Per le
nostre vacanze estive, mia moglie ci ha fatto fare in macchina, a tutto gas, i
vari Parchi nazionali, spinta dalla smania di collezionare tutti i timbri sul
suo Passporto dei Parchi. Con entusiasmo, ci siamo accaparrati i nuovi gadget
della linea National Park Geek. Il cane è stato insignito del titolo di
#BarkRanger. E io, in qualità di fotografo di riserva, sono stato invitato a
immortalare incisioni rupestri risalenti a migliaia di anni fa e grotte, per
non parlare dei tronchi d’albero vecchi di 200 milioni di anni.
Siamo
tornati a casa. Mia moglie ha guardato e riguardato il passaporto e i timbri.
Calamite e adesivi sono finiti sul frigo e sulla macchina. Il cane ha sfoggiato
il suo distintivo di #BarkRanger raggiante e orgoglioso, a spasso per il
quartiere. E le mie foto? Non le abbiamo ancora guardate. E dubito che lo
faremo mai. Se davvero avremo mai necessità di rivedere quell’incisione
rupestre o quell’albero, faremo prima a cercarli su Google, dove troveremo
scatti migliori, di qualità professionale
Se mi
somigliate almeno un po’, ecco quante volte all’anno guardate Apple Foto,
Google Foto o altri archivi simili: praticamente nessuna. Chi ne ha il tempo?
Nonostante gli incoraggiamenti da parte di queste aziende ad archiviare da loro
i nostri scatti, se ne rimangono lì, una sequenza di zero e di uno – miliardi
di foto ‘teoriche’, che consumano enormi quantità di energia sui server cloud,
al costo di qualche euro al mese.
Oppure,
ancora peggio, condannate al braccio della morte di un singolo e vulnerabile
disco rigido, che inevitabilmente perirà.
Sì, può
succedere che un paio di volte diate un’occhiata all’archivio per qualche
minuto. Dal vostro account Facebook o Instagram, ripescate dall’oscurità uno
scatto, elevandolo ad una relativa notorietà grazie a qualche Like. Nell’archivio
dei social, almeno, le foto si guardano più spesso. Eppure potete ritenervi
fortunati se questa nobilitazione tocca a più di uno scatto su cento.
Le foto che
scattate normalmente spariranno nel dimenticatoio per l’eternità, e sarebbe ora
di farsene una ragione. Viviamo in un’epoca di abbondanza digitale, che ha
svalutato più di ogni altra cosa le fotografie. La generazione Snapchat-e-Story
le tratta come qualcosa di effimero ed evanescente, e la generazione X non è da
meno – ci illudiamo di preservare la storia in questi archivi digitali
polverosi e costosi. Ma cosa stiamo conservando esattamente, e per chi? I
nostri discendenti, assediati da ogni parte da nuovi mezzi di comunicazione, si
degneranno mai di dare un’occhiata? Se non lo facciamo noi, perché dovrebbero
farlo loro?
L'ascesa e
la caduta della fotografia
Abbiamo
assistito ad un declino nel valore delle fotografie negli ultimi 50 anni. Dalla
prima immagine mai scattata, nel 1882, al lancio della Kodak Brownie da un
dollaro, nel 1900, erano oggetti originali, unici, dal valore inestimabile. La
Brownie ci ha dato le istantanee, che erano ancora piccoli tesori: costose da
sviluppare, scattate piuttosto raramente, sistemate in album custoditi con
cura, che tuttavia, cadevano come foglie al vento nell’arco di qualche
decennio. Io, ad esempio, ho solo due preziose fotografie per ciascuno dei miei
nonni inglesi e italiani.
Il carattere
effimero delle fotografie ha iniziato a palesarsi in modo evidente nel 1963,
con la prima macchina fotografica Polaroid, in cui si caricava la pellicola
“packfilm” tipo 100 per scatti a colori. Si puntava l’obiettivo, si scattava e
si strappava la parte superiore per sviluppare la foto. Dieci anni dopo non
c’era neppure più bisogno di strappare la parte superiore. (Non c’era neanche
bisogno di scuotere la foto Polaroid. Anzi, scuotendola si rischiava di
danneggiare l’esposizione. Grazie mille, Outkast.)
L’avvento
della macchina fotografica digitale ha portato con sé una serie di limitazioni.
Per seguire la restituzione di Hong Kong alla Cina nel 1997, comprai un affare
di plastica ingombrante che somigliava a un paio di binocoli. Ci scattai dieci
foto che uscirono macchiate, prima di doverla ricaricare. Avrebbe davvero
rimpiazzato la pellicola? Ero scettico.
Non avevo
idea della portata del diluvio che stava per rovesciarsi su di noi, nessuna
avvisaglia del fatto che la decade seguente mi avrebbe arricchito enormemente
di contenuti fotografici, ma mi avrebbe impoverito nella capacità d’attenzione.
Se c'è la
foto non è successo davvero
Apple Foto,
l’erede di iPhoto, è organizzata in senso cronologico; rimpicciolendo, appare
un’immagine multicolore pixelata di tutte le foto che avete fatto (o caricato)
ogni anno. Guardando il mio archivio, salta agli occhi che la stragrande
maggioranza delle 25.332 foto e 950 video che custodisce, per oltre 100 GB di
dati, è stata scattata negli ultimi dieci anni.
Una sorta di
esplosione di vita del Cambriano che si è verificata negli ultimi anni del
2000, dopo il lancio dell’iPhone. In più, si vede un aumento dei duplicati
negli anni a cavallo del 2010 – segno inequivocabile del fatto che ho smesso di
curare con attenzione il mio giardino fotografico. Si è deteriorato,
trasformandosi in una foresta di cloni dimenticata. (iOs, almeno, sta per
diventare abbastanza intelligente da eliminare le foto doppie)
Ogni tanto,
in questa foresta appare un fiore luminoso, una fotografia ben curata, salvata
sul rullino da Instagram – il clone che ha visto la luce del sole.
Anche senza
doppioni, l’esplosione non sembra destinata a diminuire. In base a diverse
stime, il numero delle foto digitali che scattiamo ogni anno ha superato i
mille miliardi dal 2015, una cifra tre volte superiore a quella rilevata nel
2010. Secondo una stima di Info Trends, nel 2017 la cifra era pari a mille e
duecento miliardi – ovvero 160 foto per ogni persona vivente, all’anno – e
sembra aumentare di 100 miliardi l’anno.
È difficile
immaginare che storicamente anche solo un miliardo di queste avranno un qualche
significato. E tutto il resto? Sono a favore della conservazione di materiale
storico, ma siamo condannati ogni anno ad accumulare migliaia di miliardi di
foto mai guardate, come scatoloni in un magazzino che si espande sempre di più,
con la remota speranza che uno di questi contenga l’Arca dell’Alleanza?
Ci sono
moltissime foto identiche, con lo stesso soggetto, esposte all’esterno del
Petrified Forest National Park in Arizona. Davanti al Deserto Dipinto, scatti
in bianco e nero dell’800 sono in mostra a fianco di foto a colori dello stesso
luogo risalenti agli anni 1980. L’idea è di mostrare che il paesaggio non è affatto
cambiato perché è stato impedito che i turisti scappassero portandosi via gli
alberi pietrificati, ricchi di minerali.
Ma c’è anche
un altro messaggio, più sottile: facciamo tutti la stessa identica maledetta
foto, ragazzi, da quasi 140 anni. Che significato ha un’altra fotografia uguale
dello stesso posto? Forse dovremmo darci un taglio, godendoci invece
l’esperienza di trovarci qui in questo momento.
E lo abbiamo
colto io e i miei colleghi National Park Geek? No, non lo abbiamo fatto. Siamo
rimasti ad ammirare a bocca aperta il deserto dipinto per un attimo e poi, in
automatico, abbiamo alzato il telefonino. Facendo ben attenzione a non fare
entrare sconosciuti nello scatto – non sia mai che un particolare del genere
potesse renderlo davvero unico – e abbiamo scattato e scattato. E sui server a
migliaia di chilometri di distanza, nuovi alberi informatici sono andati ad
arricchire una immensa foresta pietrificata.
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