Di fronte ai rastrellamenti
di migranti “ordinati” a Milano da Marco Minniti, per non
rovinare il decoro delle città, o di fronte alle politiche razziste promesse e
proposte da sciacalli quali Marine Lepen o Matteo Salvini, l’affaire Muntari
può sembrare cosa di poco conto, l’ennesima idiozia prodotta dal mondo del
calcio. Purtroppo, invece, non è così. L’affaire Muntari, infatti, ci parla innanzitutto di una società che tende sempre più a banalizzare e
sminuire gli atti di discriminazione razziale, derubricati alle voci
“sciocchezze”, “ragazzate”, “gesti isolati”, “suvvia non è nulla di grave”,
oppure “non sono buu razzisti ma di antipatia” (chi infatti non fa i versi
della scimmia a chi gli è antipatico).
Probabilmente,
e questo è l’aspetto più grave dell’intera vicenda, deve aver pensato che non
fosse nulla di così grave e rilevante anche il signor Daniele Minelli,
l’arbitro della gara Cagliari-Pescara, il quale, di fronte a Muntari che gli
segnalava ripetutamente gli ululati e i buu che il pubblico gli gridava, non
solo non ha avuto il coraggio di interrompere la gara, come prevede il
regolamento, ma infastidito dall’atteggiamento
ribelle del giocatore addirittura decideva di ammonirlo. La successiva uscita volontaria dal campo di
Muntari, che per questo veniva espulso, deve essere insegnata agli studenti come gesto di educazione civica, che
vale più di mille test invalsi.
Nessuno
vuole paragonare l’ex giocatore del Milan a Rosa Parks o a Tommy Smith detto jet, ma perché di
fronte ad un atto di coraggio civile di un calciatore, l’arbitro non ha deciso
di dare un segnale chiaro ad un mondo sempre più attraversato da razzismo e
maschilismo? Non è necessario avere il coraggio di Nelson Mandela o di Peppino
Impastato per sospendere una partita di calcio.
Purtroppo,
di fronte a tali violenze considerate minori, prevale un atteggiamento pilatesco,
figlio dell’idea che indossare i panni di Don Abbondio permetta di vivere in
quiete. E così, sempre più, chi ha ruoli pubblici o educativi decide di non
schierarsi, di minimizzare, dimenticandosi però che nel triangolo
vittima-carnefice-spettatore, chi osserva silenziosamente senza intervenire si
schiera inequivocabilmente dalla parte dell’oppressione e della violenza.
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