarebbe potuto accadere a chiunque.
Lo spettro del “fallimento” e i suicidi nelle
università
Senza voler
risultare drammatici, morire di università è una possibilità concreta, perché
l’università è diventata il simbolo di un’esistenza dominata da individualismo
e competizione. Il fatto è che non lo si dice abbastanza. Chi è studente
universitario oggi è spesso il primo della propria famiglia ad aver avuto
accesso a questo grado di istruzione: ecco perché un dialogo intergenerazionale
e intrafamiliare su cosa sia e come funzioni l’università è quasi impensabile.
A questo si aggiunge il fatto che tra i Baby Boomers e la Gen X regna ancora
incontrastata la narrazione spietata del “se vuoi, puoi”. Peccato che non si è
più negli anni Ottanta.
Secondo i
dati più recenti dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), ogni anno si
registrano circa 4.000 suicidi nel Paese, il cui 5% riguarda giovani sotto i 24
anni. Questo significa che annualmente, circa 200 giovani in questa fascia
d’età decidono di togliersi la vita, molti dei quali sono studenti
universitari. Nel 2023, due casi eclatanti avevano acceso i riflettori
sull’emergenza dei suicidi in università. “Fallimento, università e politica”,
aveva scritto nel suo messaggio d’addio uno studente di Economia
dell’università di Palermo. Si era tolto la vita a una settimana dalla sessione
d’esame, il 15 gennaio 2023. In pochi ne avevano parlato. Era stato il
ritrovamento del cadavere di un’altra studentessa, la mattina del primo
febbraio 2023, a riaprire il dibattito sul disagio degli studenti. Si era
uccisa nei bagni dell’università Iulm di Milano e in una lettera aveva
descritto la propria vita come “un fallimento”.
Un sistema classista e abilista
Tornando a
Fisciano, il Rettore dell’Università di Salerno ha parlato di “fragilità
nascoste”. Sembrerebbe un discorso avanguardistico, se non fosse che ammettere
l’esistenza delle fragilità è utile ma non sufficiente. Parlare della reazione
soggettiva, infatti, non mette in discussione il sistema. E nemmeno
sottolineare che l’ennesimo studente morto suicida forse non stava bene a
prescindere dall’università. Insinuare il dubbio (pur legittimo) e parlare di
indagini non serve a denunciare il sistema universitario, diventato oggi una
mistione di classismo e abilismo.
La
commozione è solo la faccia borghese dell’urgenza che si ha di tenere certe
storie lontane. Ripetere fino allo stremo che “ci sono sempre tante ragioni per
cui uno decide di farla finita” non basta. Posto sia vero, non ci si può
esimere dal domandarsi come mai un contesto come quello universitario non
consenta di esprimere un disagio o di chiedere aiuto. Sentirsi isolati fra la
gente è una condanna, e, infatti, c’è solo un altro luogo in cui le
persone continuano a togliersi la vita con una certa frequenza: il carcere.
Gli
sportelli per il supporto psicologico in università, ove presenti, sono del
tutto inefficienti, con liste d’attesa lunghissime. E certamente la
celebrazione degli enfant prodiges e dei laureati record non
aiuta. Serve solo a illudersi del fatto che chi possiede la metà delle risorse
materiali possa farcela impegnandosi il doppio. I regolamenti delle tasse
rispecchiano questa logica: premialità e sanzioni, esoneri per gli indigenti ma
penalità se quegli stessi indigenti finiscono fuoricorso. Non c’è spazio per
chi non abbia voglia di sgomitare. La scarsità genera competizione e asciuga
l’identità.
Università e merito: il sistema che premia solo chi
può permetterselo
Così, un
voto può facilmente travalicare i confini di un esame di profitto e una
bocciatura suonare come la profezia su un futuro infausto. Ma quanto è
difficile che la spada di Damocle penda sul capo di chi ha potuto investire
nella propria formazione, fra master e università private? Ecco il vero quid
pluris da quando la laurea è diventata un prodotto di consumo di
massa. Intere sacche di proletariato si sono svuotate nell’università pubblica,
rendendola di fatto un ascensore sociale troppo pesante perché possa ancora
funzionare.
Ci sarebbe
da osservare i simboli, perché basti fare un primo distinguo. Nei campus
privati, le corone d’alloro (ormai inflazionate, volgari) stanno piano piano
cedendo il passo a toghe nere e cappelli all’americana. Per lo stesso
principio, le rette da decine di migliaia di euro vengono restituite agli
studenti sotto forma di tutoraggi personalizzati e successivo placement. Il
mercato del lavoro, già saturo, diventa così impenetrabile diversamente.
L’aumento
dei suicidi in università e il malessere degli studenti sono un segnale
d’allarme evidente. Occorrerebbero interventi strutturali per salvare gli
ambienti formativi da questo profondo e inesorabile processo di
aziendalizzazione. Cominciare a parlare di gratuità (e quindi spazzare via
concetti come “fuoricorso”), comunque, sarebbe già un buon inizio per la
costruzione di possibilità alternative.
Quanto
ancora può essere sostenibile un sistema che trasforma gli studenti in prodotti
da svendere sul mercato?
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