Ai tempi
della scuola i miei compagni cenavano tutti tardi. Cenare tardi era indice di
modernità. Più si cenava tardi, più si era evoluti, alla moda, giusti,
impeccabili, audaci. Più si cenava presto, più si era primitivi, bifolchi,
demodé, sbagliati, coglioni. Cenavano tardi le famiglie piccolo borghesi,
avvezze dalla nascita a modi estroversi e spigliati. Cenavano presto i
complessati, i goffi, gli incarogniti nel male sociale del disprezzo di sé. Io
che discendo da una famiglia di origine contadina avevo l’abitudine di cenare
alle sette meno un quarto, quando in Tv davano Zig Zag con
Raimondo Vianello, o I Jefferson, o Italia Sera con
Piero Badaloni, e pertanto rientravo nel novero dei coglioni.
Poi sono
cresciuto, e nel frattempo quel che allora era considerato moderno è diventato
antico. Ma ciò che è rimasto inalterato nel connotare una certa idea borghese
di modernità è proprio la gestione del tempo individuale. Si è moderni se si
possiede una comprovata disinvoltura nel rispetto degli orari. Badate alla
parola disinvoltura, è la chiave per capire tutto. Il mondo così
come lo conosciamo è il dominio dei disinvolti, ossia di chi è ardito,
sfacciato, privo di riserbo e di rispetto, di chi pone il sé davanti all’altro
da sé, di chi si sente ben centrato nel globo terrestre e illuminato dal sacro
getto della luce di Dio.
Ma la
questione del tempo di cui voglio parlare non riguarda solo l’orario in cui si
è soliti sedere a tavola. Riguarda cosa succede quando dobbiamo andare a un
appuntamento. Ci sono infatti tre modi per presentarsi a un appuntamento:
arrivare presto, arrivare puntuali, arrivare tardi. Poi c’è un quarto modo,
praticato da pochissimi amatori – che qui denominerò iperanticipanti –
e che richiede un vero e proprio esercizio di filosofia: arrivare in largo anticipo.
I disinvolti non solo non ammettono il quarto modo, ma sono incapaci anche solo
di immaginarlo, come le marmotte non possono immaginare a cosa serve una
caffettiera.
Nella
concretezza della mia vita da iperanticipante arrivare in largo anticipo
significa che, se devo prendere un treno alle nove del mattino, farò in modo di
trovarmi in stazione alle sette e quarantacinque. Perché proprio un’ora e un
quarto di anticipo, e non un’ora tonda? Un’ora e un quarto di anticipo non è un
tempo casuale o approssimativo. È il frutto di un ragionamento profondo. Perché
l’ora d’anticipo è il minimo che la mia coscienza rivendica affinché io possa
galleggiare nel tempo dell’attesa senza lasciarmi trasportare dalle sue
fluttuose rapide. Il quarto d’ora che precede l’ora di anticipo è il margine
che concedo all’imprevisto, è un tempo-cuscinetto in cui un ritardo minimo del
taxi, per esempio, non mi manda in crisi, è un limbo di pace assoluta in cui i
muscoli della mia psiche si sciolgono come saponette in un bagno caldo, è l’anti-anticamera,
il sacco amniotico, il mondo prima del mondo. Ed è cosa ben diversa dall’ora di
anticipo vera e propria. L’ora di anticipo vera e propria è la terra promessa,
il luogo in cui io potrò dimorare in pace sorbendo un caffè, gironzolando tra
gli scaffali di una libreria, telefonando, o semplicemente sedendomi da qualche
parte in attesa del treno per osservare gli altri viaggiatori.
E se ho un
appuntamento di un altro genere? Be’, la mia indole non subirà grandi
variazioni. In questo caso tenderò a mascherare l’anticipo (retaggio d’infanzia
che mi impone di non mostrare il mio naturale carattere antimoderno, involuto,
bifolco e coglione). Non raggiungerò quindi il luogo dell’appuntamento con
un’ora e un quarto d’anticipo, bensì raggiungerò un luogo poco distante dal
luogo dell’appuntamento con un’ora e un quarto d’anticipo, salvo poi dirigermi
verso il luogo vero e proprio dell’appuntamento con un anticipo di soli cinque
minuti, fingendomi immondamente trafelato.
L’iperanticipante
in effetti possiede qualcosa che nel mondo moderno è considerato disonorevole:
ha pudore. Egli prova un profondo senso di riserbo per questa sua attitudine,
sa che per gli altri è un tratto incomprensibile della propria natura. Peggio,
sa che per gli altri, abituati a considerare il tempo come un valore
monetabile, la sua condotta è uno sperpero sciagurato.
L’inclinazione
morale ad arrivare in largo anticipo l’ho ereditata da mia madre. Quand’ero
ragazzino, mia madre era il tipo che se avevamo un appuntamento dal dentista
alle quattro del pomeriggio, diceva che era meglio presentarsi alle tre. La
scusa era semplice: se il paziente prima di noi avesse saltato l’appuntamento,
noi saremmo subentrati al suo posto. Tuttavia non ho memoria di un paziente prima
di noi che abbia saltato l’appuntamento. Piuttosto il dentista non rispettava
mai l’orario. Così, anziché sedersi sulla poltrona del dentista alle quattro,
ci si sedeva alle quattro e mezzo. E anziché guadagnare mezz’ora, si finiva per
perderne una e mezza.
Ma questa,
appunto, era una scusa. E l’ho capito crescendo. A mia madre non interessava
sbrigarsela in anticipo. A mia madre premeva soprattutto non entrare in
conflitto col tempo. Senza rendersene conto, riteneva che tra tutte le divinità
orfiche Chrónos fosse la più temibile. Chrónos è il tempo astratto che scorre,
la durata, la quantità. Kairós invece è il momento propizio, l’istante in cui
le cose sono possibili. Mia madre temeva Chrónos e venerava Kairós. In pratica
non aveva la propensione a subìre il tempo, ma ad abitarlo.
Si comportava come le più antiche comunità cristiane per le quali il compimento
dell’esistenza consisteva nel risiedere nelle vicinanze della fine dei tempi
(«Il tempo è vicino» è scritto nell’Apocalisse di Giovanni – Ap 22, 10).
Abitare il
tempo è cosa profondamente diversa dal subirlo, come fa la maggior parte delle
persone, inclusi i disinvolti. Abitare il tempo in attesa dell’“istante in cui
le cose sono possibili” è la leva saggia e profonda che muove quelli della
nostra razza.
Ho detto che
mia madre ed io dal dentista “finivamo per perdere un’ora e mezza”. In questo
caso però perdere è il verbo sbagliato. Per noi (includo
nel noi tutti i giudiziosi, oculati seguaci della filosofia
dell’arrivare in largo anticipo) aspettare non è dilapidare qualcosa di
inestimabile. Il tempo non è l’oggetto pregiato. E non è neppure il vento
furente che ci colpisce strappandoci di dosso le cose preziose. Il tempo è il
luogo.
Nell’undicesimo
libro delle Confessioni Agostino d’Ippona tratta del problema
filosofico del tempo, ammettendo lui stesso la difficoltà nel declinarlo. Cos’è
il tempo? “Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne
chiede, non lo so”. Per i relazionisti si può afferrare il tempo, e quindi
definirlo, solo in presenza degli eventi. Se non accade nulla, il tempo non
esiste. E qual è in fondo l’utopia primordiale dell’uomo se non fermare il
tempo? Forse negarlo? Per gli iperanticipanti come me, non è né l’una né
l’altra cosa. Il tempo è una nebbia raggelata che comprime l’aria, una nube
aliena che compare al mattino in un parco, ci seduce e ci invita a scomparire
dentro di essa permettendoci di diventare estranei al mondo. Noi
iperanticipanti non desideriamo né fermare né negare il tempo; desideriamo
sottrarre noi stessi agli eventi, e quindi alla storia.
Ho un’amica
iperanticipante con cui a volte conversiamo di questo argomento, lei è capace
di frasi come: “Ci ho provato, sono andata a Termini con la
metropolitana. Sono arrivata con cinquanta minuti di anticipo, sono salita sul
treno per un pelo”. Oppure facciamo scambi del tipo: “Sto davanti
al tabellone delle partenze, il treno parte fra quaranticinque minuti”.
“Quarantacinque… sei un po’ a filo, eh”. Un giorno mi ha raccontato di aver
prenotato un taxi alle cinque e cinquanta del mattino. Per arrivare alla
stazione avrebbe impiegato dieci minuti. Da ciò risulterà evidente che aveva il
treno in partenza alle sette e un quarto. Mi ha scritto: “Metterò la
sveglia vergognosamente prima, nel dubbio di dover chiamare un altro taxi”.
Ho rilanciato: “Fossi in te penserei a prenotarne due: uno alle cinque
e cinquanta e un altro alle sei e cinque” (il quarto d’ora che precede
l’ora di anticipo, il limbo, il sacco amniotico), “poi quando arriva il
primo, annulli il secondo”. E lei: “Non ci crederai, ma lo faccio
sempre. Una volta ho trovato due taxi fuori casa ad aspettarmi”.
Qualcuno di
recente mi ha detto che tutto questo non è altro che un disturbo
denominato ansia anticipatoria. Ho letto che l’ansia anticipatoria
si presenta con una domanda: Che succede se? In pratica è
un’ansia autoindotta dalla raffigurazione mentale di possibili scenari funesti
(un imprevisto, un ritardo, la perdita del treno). Secondo alcuni è
semplicemente paura del futuro. Il punto è che un iperanticipante, come abbiamo
visto, tende a sottrarsi al tempo, o al limite a immergervisi. E quindi se il
futuro è un aspetto del tempo, egli si sottrae al futuro, come allo stesso modo
si sottrae al passato (la soglia di casa che lascia per andare in stazione con
il dovuto anticipo), immergendosi in un presente eterno e immobile.
Per
paradosso quindi l’iperanticipante non soffre di ansia anticipatoria. Messo
alle strette, affermerà senza alcun dubbio che, quando sarà il momento di
morire, vorrà presentarsi all’appuntamento fatale con – indovinate? – un’ora e
un quarto d’anticipo, e in quell’ora e un quarto dimorare per sempre. Nulla,
meglio di questo, renderà l’esattezza della morte una questione che non gli
appartiene. Un affare per disinvolti.
Nessun commento:
Posta un commento