martedì 15 aprile 2025

Come si spiega l’umiliazione dell’altro? - Annamaria Manzoni

Ogni parola è già stata spesa annaspando nella ricerca di un modo per dare voce all’incredulità, all’angoscia, alla rivolta inesprimibile davanti a un mondo che declina la parola umanità con sinonimi quali ferocia, brutalità, spietatezza. Bambini fatti morire di fame e di sete, ospedali bombardati, missili lanciati con la stessa svagatezza con cui si lanciano freccette sul bersaglio nei pub inglesi: pur di distruggere ogni forma di vita, quelle di oggi e quelle di domani, ostaggio di mine antiuomo, in grado di colpire i bambini che ci sono e quelli che verranno. E poi stupri, torture, oscenità di ogni tipo esibite con orgoglio da chiunque pensi di poterlo fare perché detentore di un qualsiasi potere, che si tratti di presidenti, dittatori, ministri o bulli di ogni calibro che misurano il grado della propria forza sull’umiliazione inflitta ad altri.

In risposta ci armiamo anche noi, ci armiamo più di quanto non abbiamo sempre continuato a fare (l’Italia nello specifico sta scalando posizioni, dal decimo posto al sesto in pochi anni, nell’elenco dei maggiori esportatori mondiali di armi) facendo emergere la nostra essenza mai scomparsa di scimmia assassina, di quella killer ape che, nella seconda metà del ‘900 in molti hanno sostenuto impersonare la nostra vera natura, tenuta a bada dalle briglie sociali, ma sempre viva e vegeta, pronta a riemergere. Pronta perché tutto sommato, diventare civili ci ha di certo un po’ ingentilito, ma, diceva Freud, se ci dà sicurezza, comporta però anche disagio, limita l’espressione dei nostri desideri e delle nostre pulsioni, che sempre sono lì a premere per manifestarsi: insomma l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza, (Il Disagio della civiltà, 1929). E allora ecco i nostri tempi che ci lasciano senza parole nel buttare in discarica leggi e diritti: a questo punto tutto diventa lecito, per esempio prendere la Groenlandia perché ci serve. In fondo siamo sempre quelli della pietra e della fionda: peccato che, emancipati come siamo, pietra e fionda le abbiamo sostituite con bombe e droni.

Come non richiamare le parole di Einstein che, nel suo carteggio del 1932 con lo stesso Freud affermava che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di uccidere? Terrorizzati da questa e altre simili consapevolezze, da vari decenni stuoli di scienziati, studiando tra i nostri comportamenti quelli più distruttivi, vanno sostenendo che li scegliamo, ma le nostre non sono scelte obbligate, non sono mai l’unica nostra possibilità: tutto quello che facciamo dipende sì dalla nostra biologia, ma contestualmente anche da elementi psicologici e sociali. E allora, se anche non si può prescindere dalla nostra natura, possiamo almeno agire sugli altri elementi che concorrono a determinare le nostre scelte, sui modelli e sull’educazione che proponiamo alle nuove generazioni: nel loro insieme potrebbero dirigere i nostri passi e le nostre azioni in direzione ostinatamente contraria al male che da millenni è parte corposa delle nostre vite.

Purtroppo però tanti degli attuali modelli, quelli diffusi da social e media, quelli gridati, esposti e sostenuti, quelli che hanno la potenza della propaganda, questa auspicabile direzione neppure la conoscono. Se anche ci si allontana dai teatri di guerra e dal trionfo dei massacri quotidiani, il cinismo e l’arroganza invadono il mondo offeso degli inermi, degli sconfitti, dei disperati. Quale ottimo testimone di questa deriva troviamo allora, tra i tanti altri, Donald Trump, che si fa vanto con i filmati del rimpatrio forzato in Venezuela di prigionieri, mani e piedi in catene, piegati in due, trascinati da omoni grandi e grossi, tutori di quella legge mille miglia lontana dalla giustizia.

Tutto fa scuola: passano pochi giorni ed è la segretaria statunitense alla sicurezza Kristi Noem che, orgogliosa e felice, rilascia le sue dichiarazioni sullo sfondo di prigionieri seminudi, ingabbiati, umiliati: perché questa è la fine che si meritano i migranti non regolari, quelli che cercano scampo da luoghi di fame e sopraffazione, ci comunica da sotto l’ala del suo berrettino da baseball che fa tanto America is back, con tutte le sue bandierine a sostenere una visione del mondo in cui povertà e disperazione diventano crimini.

Diffuso lo sdegno a cui hanno dato voce con parole simili molti giornalisti, quelli non asserviti ai potenti della terra: nelle immagini cariche di orrore i prigionieri vengono descritti stipati come bestiame, si parla di disumanizzazione degli umani, divenuti una massa anonima, come nei gulag, in quei luoghi di detenzione dove gli uomini diventano cose, trasformazione indispensabile per potersene poi liberare come si fa con le cianfrusaglie: citazioni, queste, dall’articolo di Michele Serra sull’Amaca di Repubblica, in cui risuonano temi fondamentali, implicitamente richiamati. È vero: i prigionieri ammassati, rinchiusi, disperati sono proprio come gli animali che ogni giorno, a milioni, vengono stipati sui carri diretti al macello, addossati gli uni agli altri con lo spazio solo dell’aria in cui lasciar dissolvere inascoltati lamenti, che a cui i loro aguzzini, determinati allo svolgimento di quello che considerano un dovere, non danno risposta alcuna.

Non sarebbe male ricordare le parole di Marguerite Yourcenar, che, con tutta la sua autorevolezza, sosteneva che ci sarebbero… meno vagoni piombati che trasportano alla morte le vittime di qualsiasi dittatura, se non avessimo fatto l’abitudine ai furgoni dove le bestie agonizzano senza cibo e senz’acqua dirette al macello. In altri termini ricostruiva il filo che lega la violenza sugli animali a quella sugli umani e coglieva il drammatico insegnamento, figlio dell’accettazione e della assuefazione alla crudeltà legalizzata, normata, sistemica, regolarmente inflitta alle bestie. Il tirocinio disconosciuto a quella crudeltà su esseri senzienti, diceva, ha conseguenze drammatiche non solo su di loro, ma anche sulla specie umana, sulla quale prima o poi verrà riversata una analoga crudeltà, il cui esercizio sarà stato bene imparato ed interiorizzato.

C’è dell’altro nell’articolo citato: Serra dice che il trattamento inflitto ai prigionieri è reso possibile solo dalla loro disumanizzazione: importante teoria già sostenuta dallo psicologo Albert Bandura. Al quale va il merito di avere inquadrato i meccanismi che permettono a noi umani di fare del male continuando a considerarci brave persone: per usare le sue parole, a disimpegnarci moralmente dal male che facciamo. Bene: uno di questi meccanismi consiste proprio nel deumanizzare la vittima, nel privarla della sua umanità per assimilarla a un animale: meccanismo in perpetuo funzionamento nel corso delle guerre, antiche e moderne, che hanno sempre visto i nemici appellati come animali: topi di fogna, scarafaggi, figli di cagna…tanto per citare. Il meccanismo funziona: se quelli che vado tormentando e uccidendo sono animali, beh: allora sono nel giusto. Perché agli animali si può fare tutto il male del mondo, visto che sono al nostro esclusivo servizio; ma, per maggiore tranquillità, si prosegue reificandoli, considerandoli alla stregua di cose. Spaventosa teoria che ha tra i suoi illustri sostenitori quel Renato Cartesio che già nel 1600 sosteneva che l’animale è solo una macchina e quindi su di lui qualsiasi operazione, esperimento, tortura può essere eseguita senza alcuno scrupolo. Perché le sue grida, diceva, non sono di dolore, ma semplici cigolii come quelli che provengono dalle macchine. Secoli dopo, era papa Pio XII, in visita al mattatoio di Roma nel 1957, a rivolgersi ai macellatori assicurando che i gemiti delle bestie abbattute e uccise per giusto motivo non dovrebbero destare una tristezza maggiore del ragionevole. Quale sia il confine della ragionevolezza richiamata sarebbe tutto da definire.

Insomma alla ricerca di una risposta alle domanda che in tanti oggi ci poniamo, vale a dire come sia possibile che si possa fare ad esseri umani l’enormità del male che oggi si sta facendo, e come sia possibile che tanta parte del mondo occidentale resti incredibilmente afona e impassibile davanti all’intollerabile, sarebbe davvero venuto il momento di prendere atto che la risposta va cercata anche nell’assuefazione a tutte le altre forme di violenza, crudeltà e ingiustizia che pratichiamo o accettiamo, considerandole normali, addirittura giuste tanto da criticare aspramente o dileggiare chi vi si oppone. Da millenni pensatori e scrittori mettono in luce il filo che unisce tutte le forme di violenza, contro chiunque siano dirette, animali o umani che siano.

E oggi sappiamo bene che nessuna esperienza è priva di tracce, perché viene custodita nel nostro inconscio e influisce sul nostro modo di essere e di agire. Non solo quello che facciamo ci modifica, ma anche quello a cui assistiamo: allora se per caso è vero (ma i tempi autorizzano ormai a dubitarne) che il mondo che vogliamo è un mondo pacificato, solidale, rispettoso, è assolutamente necessario opporsi a ogni forma di violenza, contro chiunque venga commessa, individuo umano o nonumano, comunità, popolo. Finché non lo faremo, alla violenza stessa concederemo di albergare dentro di noi, e guardandola senza nemmeno riconoscerla come tale a causa della sua normalizzazione, ne saremo di fatto sostenitori; per poi scandalizzarci se il numero delle vittime diventerà smisurato o se si esprimerà in modi in cui rileveremo livelli di impensabile sadismo.

Forse è venuto il momento di prendere sul serio i suggerimenti di Montaigne e Andrea Gallo, e aggiungere all’elenco dei vizi capitali, interiorizzati come motivo di vergogna, la crudeltà, degna di ambire ad un meritatissimo primo posto, a pari merito con l’indifferenza, tanto praticate dalla nostra specie: l’una e l’altra prime responsabili della nostra essenza, tanto più vicina nei fatti a quella di legno storto che a quella autoattribuita di specie eletta.

da qui

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