Esistono
alternative reali, giuste e salutari per frenare il cambiamento climatico e
recenti studi scientifici lo dimostrano, contrariamente a quanti propongono
opzioni speculative, teoriche e altamente rischiose come la geo-ingegneria
climatica.
Il rapporto Missing Pathways to 1,5 (quanto manca
alla soglia di 1,5 gradi), mostra che garantire
i diritti degli indigeni e dei contadini, ripristinare i boschi naturali e la
transizione verso aree di coltura agro-ecologica, assieme a un passaggio verso
diete con meno carne, sono le misure che possono ridurre alla metà le emissioni
dei gas a effetto serra entro il 2050. Si stima un potenziale di riduzione di circa 23 giga tonnellate annue di diossido
di carbonio o l’equivalente, che elimina la presunta necessità di utilizzare
tecniche di geo-ingegneria. Inoltre, sono cambiamenti
positivi per la biodiversità, le comunità indigene e contadine e per la salute
di tutti.
Il documento si basa su una revisione ampia e dettagliata di
recenti documenti scientifici ed è
stato pubblicato nell’ottobre 2018 da una coalizione di 38 organizzazioni che
lavorano per la giustizia ambientale e sociale, per il diritto alla terra e
all’alimentazione e per l’agro-ecologia e la conservazione dei boschi.
Gli autori principali sono Kate Dooley e Doreen Stabinsky, con la revisione e
la collaborazione dell’alleanza CLARA (Climate Land, Ambition and Rights
Alliance).
Lo studio
esce nello stesso momento in cui l’Intergovernmental
Panel on Climate Change (IPCC, per le sue iniziali in inglese) [Gruppo intergovernativo sul cambiamento
climatico] pubblica un nuovo rapporto su come limitare il riscaldamento globale
a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, un limite che prospettano cruciale
per evitare un cambiamento climatico catastrofico. In tre scenari, l’IPCC
considera l’uso di tecniche di geo-ingegneria per rimuovere il diossido di
carbonio dall’atmosfera, però in un altro segnala che con misure basate sulle
funzioni degli ecosistemi -alcune come quelle che lo studio di CLARA individua-
, sarebbe altrettanto possibile raggiungere questa meta.
Più della metà delle riduzioni di gas serra
prospettate nello studio di CLARA verrebbero dal ripristino e dalla difesa dei
boschi naturali e delle torbiere (un tipo di zona umida che trattiene alte
quantità di carbonio e di azoto organici). Il
resto si può ottenere con cambiamenti nell’agricoltura e zootecnia industriale – che è il principale fattore di deforestazione e
distruzione delle zone umide-, con il recupero dei terreni e degli
agro-ecosistemi, diminuendo l’uso di fertilizzanti sintetici, appoggiando
sistemi agro-ecologici e locali e, da parte dei consumatori, cambiando la
dieta.
Il rapporto
afferma che “i diritti comunitari sulla terra e i
boschi, sono l’azione climatica più efficace, efficiente ed equa che i governi
possono esercitare per ridurre la loro impronta di carbonio e
proteggere le foreste del mondo” . Sottolinea la necessità di affermare i
diritti alla terra e al territorio delle comunità e dei popoli indigeni per
raggiungere gli obiettivi fissati. Tutte le foreste del mondo sono abitate da
comunità indigene, che sono le principali custodi delle foreste. Su scala globale, il possesso della metà
di questi territori è rivendicato dalle comunità, ma solamente il 20 per cento
ha un riconoscimento legale.
Missing Pathways to 1,5 mette
anche in discussione l’utilizzo del concetto di “emissioni negative”, un
termine assurdo che non esiste in alcuna lingua. È stato inventato per
giustificare il mantenimento dell’emissione di gas a effetto serra che verrebbe
contrastato, in teoria, con misure tecnologiche per rimuovere il carbonio
dall’atmosfera (geo-ingegneria). Un’opzione ad alto rischio che scarica il problema alle generazioni
future, facendole dipendere dai padroni delle tecnologie.
Al
contrario, questo rapporto presenta modi per
evitare le emissioni prima che si generino, e rimuovere l’eccedenza di carbonio
già accumulata nell’atmosfera mediante l’espansione dei boschi naturali con
specie autoctone e l’aumento dell’agro-forestazione comunitaria, tra le altre
misure.
Per quanto
riguarda il sistema agroalimentare, che è il fattore di maggiori emissioni di
gas a effetto serra, prospetta di ridurre i rifiuti (che la FAO stima fino al
40 per cento di quanto raccolto), diminuire il
trasporto dei prodotti alimentari, aumentare la produzione e il consumo locale,
ridurre l’uso dei fertilizzanti sintetici e degli agro-chimici; ridurre e
migliorare l’allevamento di bestiame, ponendo fine all’allevamento al chiuso di
mucche, suini e volatili e basare la loro alimentazione sui pascoli. In modo complementare, gli studiosi vedono
come essenziale la riduzione del consumo di
carne, che è molto diseguale nel mondo e quindi si rivolgono a quelli che ne
consumano di più. La grande maggioranza della produzione industriale e del
consumo di carne si concentra in solo sei paesi.
Si
sottolinea, infine, l’errore di concentrarsi solamente sulla limitazione della
temperatura, considerando la crisi climatica come un fenomeno isolato. Abbiamo
bisogno di risposte olistiche alle crisi ambientali, sociali, della salute e
delle altre e solamente gli approcci molteplici e sinergici forniranno le vere
soluzioni, così come dimostra questo studio.
Pubblicato
su La
Jornada con il titolo Alternativas reales frente al
cambio climático
(Traduzione
per Comune-info: Daniela Cavallo)
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