Vivere nel
luogo in cui sei nato, nella casa in cui sei nato, è una cosa rischiosa. È come
giocare in fondo al pozzo. Si nasce per uscire, per vagare nel mondo. Il paese
ti porta alla ripetizione. In paese è facile essere infelici. I progetti di
sviluppo locale devono tenere conto di questo fatto: non li possono fare da
soli i rimanenti, perché in paese non c’è progetto, c’è ripetizione. In un
certo senso il paese ti mette nello schema dell’oltranza e non in quello della
brevità. È difficile essere concisi. È difficile essere innovatori. In genere
ognuno fa quello che ha sempre fatto, giusto o sbagliato che sia. Se nella
pasta ci vogliono due uova piuttosto che una, comunque tutti continueranno a
usarne due. E chi beve non troverà nessun incentivo a smettere. E chi si guasta
lo stomaco mangiando troppo continuerà a mangiare troppo. Ci sono due abitanti
tipici, il ripetente e lo scoraggiatore militante. Spesso le due figure sono
congiunte, nel senso che lo scoraggiatore è per mestiere abitudinario, non
cambia passo, continua a scoraggiare, è appunto un militante. Più difficile essere militanti della gratitudine,
della letizia. È come se la natura umana in paese fosse più contratta, non
riuscisse a diluirsi. E si rimane dentro un utero marcito. Il paese è
pericoloso, bisogna saperlo, è un toro con molte corna. Allora se da una parte
la città è disumana, il paese è troppo umano, non ti libera mai dall’umano e
dunque dal senso della morte e dal senso della ripetizione. Alla fine nel suo
senso più profondo la vita è quella cosa che può finire in qualsiasi momento,
ma che intanto prosegue più o meno allo stesso modo. E questo in paese è più
chiaro. In città è come se agisse un principio diversivo, come se ci fossero
altre possibilità. In realtà non ci sono, ma è come se avessi l’illusione che
ci siano.
Fatte queste
premesse, come si fa a fare progetti di sviluppo locale? La chiave è dare forza a nuove forme di residenza.
Il paese deve essere scelto e non subito. Chi
arriva da lontano ha un piglio, una disponibilità che non trovi in chi è
affossato nel suo paese. Il residente a oltranza anche quando è animato da
buona volontà tende a impigliarsi nelle proprie nevrosi. Il paese tende
a essere nevrotico. Il paese non sta bene, questo è il punto. E non ha voglia
di curarsi. Lo sviluppo locale si può fare partendo da queste premesse. Allora
bisogna aprire porte che non ci sono, bisogna
esercitarsi nell’impensato, bisogna essere rivoluzionari se si vuole
riformare anche pochissimo. I paesi non moriranno, anche grazie ai loro
difetti, grazie al loro essere luoghi che tutelano le malattie di chi li abita.
In paese si fallisce, ma in un certo senso non si fallisce mai perché si
fallisce a oltranza. È come dormire sempre nelle stesse lenzuola. Bisogna arieggiare il paese portando
gente nuova, il paese deve essere un continuo impasto di intimità e distanza,
di nativi e di residenti provvisori. Questo produce una dinamica emotiva
ed anche economica. E la dinamica è sempre contrario allo spopolamento:
bisogna agitare le acque, ci
vuole una comunità ruscello e non una comunità pozzanghera.
Bisognava aprire emotivamente i paesi, dilatare la
loro anima e invece la modernità incivile degli ultimi decenni li ha aperti
solo dal punto di vista urbanistico, si sono sparpagliati nel paesaggio, a imitazione
della città, ma è rimasta la contrazione emotiva. Il paese va aperto tenendolo
raccolto. Lo sviluppo locale si fa ridando al paese una sua forma,
ricomponendolo, rimettendolo nel suo centro, ma nello stesso tempo c’è bisogno di apertura. Lo
sviluppo lo può fare chi lo attraversa il paese con affetto, non chi ci vive
dentro come se fosse una cisti, un’aderenza, un cancro.
Il mondo ha bisogno di paesi, ma non come luoghi obbligati, come
prigioni per ergastolani condannati a vivere sempre nello stesso luogo. Il
paese deve essere organizzato come se fosse un premio, non come una condanna. Lo
sviluppo locale si fa pensando a un luogo dove si premia un’esistenza, si dà
una possibile intensità, quella che viene dall’essere in pochi, quella che
viene dall’avere tanto paesaggio a disposizione. Allora non si dà sviluppo
locale facendo ragionamenti quantitativi, mettendo il pensiero economico
metropolitiano nell’imbuto del paese. Ci
vuole un pensiero costruito sul posto, ma non solamente dagli abitanti del
posto. Il segreto è l’intreccio e deve essere un intreccio reale,
non il prodotto di un’assemblea, di un incontro estemporaneo. Chi vuole salvare
i paesi deve entrarci dentro e in un certo senso deve buttare fuori chi ci vive
dentro. Si deve realizzare uno
scambio continuo, qualcosa di simile al meccanismo del sangue venoso e
di quello arterioso. Lo sviluppo locale deve imitare la circolazione del
sangue. In un certo senso si tratta di mettere mano agli organi interni. Spesso
i paesi più belli sono quelli vuoti, come se fossero uccelli svuotati dello
loro viscere. È come se la parte viscerale del paese fosse quella più malata,
quella più accanita a tutelare la sua malattia. Un’azione di sviluppo locale
allora deve essere delicata ma anche dura, deve togliere al paese i suoi alibi,
i suoi equilibri fossilizzati, deve cambiare i ruoli: magari le comparse
possono essere scelte come attori principali e gli attori principali devono
essere ridotti a comparse. E allora non
si fa sviluppo locale senza conflitto. Se non si arrabbia nessuno vuole dire
che stiamo facendo calligrafia, vuol dire che stiamo stuccando la realtà, non
la stiamo trasformando.
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