martedì 19 marzo 2024

Viaggio di solo ritorno – Suoni dalla Turchia - Matteo Mangili

 

Narrano gli storici del tempo che i Turchi, per secoli terrore di mezza Europa, al sentire
suonare le innocenti campane di una qualsiasi chiesa venivano colti da una strana
paura.

Del resto, quando il muezzin chiama i fedeli alla preghiera, anche noi occidentali
ci sentiamo smarriti, quasi angosciati. Ignari degli anni di esercitazione che, fin
dall’infanzia, portano alcuni bambini prescelti a diventare la voce che detta i tempi della
vita nell’Islam.
Questi shock culturali, ormai sempre meno frequenti nel nostro mondo, sono uno dei
motivi per cui ci si mette ancora in viaggio. E di fronte al primo, iniziale sbigottimento si
rimane poi piacevolmente estasiati. Per assurdo, ci si irrigidisce molto di più davanti a
ben altri suoni, come per esempio l’innocente fiammata che fa una mongolfiera per
spiccare il volo.
Sanliurfa, città turca a 40 km dalla Siria, trascorro una settimana. Alloggio in una
pensioncina economica, frequentata da coppie di sposini turchi in luna di miele. La
figlia del proprietario, una ragazza col volto invaso dall’acne, ogni mattina mi regala
una confezione in più di marmellata. Poi, quando me ne vado, mi dice “ofidersen”, un
modo di congedarsi stranamente assai simile all’arrivederci tedesco.

A pochi metri dall’albergo svetta un minareto. Più volte, intorno alle cinque, sono
svegliato dalla preghiera del mattino. Tutto ciò non mi impedisce di trascorrere lunghe
nottate di sonno pieno, ristoratore. Senza alcuna traccia di sogni.

Poi, quando il sole è già alto, passeggio per le vie del bazar. La recente guerra in Siria
ha fatto sì che, in città, aumentasse il numero degli arabi, peraltro storica minoranza a
Sanliurfa. Molti uomini indossano la kefiah. E’ portata in diversi modi – sulle spalle,
sopra la testa – ma sempre con la stessa baldanza. Le donne, invece, sono parecchio
diverse tra loro. Molte indossano il niqab, il velo integrale, e ogni volta che ne incrocio
gli occhi, spesso truccati, mi chiedo se dietro a quella copertura vi sia una scelta
consapevole o un’imposizione. Altre, invece, portano lunghi vestiti dalle tinte sgargianti,
impreziositi da numerose perline che brillano al sole. Poi ci sono le donne del posto –
turche, ma soprattutto curde – con le loro acconciature laccate, fresche di parrucchiere.
Un tempo la straordinaria diversità etnica-culturale di Sanliurfa era ancora più vasta:
oggi all’appello mancano i migliaia di cristiani uccisi durante il genocidio armeno.

Nonostante il tanto riposo, la stanchezza di oltre 130 giorni di viaggio non può essere smaltita facilmente. Gli sguardi curiosi dei passanti, il terrore nel volto dei camerieri quando mi sentono parlare inglese e non sanno rispondere: è come se il mio essere straniero stia, per me, diventando una piccola ma crescente fonte di insofferenza. Così, una sera, dopo aver vagato a lungo per trovare un posto dove mangiare, entro in un locale in cui un gruppo di muratori ha appena smontato dal lavoro. Tutti mi guardano,
io rispondo con il solito sorriso un po’ ebete che sfoggio in casi come questi. Vengo prontamente ripagato dalla cordialità del ragazzo che sta alla cassa. Siriano, con poche parole ma molti gesti mi fa capire tutto il suo sincero interesse per il mio viaggio.
Poco dopo, sulla strada di casa, mi fermo davanti a una pasticceria. Non appena mi sente parlare inglese, Muhammad si fa raggiante e mi offre una sorta di sfogliatella
ripiena di formaggio dolce. Ben presto faccio amicizia con questo ragazzo dai modi

gentili e lo sguardo affabile, e  rimaniamo d’accordo per vederci il giorno dopo, prima che lui vada a lavoro. Muhammad, siriano, ha 26 anni, è in Turchia da otto ma il suo sogno è di andare via il prima possibile. Europa, Dubai, Stati Uniti. Non faccio in tempo a ipotizzare qualche possibile meta che lui, emozionato, mi dice che da giorni sta aspettando una telefonata dalla Sierra Leone. Ha pagato più di mille dollari per fare la domanda per il visto, e altrettanti gli sono serviti per ottenere il passaporto siriano. Vorrei chiedergli quanto
guadagna, lui capisce e con una smorfia di disgusto mi dice “only two hundred fucking dollar, my friend”. Mi spiega che la sua vera sfortuna è la nazionalità che si porta appresso, e per questo ha pensato di andare a vivere in Africa dove, se capisco bene,lavorerà nell’industria ittica. 
Mi piace, di questo ragazzo dal sorriso luminoso, il suo raccontare straripante. Senza che io gli chieda nulla mi parla della sua fuga da Raqqa, in Siria, dove ha lasciato la
madre e un fratello più piccolo. L’altro gliel’hanno ucciso per sbaglio, ai tempi della
guerra. Il padre, invece, è stato rapito 14 anni fa, e da allora non se ne sa nulla.. “Sono
stati quelli di Daesh, non so se ne hai sentito parlare”, mi dice. Poi Muhammad passa a
parlare d’amore, della sua fidanzata che un giorno spera di sposare e di cui mi mostra,
orgoglioso, il braccialetto che gli ha regalato e che ovviamente portera con sè in Sierra
Leone.
Trascorro l’ultimo pomeriggio a Sanliurfa nei bei giardini intorno alla Moschea, da cui
raggiungo il vecchio castello per godermi il tramonto. Mentre il muezzin chiama la
preghiera della sera, stormi di uccelli impazziti fluttuano nell’aria. Dopo una breve sosta
Gaziantep, punto verso il centro dell’Anatolia, in Cappadocia. Quando arrivo a
, dopo una notte di viaggio, la prima cosa che noto è il Burger King all’ingresso
della città. Il giorno dopo mi sveglio per vedere l’alba, e mi ritrovo ad aspettare il sole in
un cielo punteggiato da almeno cento mongolfiere. Le fiammate prodotte dai bruciatori
irrompono in quella quiete assoluta che mi aspettavo di trovare in cima alla rupe su cui
mi sono arrampicato.
Mi sento a disagio a stare lì, in quel mondo da cui in realtà io pure provengo. Pieno di
francesi, italiani, spagnoli, ma pure coreani e giapponesi; tutti in preda a questa
incomprensibile smania di dover fare sempre qualcosa. Che si tratti di un volo in
mongolfiera, un’escursione a cavallo, o un giro in fuoristrada importa poco.
L’importante è muoversi, fare e soprattutto mostrare.
Torno in ostello, faccio una veloce colazione e, dopo aver mandato un messaggio a
Muhammad per chiedergli se ci sono novità sul visto, ricorro all’unico rimedio che
conosco per ritrovare un po’ di serenità.
Con un paio di scarponi ai piedi e una vaga idea di strada da seguire, esco per andare
a camminare in un mondo che, seppur sempre più disgraziato, continua ad essere
meraviglioso.

da qui

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