Parlando di
terra e identità, data la recente ricorrenza della Nakba, voglio prendere in
considerazione un’erba modesta,
un’erba spontanea, un’erba che però, ricordando le parole che mi disse Umm
Ibrahim a Gaza, richiama quei tragici giorni del ’48.
Quei giorni
in cui circa l’80% della popolazione palestinese venne cacciata, o terrorizzata
e indotta a fuggire, a seguito dell’occupazione o della distruzione delle
proprie case e dei propri villaggi ad opera degli occupanti che il 14 maggio di
quell’anno proclamarono la nascita dello stato di Israele.
Ma perché la portulaca, di cui parliamo
oggi, ha a che fare con Umm Ibrahim? Perché questa vecchia donna palestinese mi
raccontò di aver camminato con la sua famiglia per tre giorni e tre notti,
fuggendo dalle violenze che aveva visto compiere nel suo villaggio, vicino ad
Haifa, fino a raggiungere la Striscia di Gaza dove poi sarebbe
rimasta, in uno degli otto campi profughi, senza più riuscire a far ritorno in
quella che un giorno era la sua terra.
Per tre
giorni e tre notti Umm Ibrahim ricorda
di aver nutrito sé e i suoi figli con le erbe che trovava tra i cespugli in cui
si nascondevano per passare la notte e proprio la “baqla” era l’erba che dava
più nutrimento.
Umm Ibrahim
non sapeva che la portulaca è ricca di proteine, di sali minerali – tra cui in
particolare potassio, ferro e magnesio – di vitamine A e C e di vitamine del
gruppo B. Inoltre ha un’importante riserva d’acqua nelle sue foglie e non
sapeva, quindi, che questa povera pianta, oggi in
Europa considerata infestante, aveva tutto il necessario per garantire la
sopravvivenza per alcuni giorni senza cibo né acqua. Lei però ne
conosceva l’uso alimentare perché la portulaca, originaria del Medio Oriente,
nella sua terra era usata da sempre, infatti furono gli arabi, nel medioevo, a
diffonderla in Europa. Inoltre la
baqla aveva un passato importante come erba curativa, oltre che alimentare, già
nell’antica medicina egizia. Infatti, oltre ad
essere utile per la circolazione a causa del contenuto di omega-3 scoperto
recentemente e capace di contrastare colesterolo e trigliceridi, è anche
utilizzabile contro dissenterie ed emorragie post-partum. E’ anti-diabetica,
depurativa e diuretica.
Mi sono chiesta come mai viene chiamata anche
farfahina, che in arabo significa “che dà gioia” e non ho avuto risposta perché, si sa, a
volte i nomi prendono una strada autonoma da coloro che li hanno pronunciati
per primi e così, a volte, camminano su un proprio binario e se ne perde
l’origine. La risposta che cercavo non è venuta, né interrogando uomini
o donne di età diverse, né chiedendo, con l’aiuto di un amico interprete, alle
signore che accovacciate lungo i suq la vendono a mazzetti insieme a salvia e
menta, altre erbe immancabili nella tradizione palestinese, ma di cui parlerò
in un altro momento.
Alla mia domanda la risposta era un’espressione del
viso ed una posizione delle mani che nel linguaggio gestuale che varca i
confini delle lingue significa “boh! se ne è persa la memoria”. Allora
la risposta ho deciso di darmela da sola mettendo insieme
il racconto di Umm Ibrahim, le proprietà officinali di quest’erba e il fatto
che nel medioevo veniva considerata “apotropaica”, cioè capace di tenere
lontani gli spiriti maligni.
Ecco perché
“dà gioia”. Allontana le energie negative e
fornisce nutrienti e sali minerali tra cui il
magnesio, elemento naturale antidepressivo per eccellenza! In Palestina viene regolarmente raccolta
e venduta, mentre dalle nostre parti, oggi è generalmente considerata
infestante e quindi estirpata. Il giorno in cui da bene comune,
generosamente a disposizione di tutti, diventasse bene economico con un suo
prezzo di vendita, anche da noi verrebbe rivalutata, ma questa è un’altra
storia.
Ma come la
usano i palestinesi la farfahina? In tutti i modi. Cruda, nell’insalata, ma
anche cotta. Cotta perde un po’ delle sue proprietà, per esempio la vitamina C,
ma ne acquista una che pur se non si vede è indiscutibilmente una proprietà
importante: il sapore di un cibo cotto in casa e servito a tutta la famiglia,
un sapore che come tutti i sapori specifici di un luogo amato, torna nel
ricordo anche quando si è lontani da quel luogo. E’ così che anche un’erbetta qualunque riesce
ad evocare quell’identità tutta interna alla sacralità della terra, tanto che
Darwish, in un suo scritto, la cita come metafora del diffondersi sparpagliato
ed esteso di un’idea, appunto, come un cespuglio di baqla hamqa
palestinese.
Siccome la portulaca oleracea cresce anche dove
nessuno la vorrebbe vedere, i consigli per sterminarla sono molteplici, vanno
dal terribile uso dei diserbanti, paragonabili, per fare un esempio, al
tentativo di sterminio di una popolazione con bombardamenti e fosforo bianco,
fino a sistemi più ecologici, quali la sterilizzazione del terreno eliminando le migliaia di semi che questa pianta
produce durante la sua vita fertile che più o meno va da giugno a novembre. Ma
va detto che i semini della baqla
restano dormienti ma vitali anche per molti anni e se ne sfugge qualcuno lei,
con le sue foglioline polpute e i suoi minuscoli fiorellini gialli, torna!
E oggi, a 69
anni da quella cacciata ricordata all’inizio, un omaggio ad Umm Ibrahim e a
tutti i profughi che ancora aspettano giustizia, mi sembrava carino farlo con l’erba “che dà gioia” e che si espande liberamente. Nonostante tutto.
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