martedì 30 maggio 2017

Quando l’infestante è un inno alla gioia - Patrizia Cecconi


Parlando di terra e identità, data la recente ricorrenza della Nakba, voglio prendere in considerazione un’erba modesta, un’erba spontanea, un’erba che però, ricordando le parole che mi disse Umm Ibrahim a Gaza, richiama quei tragici giorni del ’48.
Quei giorni in cui circa l’80% della popolazione palestinese venne cacciata, o terrorizzata e indotta a fuggire, a seguito dell’occupazione o della distruzione delle proprie case e dei propri villaggi ad opera degli occupanti che il 14 maggio di quell’anno proclamarono la nascita dello stato di Israele.
Ma perché la portulaca, di cui parliamo oggi, ha a che fare con Umm Ibrahim? Perché questa vecchia donna palestinese mi raccontò di aver camminato con la sua famiglia per tre giorni e tre notti, fuggendo dalle violenze che aveva visto compiere nel suo villaggio, vicino ad Haifa, fino a raggiungere la Striscia di Gaza dove poi sarebbe rimasta, in uno degli otto campi profughi, senza più riuscire a far ritorno in quella che un giorno era la sua terra.
Per tre giorni e tre notti Umm Ibrahim ricorda di aver nutrito sé e i suoi figli con le erbe che trovava tra i cespugli in cui si nascondevano per passare la notte e proprio la “baqla” era l’erba che dava più nutrimento.
Umm Ibrahim non sapeva che la portulaca è ricca di proteine, di sali minerali – tra cui in particolare potassio, ferro e magnesio – di vitamine A e C e di vitamine del gruppo B. Inoltre ha un’importante riserva d’acqua nelle sue foglie e non sapeva, quindi, che questa povera pianta, oggi in Europa considerata infestante, aveva tutto il necessario per garantire la sopravvivenza per alcuni giorni senza cibo né acqua. Lei però ne conosceva l’uso alimentare perché la portulaca, originaria del Medio Oriente, nella sua terra era usata da sempre, infatti furono gli arabi, nel medioevo, a diffonderla in Europa. Inoltre la baqla aveva un passato importante come erba curativa, oltre che alimentare, già nell’antica medicina egizia. Infatti, oltre ad essere utile per la circolazione a causa del contenuto di omega-3 scoperto recentemente e capace di contrastare colesterolo e trigliceridi, è anche utilizzabile contro dissenterie ed emorragie post-partum. E’ anti-diabetica, depurativa e diuretica.
Mi sono chiesta come mai viene chiamata anche farfahina, che in arabo significa “che dà gioia” e non ho avuto risposta perché, si sa, a volte i nomi prendono una strada autonoma da coloro che li hanno pronunciati per primi e così, a volte, camminano su un proprio binario e se ne perde l’origine. La risposta che cercavo non è venuta, né interrogando uomini o donne di età diverse, né chiedendo, con l’aiuto di un amico interprete, alle signore che accovacciate lungo i suq la vendono a mazzetti insieme a salvia e menta, altre erbe immancabili nella tradizione palestinese, ma di cui parlerò in un altro momento.
Alla mia domanda la risposta era un’espressione del viso ed una posizione delle mani che nel linguaggio gestuale che varca i confini delle lingue significa “boh! se ne è persa la memoria”Allora la risposta ho deciso di darmela da sola mettendo insieme il racconto di Umm Ibrahim, le proprietà officinali di quest’erba e il fatto che nel medioevo veniva considerata “apotropaica”, cioè capace di tenere lontani gli spiriti maligni.
Ecco perché “dà gioia”. Allontana le energie negative e fornisce nutrienti e sali minerali tra cui il magnesio, elemento naturale antidepressivo per eccellenza! In Palestina viene regolarmente raccolta e venduta, mentre dalle nostre parti, oggi è generalmente considerata infestante e quindi estirpata. Il giorno in cui da bene comune, generosamente a disposizione di tutti, diventasse bene economico con un suo prezzo di vendita, anche da noi verrebbe rivalutata, ma questa è un’altra storia.
Ma come la usano i palestinesi la farfahina? In tutti i modi. Cruda, nell’insalata, ma anche cotta. Cotta perde un po’ delle sue proprietà, per esempio la vitamina C, ma ne acquista una che pur se non si vede è indiscutibilmente una proprietà importante: il sapore di un cibo cotto in casa e servito a tutta la famiglia, un sapore che come tutti i sapori specifici di un luogo amato, torna nel ricordo anche quando si è lontani da quel luogo. E’ così che anche un’erbetta qualunque riesce ad evocare quell’identità tutta interna alla sacralità della terra, tanto che Darwish, in un suo scritto, la cita come metafora del diffondersi sparpagliato ed esteso di un’idea, appunto, come un cespuglio di baqla hamqa palestinese.
Siccome la portulaca oleracea cresce anche dove nessuno la vorrebbe vedere, i consigli per sterminarla sono molteplici, vanno dal terribile uso dei diserbanti, paragonabili, per fare un esempio, al tentativo di sterminio di una popolazione con bombardamenti e fosforo bianco, fino a sistemi più ecologici, quali la sterilizzazione del terreno eliminando le migliaia di semi che questa pianta produce durante la sua vita fertile che più o meno va da giugno a novembre. Ma va detto che i semini della baqla restano dormienti ma vitali anche per molti anni e se ne sfugge qualcuno lei, con le sue foglioline polpute e i suoi minuscoli fiorellini gialli, torna!
E oggi, a 69 anni da quella cacciata ricordata all’inizio, un omaggio ad Umm Ibrahim e a tutti i profughi che ancora aspettano giustizia, mi sembrava carino farlo con l’erba “che dà gioia” e che si espande liberamente. Nonostante tutto.

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