domenica 26 febbraio 2017

Si parla di animali: umani e non (qualche pensiero di Rita)


I miserabili
Ogni tanto penso a quanto debba essere triste e povera la vita di chi non si sa relazionare con gli altri animali. Di chi non riesce nemmeno a vederli, gli altri animali, se non attraverso le lenti offuscanti del pregiudizio e dello specismo.
La maggior parte delle persone che incontra un gatto, o un cane, dice: "toh, un gatto", oppure "toh, un cane". Pensa cioè di aver incontrato un rappresentante di quella specie e che uno valga l'altro poiché tutti hanno gli stessi identici comportamenti di specie e se poi qualcuno fa qualcosa di particolare allora si è subito pronti a bollarla con l'etichetta di "istinto".
Invece, al di là delle caratteristiche di specie condivise - che abbiamo anche noi, in quanto animali, giacché, al di là delle differenze, tutti noi homo sapiens in certi contesti ci comportiamo più o meno alla stessa maniera e di certo non possiamo fare cose che non sono contemplate nella nostra etologia - ogni animale è un individuo singolo dotato di un proprio carattere e dall'incontro con ciascuno ne deriva una particolare e unica relazione. 
Abitare il mondo convinti che gli altri esseri viventi siano solo parte indistinta della natura a fare da sfondo alle nostre gesta - le uniche che valgano! - è davvero miope. E tutto ciò mi mette una tristezza infinita, mi fa sentire scoraggiata e amareggiata.
Ci vantiamo di essere una specie superiore perché abbiamo sete di conoscenza e curiosità, eppure quando incontriamo gli altri animali li liquidiamo con sufficienza e persino disprezzo. 
Per non parlare di quello che facciamo agli animali che vengono definiti "da reddito". Oppressi, violentati, trasformati in prodotti alimentari o indumenti di vestiario.
Spazzare via il mondo interiore di miliardi di individui, riducendoli a oggetti, non è solo criminale, è proprio miserevole, ossia ci rende una specie ottusa, stupida, arida, cinica, miope. Siamo dei miserabili!
È più vasto l'orizzonte di un cucciolo di bovino che si affaccia al mondo - per quanto gli venga brutalmente limitato da una gabbia - che quello di un umano che in esso è capace di vedere solo "carne bianca".


Rimozione come difesa

Ieri durante il presidio NOmattatoio è passato un camion di cavalli. Non siamo riusciti a riprenderlo perché il semaforo era verde e andava troppo veloce.
Ho fatto in tempo però a incrociare gli sguardi di quelle creature - le criniere mosse dal vento, l'espressione di paura e ansia - prima che il camion girasse a destra per entrare al mattatoio. 
Ancora una volta ho pensato che persino noi che siamo lì, consapevoli dello sterminio di miliardi di animali in atto in ogni parte del globo, comunque sia mettiamo costantemente in atto una rimozione di quello che realmente accade. La rimozione è la nostra salvezza altrimenti saremmo annientati dal dolore e dalla disperazione e non avremmo più energie per agire. 
La mia speranza è che anche tutti coloro che continuano a mangiare gli animali lo facciano non per cattiveria, sadismo, o indifferenza, ma per non venire annientati dalla consapevolezza di quanto accade agli altri animali con il sostegno delle proprie scelte.
Una volta lo disse anche Melanie Joy: le persone amano gli animali (basti pensare a come essi siano presenti nello nostre vite sin da quando siamo bambini: li abbiamo avuti nei nostri giochi, sulla carta da parati delle nostre camerette, sui vestitini) e se sono indifferenti al loro sterminio è proprio perché prenderne veramente atto provocherebbe troppo dolore e costringerebbe a fare delle scelte che vengono percepite come difficili e problematiche (come quella di diventare vegan). 
Per noi non è stato difficile fare una scelta coerente con il nostro sentire, ma per molti lo è perché c'è ignoranza, disinformazione, pregiudizi e perché l'industria della carne, del latte, delle uova, del pellame e quella farmaceutica remano contro il sorgere di questa consapevolezza e accrescono la rimozione, negazione e dissociazione. 
Anche il considerare gli altri animali come oggetti, o comunque individui inferiori fa parte di questo pacchetto che è il suddetto meccanismo di rimozione, negazione e giustificazione.

Questa mia riflessione (peraltro nulla di nuovo, sono cose che ho già detto tante volte) non è una giustificazione, ma un tentativo di spiegazione del perché vengano commessi crimini tanto atroci con la complicità di tutti.


La pericolosità di una società folle che produce individui dissociati

In occasione della presentazione della campagna NOmattatoio a Parma Etica, ho avuto il piacere di conoscere il Prof. Maurizio Corsini, psichiatra, psicoanalista e presidente dell’associazione Diritti degli Animali. Ha introdotto e commentato la nostra conferenza, poi partecipato con interventi molto interessanti al dibattito che ne è seguito (il video integrale si può vedere sulla pagina NOmattatoio). 
Mi ha colpito molto una sua affermazione riguardo la sofferenza degli animali con cui noi attivisti siamo costantemente a contatto (anche solo con il pensiero; più spesso per la capacità che abbiamo acquisito di vedere la realtà oltre le lenti del carnismo e dello specismo e quindi nelle sue varie e molteplici manifestazioni di dominio e violenza sugli altri animali) e che si traduce in sofferenza anche nostra personale. L’empatia è infatti quel processo che ci permette di immedesimarci nel dolore altrui facendoci immedesimare nella condizione e stato fisico e psicologico dell'altro, dopo averlo riconosciuto come individuo a prescindere dalla specie o etnia di appartenenza. Questo attributo, l’empatia, è fondamentale per relazionarsi in maniera sana con gli altri, altrimenti si rimane chiusi nel proprio mondo egotico in cui si continua a credere che tutto ciò che ci circonda esista per soddisfare i nostri capricci (mondo del bambino nella prima fase della sua vita, infatti). 
Purtroppo nella società del dominio e sopraffazione dell’altro per interessi economici ci fa comodo negare agli altri (che siano animali non umani o umani appartenenti a diverse etnie) la nostra stessa capacità di sentire il dolore o di esperire la realtà in maniera altrettanto ricca e complessa: passaggio che apre la strada a ogni tipo di barbarie e che legittima abusi, sfruttamento e uccisioni di massa. 
Vivere senza empatia è fondamentalmente pericoloso perché impedisce proprio di riconoscere l’altro come individuo e conduce a una desensibilizzazione progressiva che può partire sì dalla negazione degli altri animali in quanto individui in grado di soffrire, ma può arrivare anche a legittimare la violenza sui nostri stessi simili umani.
Certo, essere sani dal punto di vista dell’empatia, ossia essere persone integre dal punto di cognitivo (ed è patologico lo stato dissociato, al contrario di cosa sostengono coloro che ci tacciano di essere patosensibili) ci crea enorme disagio e dolore, diceva il professore, ma è sempre meglio che avere una mente dissociata che non è in grado di ricondurre le informazioni al soggetto che ci troviamo di fronte nella sua integrità, per cui, come scrive anche Annamaria Manzoni nel suo Abbiamo un sogno, da una parte si indica al bambino l’animale carino che si vede in un prato, dall’altra gli si offre il prosciutto nel piatto (con tutte le implicazioni e associazioni affettive che ne derivano) senza che questo – il risultato finale di una catena di sfruttamento e smontaggio – risulti più riconducibile all’individuo vivo che è stato. Del resto è quel che fa il sociopatico, ossia scinde le persone in strumenti utili al suo soddisfacimento, le reifica, le considera oggetti, non individui. Ed è ciò che la nostra società fa nei confronti degli altri animali. In poche parole, viviamo in una società sociopatica in cui la dissociazione cognitiva conduce alla negazione della realtà per come effettivamente si dispiega davanti ai nostri occhi, per poi adattarla, ossia trasformarla nella propria personalissima visione (che è quella sostenuta dalla società del dominio) al fine di giustificare quello che vien fatto passare come normale, ossia la violenza istituzionalizzata nei confronti degli animali. Sempre la Manzoni, come anche il Prof. Corsini, mettono in guardia dai pericoli di una mente così dissociata e frantumata (ammalatasi a causa della società in cui siamo cresciuti), in quanto chi non è capace di riconoscere la violenza che è alla base dell’industria della carne e sottesa a quella che Melanie Joy chiama l’ideologia carnista, facilmente sarà una persona incapace di riconoscere la violenza in generale o quanto meno sarà più incline a un processo di desensibilizzazione graduale. E infatti, ancora Annamaria Manzoni, in un altro suo libro dal titolo Sulla Cattiva strada, mette in guardia dal legame che c’è tra violenza sugli animali e violenza sulle persone.
Il fatto è che distinguere tra una violenza cosiddetta necessaria, che è ciò che fa chi sostiene l’industria della carne, quindi gli allevamenti (che sono sempre una forma di dominio sui corpi altrui) e i mattatoi e una violenza da condannare (quella sui membri appartenenti alla nostra stessa specie) porta a delle conseguenze davvero gravi perché una società in cui si permette il perpetrarsi di forme di violenza legittimate e istituzionalizzate, rimane comunque una società con delle sacche di violenza che finiscono per contaminare la società stessa. Quando si agisce la violenza, in qualsiasi forma, che sia legalizzata o meno, come si fa a capire dove sia il limite? Se è consentito sventrare un vitello, perché non anche prenderlo a calci? E perché non un cane? E perché allora non anche un bambino o una donna? E infatti tutte le forme di violenza cosiddette aggiuntive che vediamo avvenire all'interno di allevamenti e mattatoi, in realtà sono la norma perché e proprio perché è difficile aprire un rubinetto e poi decidere quando chiuderlo.
Non è possibile permettere di prendere a calci, sgozzare e fare a pezzi individui senzienti oppure torturarli per la ricerca medica – seppure in ambienti specifici – e pensare che la violenza di queste pratiche non abbia poi delle ripercussioni sul tessuto sociale stesso e sugli individui che ne fanno parte. 
Un macellaio che per anni e per tutto il giorno è costretto a stare in mezzo al sangue che scorre e a maneggiare coltelli e quant’altro, non può che essere progressivamente desensibilizzato o comunque subirà un processo di rimozione e adattamento della psiche per poter continuare a svolgere il suo lavoro, convincendosi che chi ha tra le mani non sia un individuo capace di sentire, che quelle urla non siano davvero urla, ma solo stridii meccanici (come sosteneva il buon Cartesio) e che, tutto sommato, non ci sia nulla di male nel suo lavoro, essendo oltretutto legalizzato. 
La stessa tesi della violenza dilagante di colui che la percepisce come normale all’interno di un dato contesto è sostenuta nel romanzo della scrittrice argentina Ana Paula Maia, dal titolo Di Uomini e Bestie. Qui il protagonista, che è un macellaio, almeno è consapevole di uccidere individui senzienti e non cerca un'autoassoluzione sociale. Purtuttavia, non esita a uccidere, con la stessa metodica precisione e velocità, un suo collega di lavoro. In fondo, perché mai chi taglia una gola per mille volte al giorno non dovrebbe far suo quel gesto di estrema violenza e non dovrebbe essere pronto a ripeterlo, quasi automaticamente, all’occorrenza?
Attenzione, non sto dicendo che tutti i macellai siano degli assassini di umani in potenza (di animali non umani lo sono senz’altro!); il più delle volte si tratta di persone poverissime che provengono da altri paesi e che accettano quel tipo di lavoro perché altrimenti sarebbero rimandati indietro e che nemmeno si rendono conto di esser parte di un ingranaggio sociale che, seppure su diversi lavelli, stritola anche loro stessi e li piega al giogo del dominio sui più deboli. 
Sto dicendo che una società che consente pratiche di violenza inenarrabili è una società malata e che da un corpo malato non possono che generarsi atti e pensieri malati. 
Quindi, come ho già sostenuto tante altre volte, la questione dello sfruttamento sugli animali è un problema gravissimo che non riguarda solo noi cosiddetti animalisti, ma la società nel suo complesso. 

Ci lamentiamo dell’indifferenza che avvelena le nostre esistenze, ci scandalizziamo se una persona chiede aiuto per strada perché sta per essere uccisa e nessuno si ferma, ma non riflettiamo mai abbastanza sulle pratiche di violenza normalizzata – e per questo ancor più subdola – che accettiamo senza farci due domande e siamo subito pronti a tacciare per pato-sensibili gli animalisti. 
Non è una questione di preferire gli animali non umani agli umani, ma di risvegliare in noi quell’attributo importantissimo che è l’empatia e che ci permette di non voltarci dall’altra parte di fronte a ogni tipo di abuso e violenza sul vivente, a prescindere se abbia due zampe o due ali o delle pinne.
E, come ha detto il Professor Corsini, non siamo noi a essere patosensibili, è il resto della società a essere folle. 
Come altrimenti chiamare la pratica di condannare alla schiavitù e morte prematura miliardi di individui – dopo una non-vita infernale – quando non è necessario? Follia. Una follia da cui, per fortuna, si può guarire. 
Come? Beh, intando smettendo di considerare il problema della violenza sugli altri animali come un qualcosa che riguardi solo noi attivisti, ma riconoscerlo come un enorme problema di ingiustizia sociale.

Nessun commento:

Posta un commento