Ogni parola è già stata spesa annaspando nella ricerca di un modo per dare voce all’incredulità, all’angoscia, alla rivolta inesprimibile davanti a un mondo che declina la parola umanità con sinonimi quali ferocia, brutalità, spietatezza. Bambini fatti morire di fame e di sete, ospedali bombardati, missili lanciati con la stessa svagatezza con cui si lanciano freccette sul bersaglio nei pub inglesi: pur di distruggere ogni forma di vita, quelle di oggi e quelle di domani, ostaggio di mine antiuomo, in grado di colpire i bambini che ci sono e quelli che verranno. E poi stupri, torture, oscenità di ogni tipo esibite con orgoglio da chiunque pensi di poterlo fare perché detentore di un qualsiasi potere, che si tratti di presidenti, dittatori, ministri o bulli di ogni calibro che misurano il grado della propria forza sull’umiliazione inflitta ad altri.
In risposta
ci armiamo anche noi, ci armiamo
più di quanto non abbiamo sempre continuato a fare (l’Italia nello specifico
sta scalando posizioni, dal decimo posto al sesto in pochi anni, nell’elenco
dei maggiori esportatori mondiali di armi) facendo emergere la nostra essenza
mai scomparsa di scimmia assassina, di quella killer ape che, nella seconda
metà del ‘900 in molti hanno sostenuto impersonare la nostra vera natura,
tenuta a bada dalle briglie sociali, ma sempre viva e vegeta, pronta a
riemergere. Pronta perché tutto sommato, diventare civili ci ha di certo un po’
ingentilito, ma, diceva Freud, se ci dà sicurezza, comporta però anche disagio,
limita l’espressione dei nostri desideri e delle nostre pulsioni, che sempre
sono lì a premere per manifestarsi: insomma l’uomo civile ha barattato una
parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza, (Il Disagio
della civiltà, 1929). E allora ecco i nostri tempi che ci lasciano senza
parole nel buttare in discarica leggi e diritti: a questo punto tutto
diventa lecito, per esempio prendere la
Groenlandia perché
ci serve. In fondo siamo sempre quelli della pietra e della fionda: peccato
che, emancipati come siamo, pietra e fionda le abbiamo sostituite con bombe e droni.
Come non
richiamare le parole di Einstein che, nel suo carteggio del 1932 con lo stesso
Freud affermava che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di uccidere?
Terrorizzati da questa e altre simili consapevolezze, da vari decenni stuoli di
scienziati, studiando tra i nostri comportamenti quelli più distruttivi, vanno
sostenendo che li scegliamo, ma le nostre non sono scelte obbligate, non sono
mai l’unica nostra possibilità: tutto quello che facciamo dipende sì
dalla nostra biologia, ma contestualmente anche da elementi psicologici e
sociali. E allora, se anche non si può prescindere dalla nostra natura,
possiamo almeno agire sugli altri elementi che concorrono a determinare le
nostre scelte, sui modelli e sull’educazione che proponiamo alle nuove
generazioni: nel loro insieme potrebbero dirigere i nostri passi e le nostre
azioni in direzione ostinatamente contraria al male che da millenni è parte
corposa delle nostre vite.
Purtroppo
però tanti degli attuali modelli, quelli diffusi da social e media, quelli
gridati, esposti e sostenuti, quelli che hanno la potenza della propaganda,
questa auspicabile direzione neppure la conoscono. Se anche ci si allontana dai
teatri di guerra e dal trionfo dei massacri quotidiani, il cinismo e
l’arroganza invadono il mondo offeso degli inermi, degli sconfitti, dei
disperati. Quale ottimo testimone di questa deriva troviamo allora, tra i tanti
altri, Donald Trump, che si fa vanto con i filmati del rimpatrio forzato in
Venezuela di prigionieri, mani e piedi in catene, piegati in due, trascinati da
omoni grandi e grossi, tutori di quella legge mille miglia lontana dalla
giustizia.
Tutto fa
scuola: passano pochi giorni ed è la segretaria statunitense alla sicurezza
Kristi Noem che, orgogliosa e felice, rilascia le sue dichiarazioni sullo
sfondo di prigionieri seminudi, ingabbiati, umiliati: perché questa è la fine
che si meritano i migranti non regolari, quelli che cercano scampo da luoghi di
fame e sopraffazione, ci comunica da sotto l’ala del suo berrettino da baseball
che fa tanto America is back, con tutte le sue bandierine a
sostenere una visione del mondo in cui povertà e disperazione diventano
crimini.
Diffuso lo
sdegno a cui hanno dato voce con parole simili molti giornalisti, quelli non
asserviti ai potenti della terra: nelle immagini cariche di orrore i
prigionieri vengono descritti stipati come bestiame, si parla di
disumanizzazione degli umani, divenuti una massa anonima, come nei gulag, in
quei luoghi di detenzione dove gli uomini diventano cose, trasformazione
indispensabile per potersene poi liberare come si fa con le cianfrusaglie:
citazioni, queste, dall’articolo di Michele Serra sull’Amaca di Repubblica, in
cui risuonano temi fondamentali, implicitamente richiamati. È vero: i
prigionieri ammassati, rinchiusi, disperati sono proprio come gli animali che
ogni giorno, a milioni, vengono stipati sui carri diretti al macello,
addossati gli uni agli altri con lo spazio solo dell’aria in cui lasciar
dissolvere inascoltati lamenti, che a cui i loro aguzzini, determinati allo
svolgimento di quello che considerano un dovere, non danno risposta alcuna.
Non sarebbe
male ricordare le parole di Marguerite Yourcenar, che, con tutta la sua
autorevolezza, sosteneva che ci sarebbero… meno vagoni piombati che trasportano
alla morte le vittime di qualsiasi dittatura, se non avessimo fatto l’abitudine
ai furgoni dove le bestie agonizzano senza cibo e senz’acqua dirette al macello. In altri termini ricostruiva il
filo che lega la violenza sugli animali a quella sugli umani e coglieva il
drammatico insegnamento, figlio dell’accettazione e della assuefazione alla
crudeltà legalizzata, normata, sistemica, regolarmente inflitta alle bestie. Il
tirocinio disconosciuto a quella crudeltà su esseri senzienti, diceva, ha
conseguenze drammatiche non solo su di loro, ma anche sulla specie umana, sulla
quale prima o poi verrà riversata una analoga crudeltà, il cui esercizio sarà
stato bene imparato ed interiorizzato.
C’è
dell’altro nell’articolo citato: Serra dice che il trattamento inflitto ai
prigionieri è reso possibile solo dalla loro disumanizzazione: importante
teoria già sostenuta dallo psicologo Albert Bandura. Al quale va il merito di
avere inquadrato i meccanismi che permettono a noi umani di fare del male
continuando a considerarci brave persone: per usare le sue parole, a
disimpegnarci moralmente dal male che facciamo. Bene: uno di questi meccanismi
consiste proprio nel deumanizzare la vittima, nel privarla della sua umanità
per assimilarla a un animale: meccanismo in perpetuo funzionamento nel corso
delle guerre, antiche e moderne, che hanno sempre visto i nemici appellati come
animali: topi di fogna, scarafaggi, figli di cagna…tanto per citare. Il
meccanismo funziona: se quelli che vado tormentando e uccidendo sono animali,
beh: allora sono nel giusto. Perché agli animali si può fare tutto il
male del mondo, visto che sono al nostro esclusivo servizio; ma, per
maggiore tranquillità, si prosegue reificandoli, considerandoli alla stregua di
cose. Spaventosa teoria che ha tra i suoi illustri sostenitori quel
Renato Cartesio che già nel 1600 sosteneva che
l’animale è solo una macchina e quindi su di lui qualsiasi operazione,
esperimento, tortura può essere eseguita senza alcuno scrupolo. Perché le sue
grida, diceva, non sono di dolore, ma semplici cigolii come quelli che
provengono dalle macchine. Secoli dopo, era papa Pio XII, in visita al
mattatoio di Roma nel 1957, a rivolgersi ai macellatori assicurando che i
gemiti delle bestie abbattute e uccise per giusto motivo non dovrebbero destare
una tristezza maggiore del ragionevole. Quale sia il confine della
ragionevolezza richiamata sarebbe tutto da definire.
Insomma alla
ricerca di una risposta alle domanda che in tanti oggi ci poniamo, vale a dire
come sia possibile che si possa fare ad esseri umani l’enormità del male che
oggi si sta facendo, e come sia possibile che tanta parte del mondo occidentale
resti incredibilmente afona e impassibile davanti all’intollerabile, sarebbe
davvero venuto il momento di prendere atto che la risposta va cercata anche
nell’assuefazione a tutte le altre forme di violenza, crudeltà e ingiustizia
che pratichiamo o accettiamo, considerandole normali, addirittura giuste tanto
da criticare aspramente o dileggiare chi vi si oppone. Da millenni
pensatori e scrittori mettono in luce il filo che unisce tutte le forme di
violenza, contro chiunque siano dirette, animali o umani che siano.
E oggi
sappiamo bene che nessuna esperienza è priva di tracce, perché viene custodita
nel nostro inconscio e influisce sul nostro modo di essere e di agire. Non solo
quello che facciamo ci modifica, ma anche quello a cui assistiamo: allora se
per caso è vero (ma i tempi autorizzano ormai a dubitarne) che il mondo che
vogliamo è un mondo pacificato, solidale, rispettoso, è assolutamente
necessario opporsi a ogni forma di violenza, contro chiunque venga
commessa, individuo umano o nonumano, comunità, popolo. Finché non lo faremo,
alla violenza stessa concederemo di albergare dentro di noi, e guardandola
senza nemmeno riconoscerla come tale a causa della sua normalizzazione, ne
saremo di fatto sostenitori; per poi scandalizzarci se il numero delle vittime
diventerà smisurato o se si esprimerà in modi in cui rileveremo livelli di
impensabile sadismo.
Forse è
venuto il momento di prendere sul serio i suggerimenti di Montaigne e Andrea
Gallo, e aggiungere all’elenco dei vizi capitali, interiorizzati come motivo di
vergogna, la crudeltà, degna di ambire ad un meritatissimo primo posto, a pari
merito con l’indifferenza, tanto praticate dalla nostra specie: l’una e l’altra prime responsabili
della nostra essenza, tanto più vicina nei fatti a quella di legno storto che a
quella autoattribuita di specie eletta.
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