venerdì 22 marzo 2024

Dopo i trattori: un “protezionismo intelligente” per l’agricoltura - Sergio Simonazzi

  

Non intendo qui riprendere ciò che è stato scritto fino ad ora, talvolta con grande competenza, sulle proteste degli agricoltori in tutta Europa, ma soffermarmi sul contesto in cui si sono inserite. In particolare voglio ricordare cosa rappresenta per la comunità umana l’attività agro-zootecnica.

L‘agricoltura, anche se poco considerata (e proprio per questo retta in Europa esclusivamente da cospicui e iniqui provvedimenti della Politica Agricola Comunitaria), costituisce il settore primario dell’economia classica, mentre l’industria ne è componente secondaria. Essa è l’unica l’attività che, se gestita secondo i principi della agroecologia, garantisce un’economia eterna. Oltre che produrre derrate alimentari, poi, assicura equilibri territoriali e biodiversità così costituendo uno dei principali ostacoli al diffondersi delle pandemie. Il terreno agricolo assorbe, secondo l’ISPRA, 500 kg/ha/anno di CO₂ e trattiene quasi 4 milioni di litri d’acqua per ettaro sì che l’attività produttiva si intreccia con la riduzione dei disagi prodotti dall’ormai acclarato cambiamento climatico: non a caso le poche figure istituzionali “illuminate”, in Italia e nel mondo, tendono a diminuire la cementificazione del territorio. Di più, in termini di salute, il buon cibo prodotto da un’agricoltura naturale e sana è, insieme all’aria non inquinata, uno dei cardini della “prevenzione primaria”: più della stessa diagnosi precoce delle malattie che, al contrario di ciò che si pensa, è uno strumento di prevenzione secondaria. A ciò consegue anche che adeguati investimenti nel settore agricolo sono ampiamente compensati dai risparmi in spese per costose e dolorose terapie.

Alla luce di queste considerazioni vorrei formulare alcune semplici proposte di intervento nel settore agricolo, da sempre trascurato dalla politica.

Primo. Occorre anzitutto dare concreta applicazione alla proposta di “sovranità alimentare” elaborata nel 1996 dall’associazione sudamericana Via Campesina. Tale proposta afferma il diritto dei popoli a definire le proprie politiche e strategie di produzione, distribuzione e consumo di cibo: tutt’altra cosa, rispetto alla agrozootecnia industriale, che si caratterizza per monocoltura (antitesi della biodiversità) e allevamenti intensivi le cui produzioni sono destinare precipuamente alla esportazione e alla grande distribuzione.

Secondo. Bisogna, poi, annullare gli accordi internazionali che prevedono prezzi fissi per i prodotti agricoli poiché, in agricoltura, le produzioni sono condizionate non solo dalla professionalità degli agricoltori, ma soprattutto da condizioni climatiche differenziate da paese a paese e dalla imprevedibilità delle stesse a causa dei cambiamenti climatici.

Terzo. La razionalità indica che l’ortofrutta, prodotto ad alto contenuto di acqua (che – come noto è il maggior attivatore di fermentazione…), deve essere consumata quanto più possibile vicino al luogo di produzione al fine di permetterne la raccolta a maturazione adeguata e, conseguentemente, al massimo delle qualità organolettiche. Al contrario, se questo alimento viene prodotto a migliaia di km di distanza, si impongono alcuni procedimenti impropri: raccolta prematura, trattamenti chimici per impedirne la decomposizione, confezioni più complesse per la conservazione etc. Senza contare l’utilizzo di energia fossile per il trasporto, alla faccia della prevenzione primaria e delle sostenibilità! Questa forma di autarchia avrebbe anche l’effetto di consentire, nei paesi più poveri, l’orientamento delle produzioni alimentari verso i consumi interni e non verso il bulimico e ricco mondo occidentale.

Quarto. Occorre, infine, diminuire il consumo di carne, come indicato dall’OMS, a 4-500 grammi pro capite alla settimana (ovvero circa 20 kg annui). Vi sono attualmente nazioni in cui se ne consumano oltre 100 kg all’anno (USA e Australia: dati 2020); in Italia se ne consumano 60-70 kg annui (dati Slow Food). Una minore ingestione di carne garantirebbe infatti, oltre a un miglioramento della salute umana, una migliore gestione del territorio: basti considerare che la diminuzione del carico di bestiame (bovini in primis) per ettaro comporta minori deiezioni, con conseguente rispetto della “Direttiva nitrati” al fine di non inquinare le falde acquifere.

In sintesi, occorre affidarsi, in agricoltura, a un “protezionismo intelligente”. Lo impongono, come si è visto, il mantenimento di una buona salute e il risparmio energetico da combustibili fossili. Ciò non vuol dire negare la possibilità di scambi internazionali. Ma devono essere ragionevoli


P.S. A supporto di quanto esposto ricordo un articolo di una grande femminista, saggista ed ecologista, Carla Ravaioli, dal titolo Keynes e l’arte della vita, risalente a 20 anni fa, che cita la seguente frase dello stesso Keynes: «Ho simpatia per coloro che vogliono minimizzare piuttosto che massimizzare l’intreccio economico tra le nazioni. Le idee, la conoscenza, l’arte, l’ospitalità, i viaggi, sono tutte cose che per natura sono internazionali. Ma le merci dovrebbero essere di fabbricazione nazionale ogni volta che ciò è possibile e comodo».

da qui

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