Nuvole di rosa sporco dietro le ruote del pick-up
mentre sfrecciavamo su una stradina di Palo Verde a El Salvador. Quando abbiamo
raggiunto il tratto lastricato l’autista ha rallentato perché la macchina
sballottava per via del manto stradale sconnesso. Io e Ruben (nome di fantasia)
viaggiavamo nel retro del pick-up, seduti su dei sacchi di fagioli secchi che
lui stava portando al mercato, tenendoci forte mentre parlavamo.
“Non va bene”,
diceva, “lavorare la terra non ripaga più. Prendo un prestito per comprare i semi e poi non posso contare sul fatto
di avere un ritorno per ripagarlo.”
È stata la prima volta in cui mi ha detto che stava
mettendo i soldi da parte per lasciare El Salvador. La sua storia è ambientata
nell’America Centrale, così come quella di molti migranti e aspiranti tali.
Quando ho parlato con Ruben era il 2017, quasi venti
anni dopo la mia prima visita alla sua comunità, una cooperativa fondata negli
anni Novanta e situata su un altopiano al centro del Paese. In quei venti anni,
le speranze e i sogni della cooperativa di mantenersi in maniera sostenibile
producendo caffè per il mercato globale erano stati spazzati via.
L’innalzamento delle
temperature, il diffondersi di funghi tra le colture e le condizioni
meteorologiche estreme hanno reso i raccolti inaffidabili. Senza contare che i prezzi di mercato sono
imprevedibili.
Quel giorno sul retro del pick-up abbiamo parlato
anche di gang. Nella città vicina si registrava un aumento di attività
criminali e molti giovani venivano reclutati con la forza. Ma per la comunità
quello era un problema relativamente nuovo che si andava ad aggiungere
all’ormai persistente crisi
ecologica.
Essendo un’antropologa culturale che studia i fattori
di migrazione in El Salvador, mi rendo conto che la situazione di Ruben
riflette un problema molto più grande a livello globale, ossia il fatto
che la gente lascia la propria abitazione a
causa, diretta o indiretta, del cambiamento climatico e della degradazione
dell’ecosistema. E siccome, visto il trend attuale, si prevede che
le condizioni ambientali peggioreranno, si sollevano questioni legali irrisolte
sulla posizione e sulla sicurezza di gente come Ruben e la sua famiglia.
La terra e il sostentamento
Negli ultimi tempi si sta prestando molta attenzione alle
migrazioni dal Centro America, incluse le famose carovane.
Principalmente, però, viene sottolineato il fatto che i migranti – specialmente
quelli provenienti da El
Salvador, Guatemala, Nicaragua e Honduras – sono spinti dalla violenza delle gang,
dalla corruzione e
dal tumulto politico.
Questi fattori sono importanti e
richiedono un intervento della comunità internazionale,
ma anche le migrazioni dovute al
cambiamento climatico sono altrettanto serie.
Il collegamento tra
l’instabilità ambientale e l’emigrazione da questa regione è diventato evidente
tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Terremoti e uragani, in
particolare l’uragano Mitch del
1998 e le sue conseguenze hanno devastato parte dell’Honduras, del Nicaragua e
di El Salvador.
L’amministrazione Bush aveva all’epoca concesso
lo Status di Protezione
Temporanea ai molti salvadoregni e honduregni che vivevano
negli Stati Uniti. In quel modo, il
Governo riconosceva l’inumanità del respingimento di persone verso luoghi
afflitti da un disastro ecologico.
In tutto il mondo, negli anni seguenti, crisi
ambientali improvvise e situazioni che si trascinavano da tempo hanno
continuato a costringere molte persone a lasciare la propria casa.
Gli studi dimostrano che le migrazioni sono spesso un effetto indiretto
dell’impatto del cambiamento climatico sull’agricoltura di
sostentamento, con aree più colpite di altre. In alcuni territori la
situazione è drammatica: l’Honduras
e il Nicaragua sono tra i dieci Paesi più colpiti
da eventi climatici estremi nel periodo tra il 1998 e il
2017.
Dal 2014 una grave siccità
decima le colture nel cosiddetto “corridoio
secco” sulla costa pacifica. Colpendo i piccoli agricoltori di El Salvador, Guatemala e Honduras,
la siccità ha causato un alto tasso di
emigrazione dalla regione.
La coltivazione
del caffè, un elemento critico per l’economia di questi Paesi, è
estremamente vulnerabile e sensibile alle variazioni climatiche. La recente
epidemia di “ruggine del
caffè” è stata probabilmente aggravata dal cambiamento
climatico.
Le conseguenze dell’epidemia,
unite al recente collasso del prezzo
globale del caffè, hanno contribuito a portare i coltivatori
disperati ad arrendersi.
Fattori aggravanti
Questa tendenza ha portato gli esperti della Banca
Mondiale a stimare che entro
il 2050 circa due milioni di persone emigreranno del Centro America per cause
correlate al cambiamento climatico. Ovviamente è difficile isolarlo come
“fattore di spinta” da tutti gli altri motivi di emigrazione. E
purtroppo questi motivi tendono a intrecciarsi e aggravarsi a vicenda.
I ricercatori lavorano con impegno per stabilire
l’entità del problema e trovare modi in cui l’uomo può adattarsi. Ma
è una sfida ardua. Se lo sviluppo di quell’area non si sposta verso modelli di
agricoltura più rispettosi dell’ambiente
e inclusivi, il numero di migranti potrebbe aumentare e arrivare
fino a quattro milioni.
Chi emigra da questa regione probabilmente non si
rende conto appieno del ruolo che gioca il cambiamento climatico nel proprio
spostamento o, viste tutte le altre ragioni che lo spingono ad andarsene, lo
considera semplicemente l’ultima goccia. Quello che sa è che il raccolto
tradisce troppo spesso e procurarsi acqua pulita è più difficile che mai.
In cerca di uno status di protezione
Di recente Ruben mi ha contattato per chiedermi il
nome di un buon avvocato per l’immigrazione. Lui e la figlia sono negli Stati
Uniti e tra poco ci sarà l’udienza per decidere la loro posizione.
Proprio come aveva previsto qualche anno fa, Ruben non
riusciva a campare a El Salvador ma potrebbe trovare difficile anche la vita
anche negli Stati Uniti, viste le
incongruenze tra le leggi sull’immigrazione e i fattori attuali di migrazione.
Studiosi e legali si chiedono da anni come si può rispondere a
chi emigra per le condizioni ambientali. I modelli esistenti di
risposta umanitaria e ricollocamento funzionano per questa nuova
popolazione? Questa gente
potrebbe essere considerata bisognosa di protezione
sotto leggi internazionali come i rifugiati politici?
Una delle questioni politiche più controverse è chi
dovrebbe farsi avanti e affrontare il cambiamento climatico, considerato che i
Paesi più ricchi sono quelli che inquinano di più ma spesso sono anche protetti
dagli effetti peggiori. Come si fa a stabilire le
responsabilità e soprattutto, cosa bisogna fare?
In mancanza di un’azione coordinata da parte della
comunità globale che attenui l’instabilità ecologica e riconosca la situazione
critica dei migranti, c’è il rischio che si crei quello che alcuni hanno
definito “apartheid
climatico“.
In questo scenario – il cambiamento climatico unito ai
confini chiusi e alle poche opzioni per gli immigrati – milioni di persone sarebbero costrette a
scegliere tra un sostentamento sempre più incerto e i rischi dell’immigrazione
irregolare.
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