La Repubblica Centrafricana (RCA), situata nel cuore
dell’Africa, continua ad essere uno dei Paesi più
instabili al mondo. Bangui, la sua capitale, già qualche anno fa era
stata definita dal quotidiano The Telegraph una di quelle città “che non vedi l’ora di lasciarti alle spalle“. Un luogo
“selvaggio, non in senso positivo. Polveroso (…). Abbandonato e
infelice“. In altre parole, lo
specchio della violenza e della devastazione che affliggono l’ex
colonia francese sin dalla sua indipendenza (1960) a causa dei continui colpi di stato,
ammutinamenti e ribellioni.
L’ultima “crisi” è cominciata nel 2012 ad opera dei
ribelli della Seleka – l’alleanza nata nelle
regioni a maggioranza musulmana – che nel marzo 2013 hanno deposto il
presidente Bozizé, conquistato Bangui e affermato il proprio controllo su gran
parte del territorio nazionale.
La guerra civile si è conclusa, almeno formalmente,
con l’accordo di Khartoum, siglato il 6 febbraio 2019, tra
il Governo e 14 gruppi armati. Si tratta dell’ottavo accordo firmato dall’inizio del conflitto ed è
difficile stabilire se costituirà il preludio per una pace duratura.
Sul piano sostanziale, infatti, il processo di
riconciliazione nazionale sembra al momento inficiato, tra le altre cose, dal persistente clima di impunità verso
i crimini perpetrati dalle parti in lotta.
Come in ogni guerra che si rispetti, anche nella
Repubblica Centrafricana la popolazione civile è stata bersaglio di gravi violazioni dei diritti umani.
Nel report “Killing without consequences”,
pubblicato da Human Rights Watch (HRW), si
legge: “l’uccisione di civili, le aggressioni sessuali e la distruzione
dei villaggi rappresentano una
vera e propria tattica di combattimento“ usata tanto dai
gruppi della Seleka che dalle forze anti-balaka (le
milizie cristiane nate dopo l’ascesa al potere di Michel Djotodia).
Donne e bambini hanno pagato
il prezzo più alto.
Le donne sono state abusate a livello
fisico e psicologico, stuprate e spesso ridotte in schiavitù.
Human Rights Watch ha raccolto, nel report intitolato “They said we are their slaves”,
le testimonianze di molte vittime, dalle quali emerge tutta la brutalità messa
in atto dalle forze ribelli.
Natifa racconta che si trovava nei pressi della sua
casa quando sono arrivati i combattenti anti-balaka. “Il comandante
– dice – ordinò loro di condurmi
dentro l’abitazione. Qui mi hanno
torturata. Uno di loro aveva una granata in mano. Mi ha costretta a
spogliarmi e ha inserito la bomba all’interno dei miei genitali”. Natifa
è stata poi stuprata da due di questi guerrieri pur essendo incinta di tre
mesi. Dopo aver confidato al marito quanto accaduto, l’uomo ha preso i loro
bambini e l’ha abbandonata.
I ribelli della Seleka non sono
stati da meno. Martine è stata la schiava
sessuale di un gruppo di combattenti insieme ad altre venti
ragazze, alcune delle quali neppure dodicenni. “Ci slegavano solo per fare
sesso. Succedeva – rivela la donna – a tutte le ore, più volte al giorno e da parte di più individui. Come se non bastasse, dovevamo anche cucinare e lavare i loro
vestiti”.
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Nessuna pietà neppure per i bambini, che sono
stati privati di cibo, acqua, educazione e cure mediche.
E decine di migliaia sono stati arruolati come soldati. In una testimonianza raccolta dall’Unicef, una 14enne
racconta: “ero armata con una pistola. In quel momento nulla mi toccava
perché avevo assunto droghe. Non ero lucida. Anche se avessi avuto paura, non
avrei potuto lasciare il gruppo”.
E forse non è così noto, ma per le Nazioni Unite quella centrafricana rappresenta, ad oggi, la terza crisi umanitaria a livello globale, preceduta soltanto da Siria e Yemen.
Gli autori
degli abusi, salvo rare eccezioni, non stati ancora né individuati né tantomeno
perseguiti.
Eppure, lo stesso accordo di pace ha riconosciuto, nel
preambolo, che “l’impunità ha
alimentato il ciclo infernale della violenza, indebolito la magistratura,
portato a violazioni su larga scala dei diritti umani e del diritto
internazionale umanitario, nonché fomentato la sfiducia popolare nei confronti
dello Stato”. E proprio su tale assunto, nel corso dei negoziati era stato deciso di escludere dall’accordo finale l’amnistia
per i crimini perpetrati nel corso del conflitto, come invece avevano
richiesto i gruppi ribelli in ragione di quanto accaduto in passato dopo i
golpe del 1997 e del 2003.
Il Primo Ministro Firmin Ngrebada, il 29 aprile
scorso, aveva dichiarato con fermezza di fronte all’Assemblea
Nazionale: “la giustizia rappresenta l’ultima risorsa del
popolo centrafricano”.
Tale
dichiarazione non è stata però seguita da azioni tangibili volte a combattere
in modo significativo l’impunità dilagante.
Senz’altro, va considerato che il sistema giudiziario centrafricano è
sempre stato piuttosto fragile. E l’ultima guerra civile ne ha
determinato il collasso definitivo. L’accesso alla giustizia è quindi diventato
oltremodo complicato. “I tribunali statali, al di fuori della
capitale, sono davvero molto pochi”, evidenzia uno studio dell’ASF (Avocats sans Frontières).
Non si contano “i casi di corruzione, estorsione,
intimidazione e detenzioni random” da parte dei servizi di
sicurezza. Inoltre, “il costo delle prestazioni legali e il tipo di
casi che gli avvocati preferiscono gestire (materia societaria in primis)”
comportano di fatto l’esclusione della maggior parte dei cittadini dal sistema
giustizia.
Tuttavia, la Repubblica Centrafricana avrebbe a sua
disposizione alcuni strumenti di
giustizia transitoria, che – se opportunamente utilizzati –
contribuirebbero in modo efficace alla riconciliazione
nazionale, alla ricostruzione del tessuto sociale del Paese e al
ripristino della fiducia nelle istituzioni statali.
In primo luogo, esiste la Special
Criminal Court (SCC). La Corte Speciale è stata istituita
dalla Legge organica n. 15/003, promulgata dall’allora
presidente ad interim Catherine
Samba-Panza il 3 giugno 2015.
È un tribunale ibrido, nel senso che è composto da
giudici nazionali ed internazionali con un mandato di 5 anni. Applica il diritto penale interno che può però integrare
con le norme procedurali e sostanziali di diritto internazionale laddove
risulti necessario colmare delle lacune o evitare discrepanze interpretative.
A differenza di altri tribunali penali internazionali
ovvero ibridi, la SCC non è competente a giudicare solo i principali
crimini internazionali bensì tutte le “gravi
violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario“,
in particolare “genocidio, crimini di guerra e crimini contro
l’umanità” (art. 3).
La sua giurisdizione è concorrente a quella della Corte Penale Internazionale
(CPI), ma si fonda sul principio di complementarietà. Ciò significa che, se la
SCC sta investigando e perseguendo in modo adeguato i presunti autori dei
reati, la CPI non eserciterà le proprie prerogative.
Nell’ipotesi contraria, la Corte dell’Aja rappresenta
comunque un’ulteriore valida possibilità per far sì che le atrocità commesse
nel corso del conflitto centrafricano non restino impunite. A tal proposito, va
ricordato che la Repubblica Centrafricana, il 17 novembre 2018, ha operato la prima estradizione verso
la CPI. Alfred Yekatom, leader delle
milizie cristiane – accusato di omicidi, torture, sparizioni forzate e utilizzo
di bambini-soldato – è stato infatti trasferito innanzi al Tribunale
internazionale.
Tornando alla Special Criminal Court,
c’è da dire che per oltre tre anni la sua attività è stata, per motivi
burocratici e finanziari, pressoché nulla. La sessione inaugurale ha avuto
luogo soltanto il 22 ottobre 2018. E risale allo scorso giugno la dichiarazione del procuratore, Toussaint Muntazini,
secondo cui “sono
stati [finalmente] istruiti
i primi tre casi e altri quattro fascicoli sono in fase di
lavorazione“. Non si hanno dettagli sui casi in questione. Ad avviso
della Corte, “la natura sensibile delle indagini e la situazione di generale
insicurezza sull’intero territorio nazionale impongono il massimo livello di
riservatezza“.
Va poi rilevato che l’accordo di Khartoum ha previsto
la creazione di una Commissione di verità e giustizia con
l’obiettivo di promuovere “la riparazione, la
riconciliazione nazionale e il perdono“, occupandosi dei crimini di
minore entità commessi nel corso del conflitto. La sua istituzione avrebbe
dovuto aver luogo 90 giorni dopo il discorso del Primo Ministro sulla politica
generale, avvenuto il 29 aprile. Il ministro per l’Azione Umanitaria, Sylvain
Demangho, aveva affermato che la Commissione sarebbe stata creata “entro la metà di giugno”. È però trascorsa l’estate e
l’organismo non ha ancora visto la luce.
Non è chiaro se sia mancanza
di volontà politica o incapacità delle istituzioni statali di agire
concretamente per riconciliare e ricostruire su solide basi il Paese. Certo,
viene il dubbio che i giochi
di potere stiano prevalendo sull’interesse nazionale considerando,
ad esempio, che i leader dei tre principali gruppi armati centrafricani
ricoprono cariche importanti all’interno della compagine governativa, formata
lo scorso marzo.
Precisamente, Ali Darassa (capo dell’UPC – Unité pour la paix en Centrafrique), Mahamat Al Khatim
(alla guida dell’MPC – Mouvement patriotique pour la
Centrafrique ) e Sidiki Abass (comandante delle 3R – Return, Reclamation, Rehabilitation), sono stati designati
quali consiglieri militari nell’ufficio del Primo Ministro.
Tali nomine hanno suscitato rabbia e frustrazione tra
le vittime dei crimini perpetrati
dall’UPC, dall’MPC e dalle 3R. “Il Governo e la comunità
internazionale come hanno potuto permettere l’assegnazione di un simile
incarico a quest’individuo [Ali Darassa] ?”, si domanda una
trentenne sopravvissuta allo stupro da parte di un combattente dell’UPC in un’intervista a Human Right Watch. Incredula
continua: “come possono dare credito a qualcuno i cui uomini hanno ucciso,
violentato, torturato e distrutto interi villaggi? Ho perso la speranza di
cercare giustizia perché adesso Darassa sarà responsabile per la mia sicurezza”.
È vero che la scelta di un “governo
inclusivo” – sancita dall’accordo di Khartoum – è stata fatta
nell’ottica di promuovere la riunificazione del Paese. Ma è vero anche che ciò
non potrà avvenire fino a quando non ci saranno adeguate misure nel campo della
giustizia.
L’impunità, infatti, non può essere compresa nel paradigma di
risoluzione di un conflitto poiché non consente a vittime e carnefici di
coabitare nel lungo periodo una volta deposte le armi. Del resto, “il passato irrisolto“, sostiene Allan Ngari ricercatore dell’ISS (Institute for Security Studies), “è ciò che provoca il ripetersi della violenza“.
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