mercoledì 18 settembre 2019

La peste verde dell’India - Vandana Shiva


Ghats occidentali ci hanno dato le spezie. E l’Himalaya ci ha dato amaranto, grano saraceno e una grande varietà di altre colture nutrienti. Oggi l’India sta affrontando un’emergenza idrica e una nutrizionale. Le due emergenze sono interconnesse. Le origini di quella che viviamo oggi risalgono a 40-50 anni fa con i «consigli» della Banca Mondiale e con la cosiddetta «rivoluzione verde», che ha distrutto le nostre risorse d’acqua, il nostro suolo, la nostra biodiversità.
La canna da zucchero – chiamata IkSuka in sanscrito – si è evoluta in India, nella pianura del Gange, dove c’è acqua abbondante. La Banca Mondiale ha imposto la coltivazione della canna da zucchero nella regione semi arida del Deccan del Maharashtra al posto del miglio Jowar. La regione del Deccan ha una piovosità media di 600 mm. A causa della conformazione dei Trappi dell’altopiano del Deccan, solo il 10% delle precipitazioni va a ricaricare le acque sotterranee ogni anno. Siccome la canna da zucchero richiede 2.500 mm d’acqua, si è dovuto ricorrere ad estrarre l’acqua in profondità.
La causa diretta dei pozzi secchi che vediamo oggi in Tv, risale ai «consigli» sconsiderati della Banca Mondiale di coltivare la canna da zucchero in un’area con scarsità d’acqua. Per far fronte all’emergenza idrica nel Maharashtra dobbiamo riportare la coltivazione del miglio Jowar, che utilizza solo 250 mm d’acqua e restituisce al suolo grandi quantità di materia organica, aumentando l’umidità del suolo.
Le varietà di riso e grando tipiche della rivoluzione verde sono state imposte nel Punjab. Le monocolture chimiche ne hanno distrutto le terre fertili e sono anche all’origine dell’abbandono e dell’incuria di altre terre ricche di biodiversità del riso come Orissa e Chattisgarh.
Le varietà nane di riso e grano selezionate dalla rivoluzione verde contribuiscono all’emergenza idrica perché richiedono dieci volte più acqua per produrre la stessa quantità di cibo, rispetto alle varietà tradizionali. Inoltre, sono selezionate al fine di assorbire più prodotti chimici, ed evitare il problema dell’allettamento. Poiché le varietà nane sono coltivate in forma di monocolture, esse violano la «Legge della Restituzione», su cui si basa la sostenibilità. Non restituendo materia organica al suolo, diminuiscono la capacità del suolo di trattenere l’acqua, dove solo l’1% di materia organica nel suolo potrebbe contenere fino a 160.000 litri per ettaro.

Infine, i fertilizzanti chimici utilizzati nell’agricoltura chimica uccidono gli organismi del suolo, il suolo vivo, che inizia a desertificarsi e a necessitare di irrigazioni più frequenti. I sistemi agroalimentari che ci privano dei nostri alimenti nutrienti, ci privano così anche dell’acqua. Interrompendo il ciclo dei nutrienti, questi sistemi contribuiscono alla malnutrizione, al cambiamento climatico e alla desertificazione. Il ciclo dei nutrienti che reintegra la materia organica del suolo è alla base del mantenimento del ciclo dell’acqua.
Entrambi i cicli vengono interrotti dagli stessi processi ecologici. La soluzione alla crisi idrica può iniziare solo con la coltivazione di varietà autoctone, che non necessitano di molta acqua e che producono più biomassa grazie alle paglie più alte, che vengono restituite al suolo, secondo la Legge della Restituzione. I sistemi agricoli indigeni basati sulle sementi indigene sono sistemi di conservazione dell’acqua perché mantengono e rinnovano sia il ciclo dei nutrienti, sia il ciclo dell’acqua.
La monocultura del riso in Punjab, che richiede irrigazioni intensive, ha infranto questi due cicli ecologici vitali della natura. Si dovrebbero preferire invece colture in ecosistemi nei quali siano ecologicamente adattate. Invece di riconoscere queste realtà e promuovere la biodiversità delle sementi indigene, scegliendo di abbandonare l’agricoltura chimica e passare al biologico, ci troviamo di fronte ad un tentativo di criminalizzare il riso stesso: un attacco contro la nostra biodiversità e la nostra cultura.
La rivoluzione verde non è stata né verde, né rivoluzionaria, bensì un piano per colonizzare i sistemi agricoli e alimentari dell’India, che ha provocato una grave crisi idrica. Per fronteggiare questa emergenza ecologica e sociale, abbiamo bisogno di una vera e propria rivoluzione alimentare e idrica basata sui semi indigeni, su colture che necessitano di poca acqua, come le varietà tradizionali di grano, riso, legumi, tilhan e miglio – quelli che definisco a volte «i cibi dimenticati». Un’agricoltura basata sulla rigenerazione della fertilità e dell’umidità del suolo attraverso l’agricoltura biologica può affrontare sia l’emergenza nutrizionale sia l’emergenza idrica, e contrastare al contempo il cambiamento climatico. Questo è il nostro Jarvik Kranti. La nostra rivoluzione per la vita.

(Vandana Shiva è fisico, ecofemminista, filosofa, autrice di molti libri. È fondatrice della Fondazione di Ricerca per la Scienza, la Tecnologia e l’Ecologia e ha promosso campagne per la biodiversità, la tutela e i diritti dei contadini. Nel 1993 ha ricevuto il Right Livelihood Award ossia il Premio Nobel alternativo . Fondatrice e presidente di Navdanya International)

Articolo pubblicato anche su ilmanifesto


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