venerdì 30 novembre 2018

Ricongiungersi ai territori - Paolo Cacciari



L’unica sovranità interessante, quella alimentare
Come noto, la prima possibilità che un individuo ha a disposizione per prendere nelle proprie mani la sua vita è quella di scegliere come cibarsi; di come riappropriarsi dei mezzi della propria auto-riproduzione. Chiamiamola autodeterminazione alimentare o principio della sovranità alimentare che – secondo la dichiarazione di Nyelni, nel Mali del 2007, fatta propria dalla Fao – riguarda “il diritto delle persone a un cibo culturalmente appropriato e sano, prodotto con mezzi sostenibili che rispettano l’ambiente e il diritto a definire i propri sistemi agricoli e alimentari. La sovranità alimentare pone al centro dei sistemi e delle politiche alimentari le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano cibi, anziché le richieste delle aziende e dei mercati”.
Nelle “società opulente” le possibilità di scelta alimentare sono parecchie(e l’apparato industriale agro-alimentare-farmaceutico lo sa benissimo!). Possiamo seguire le suggestioni che vengono dal piacere del palato. Possiamo seguire le pulsioni psico-gastronomiche che compensano le carenze affettive. Possiamo seguire precetti medico-salutisti. Possiamo conformare le nostre abitudini alimentare a principi etici (veganesimo).
I movimenti consumeristici, in generale, mirano a sviluppare la capacità critica delle persone e a creare strumenti per aumentare le loro possibilità di scelta a tutti i livelli: individuale e familiare (informazione, auto e co-produzione, ecc.), amicale e di prossimità (gruppi di acquisto collettivi, orti sociali condivisi, ecc.), comunitario (Comunity Supported Agriculture, Patti città-campagna, menù delle mense, ecc.), pubblico istituzionale (Food Policy).
Tutte le esperienze che tendono alla autodeterminazione alimentare si scontrano inevitabilmente con numerosi ostacoli e condizionamenti esogeni: economici (la necessità di raggiungere una redditività minima degli operatori in un contesto di costi di produzione sempre più elevati e di concorrenza in dumping), limitate possibilità di accesso a terreni fertili e a materie prime di qualità (inquinamenti, consumo di suolo, privatizzazione delle sementi, ecc.),organizzativi (servizi e mezzi di movimentazione, conservazione, trasformazione… in mano a oligopoli), normativi (standard per la commercializzazione, regolamenti di igiene, appalti di fornitura, sistemi fiscali, ecc.), psicologici (mentalità comune plasmata dalla pubblicità, dal discreditamento del biologico contadino a favore degli Ogm o, comunque, del biologico industriale certificato, ecc.). Per evitare tali blocchi esterni, l’unica strada è riuscire a superare la separazione tra le figure del consumatore finale e del produttore. Va ricomposta l’intera filiera dall’approvvigionamento delle materie prime, alla coltivazione, alla raccolta, alla trasformazione, al confezionamento, alla distribuzione … fino alla utilizzazione finale e oltre: riuso delle eccedenze e degli scarti.

Autogoverno territoriale
Ha detto Alberto Magnaghi nell’ultimo convegno della Società dei Territorialisti: “Le interrelazioni fra soggetti e temi differenti costituiscono le condizioni dellautogoverno territoriale e della democrazia di comunità: si tratta di costruire relazioni (funzionali e coprogettuali) fra le comunità di produttori di beni alimentari bioecologici e le comunità urbane di autorigenerazione delle periferie, di cohousing e di auto valorizzazione dei beni comuni urbani; costruire obiettivi comuni per la gestione di patti e di scambi città-campagna, città-collina, entroterra costieri, montagna; fra neoagricoltori, biodistretti rurali e abitanti urbani sulla autoproduzione di cibo e servizi eco sistemici; fra attori dei contratti di fiume (di lago, di paesaggio), per l’autogoverno delle reti ecologiche, gli equilibri idraulici, la fruizione delle riviere fluviali urbane e rurali; fra le comunità eco museali e gli osservatori del paesaggio per la conoscenza attiva dei patrimoni territoriali come imput per i soggetti promotori di sistemi produttivi locali, fondati sulla messa in valore delle peculiarità dei patrimoni stessi, e così via”. (A. Magnaghi, Relazione introduttiva a La democrazia dei luoghi e forme di autogoverno comunitario, Castel del Monte 15/17 Novembre 2018).
Il percorso da seguire potrebbe essere sintetizzato in uno slogan: dai gruppi di acquisto ai gruppi di coproduzione; dai “patti” tra consumatori e produttori all’ “alleanza” tra abitanti, cittadini e rurali (agricittadini). La logica del “patto” presenta qualche antipatia perché è di natura contrattuale/commerciale tra soggetti che rimangono separati se non contrapposti nei rispettivi interessi immediati (attenti a non fregarsi a vicenda!). La logica dell’alleanza, invece, è fusionale, interdipendente, simbiotica, fiduciari, donativa: io mi impegno a magiare ciò che tu produci e tu produci ciò che io mangio; tu mi liberi dalla costrizione di dover andare a comprare ciò di cui ho bisogno al supermercato, io ti libero dal giogo che ti obbliga a conferire la tua produzione a intermediatori “terzi”, al mercato all’ingrosso. Insieme usciamo dalla logica di mercato in cui la domanda e l’offerta vengono inesorabilmente determinate dal prezzo e non dal buono, dall’utile, dall’equo, dal sostenibile. Finalmente, si ricompone la separazione tra produzione e consumo; la scissione alienante tra attività lavorativa etero diretta e riproduzione della vita.
Ma come si può immaginare di realizzare tale alleanza? La risposta sta nel riconoscimento dell’esistenza di un comune interesse, di una cointeressenza nella costruzione di un livello superiore d’azione che solo può farci raggiungere un benessere collettivo, un buon vivere e una buona vita. Ricordiamoci sempre che “nessuno si salva da solo”! Pensiamoci come una comunità scelta, aperta, inclusiva, solidale, propositiva, capace di creare reti orizzontali non gerarchiche (che non “irretiscano” e burocratizzino le relazioni umane spontanee e dirette che solo le associazioni volontarie di cittadini sanno garantire), ma al contrario che connettano quelle esperienze accumunate dagli stessi valori di fondo: imprese che operano secondo modelli cooperativistici e mutualistici, fondazioni di comunità, gruppi di finanza etica, di coworking e open source, cohousing ed ecovillaggi, ecc. ecc. Insomma, tutto il grande e largo mondo dell’economia eco-solidale (SSE, Social end Solidarity Economy, nel linguaggio internazionale adottato dalle agenzie Onu). Comprendendo in questo mondo anche i gruppi, i comitati, le associazioni, i movimenti che si battono per la salute e la salubrità degli habitat naturali, contro le distruzioni ambientali e la giustizia sociale.

Agire localmente
Le vecchie categorie del produttore e del consumatore si ritrovano unite in un progetto integrato e multiattoriale di comunità fondate sulla qualità delle vite e dei lavori. I consumatori critici e i produttori consapevoli alzano il loro punto di vista su un orizzonte allargato che consente una visione d’insieme. Assieme elaborano un progetto complessivo multifattoriale di comunità territoriale. Creano quella “calda e civile coralità produttiva” evocata da Giacomo Becattini. Assieme rivendicano un governo e una gestione del patrimonio territoriale locale fondato sulla cura dei luoghi e sulla rifunzionalizzazione dei sistemi primari che supportano i servizi ecosistemici. Assieme immaginano una “ergonomia del territorio”, un assetto idro-geo-morfologico funzionale alla rigenerazione e al potenziamento dei cicli biologici e della biodiversità.
In tal modo le funzioni urbane e quelle agricole si andranno ad intrecciare, cosicché i loro abitanti saranno chiamati ad una cooperazione multisettoriale. Gli assetti organizzativi del territorio (infrastrutture, piattaforme, servizi, ecc.) verranno via-via ri-funzionalizzati partendo dallo scopo primario di garantire a tutti gli abitanti la autonomia e la autodeterminazione alimentare della comunità. Poiché si sa che le grandi trasformazioni si attuano a piccoli passi, questo processo di trasformazione globale non può che partire restituendo all’azione locale la centralità del processo. Come dice Sergio De La Pierre va riconosciuto “il valore universale del locale”.
Man mano che crescerà la consapevolezza e il desiderio di una tale pianificazione dal basso della domanda alimentare commisurata alle possibilità reali produttive del territorio, si creeranno istituti di autogoverno (cooperative di produzione e consumo, cooperative e fondazioni di comunità, politiche urbane per lo sviluppo agricolo e rurale, Food Policy Council, ecc.), vere “palestre di democrazia”, come le chiama Francesca Forno.

*Testo dell’intervento all’incontro promosso da Aequos e Des-Varese a Saronno il 25 novembre 2018, “Lezioni di futuro. I Gas nell’economia solidale: storia e prospettive”


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