Nella giornata di domenica arrivano i comunicati di Prefetture e Protezione Civile delle province del Veneto. È allerta rossa per maltempo. Seguono immediate le ordinanze dei moltissimi sindaci che chiudono in via precauzionale le scuole di ogni grado per le due giornate successive. A sera leggo un bollettino del Centro Meteorologico Lombardo:
“Dopo la temporanea attenuazione delle precipitazioni in queste ultime ore di domenica, nella giornata di lunedì 29 ottobre 2018 è attesa la fase più acuta e potenzialmente critica di questo severo episodio perturbato. Siamo particolarmente in imbarazzo nell’emettere questa previsione, perché è la prima volta che la modellistica numerica ci mostra una sinottica così impressionante per intensità dei contrasti e soprattutto per estensione della fenomenologia. Da sempre condanniamo nel modo più assoluto l’allarmismo sensazionalistico, vera piaga dell’informazione meteorologica sul web. In questa particolare situazione, tuttavia, non possiamo nascondere la nostra seria preoccupazione per l’evoluzione meteorologica attesa lunedì sul Nord Italia”-
La situazione è seria e le proiezioni meteo fanno paura: le condizioni sono sovrapponibili a quelle del novembre 1966, dicono, l’anno delle terribili alluvioni in Toscana e nel Triveneto.
Normali, in Veneto le perturbazioni arrivano tra ottobre e novembre e segnano il passaggio di stagione. Normali sono le prime forti piogge e le nebbie. Normale è lo scirocco che da sudest solleva i tabarri e le maree. È il momento in cui accendi i primi fuochi di legna e ci arrostisci le castagne. Mal’enorme energia che i familiari flussi atmosferici accumulano per effetto delle temperature fuori controllo in terra e in mare, no, quella non è normale. Quella è opera dell’uomo, della sua dissennatezza.
Giusto i primi di ottobre è uscito il rapporto Speciale IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change). Il rapporto indica in dodici anni, il 2030, il punto di non ritorno per non oltrepassare la soglia di 1,5°C di surriscaldamento globale – dovuta principalmente alle emissioni antropiche di gas climalteranti come la CO2 – oltre la quale non sarebbe più possibile una inversione di trend, oltre la quale non sono nemmeno prevedibili gli scenari di rischio.
“Uno dei messaggi chiave che emerge con molta forza da questo rapporto è che stiamo già vedendo le conseguenze di un riscaldamento globale di 1°Cquali, tra gli altri, l’aumento di eventi meteo estremi, innalzamento del livello del mare, diminuzione del ghiaccio marino in Artico”, ha detto Panmao Zhai, co-presidente del Working Group I dell’IPCC.
Tra la notte di domenica 28 e l’alba di martedì 30 due masse d’aria potentissime e antagoniste si scontrano nei cieli del Mediterraneo: una cascata d’aria di provenienza artica e una massa tropicale formano una specie di dorsale di risucchio-e-rilascio, la cresta di un’onda supercarica di umidità che punta veloce e dritta sulla penisola. Piogge torrenziali e venti localmente fino ai 200 km/h spazzano l’Italia intera.
Ma sono il centro e soprattutto il nord Italia i più diffusamente colpiti. Perché dopo una corsa spaventosa che ha distrutto tratti di costa e paesi, l’onda trova le Alpi che fanno da diga, ammassando il vapore condensante a ridosso dei pendii, in prossimità dei quali le piogge vengono concentrate ed esaltate nella loro intensità. Venezia, la mia Venezia, va sotto la sua quarta ‘aqua granda’ di sempre, 156 cm: in Basilica si sbriciolano gli intonaci, si staccano i mosaici.
Paesaggi spettrali cominciano a diffondersi nel web e vediamo cosa ne è stato del bellunese e dei suoi borghi, dell’Altopiano di Asiago, delle zone pedemontane e dolomitiche e, più su, del Trentino, della Carnia friulana… Paesi franati, interi boschi abbattuti, strade che non esistono più, reti elettriche e idriche compromesse, non c’è corrente, l’acqua non è più potabile. Ci sono morti e sfollati.
E poi guardiamo i fiumi. “Spetemo a veder cossa riva dalla montagna” diciamo qui in pianura. Perché tutta quell’acqua deve venire giù, ma il mare non riceve per il violento scirocco. I nostri grandi fiumi – il Bacchiglione, la Brenta, l’Adige, il Piave, il Tagliamento – sono alti, grossi, oltre la soglia di guardia, a tratti tracimati. La Brenta viaggia al contrario per 25 km. Il Piave è furibondo, mai visto il Piave così.
I corsi d’acqua minori sbracano, invadono le strade e le case troppo vicine. Acqua, fango e vento flagellano più di tutte la provincia di Belluno. Molti i comuni del Medio Alto Agordino pesantemente colpiti: Rocca Pietore, Alleghe, Cencenighe, Colle Santa Lucia, Livinallongo del Col di Lana, San Tomaso e Taibon, quest’ultimo ha appena perso 700 ettari di bosco per un incendio dovuto a temperature eccessivamente alte e vento. E poi il Comelico e il Cadore. Interi boschi del Cansiglio e del Feltrino rasi al suolo. Il bellunese che conoscevamo per averlo vissuto da vicino non esiste più, un prezioso patrimonio naturale e ambientale distrutto, la memoria cancellata.
Di giorno in giorno si comincia ad avere la percezione reale di cosa ha prodotto diffusamente un fatto climatico estremo. Perché, sì certo, è stato estremo: chi ha seguito i bollettini e le immagini radar ha visto l’ampiezza e l’intensità del mostro che si stava formando. Ma sbagliamo a pensare che estremo significhi eccezionale, cioè che possa capitare ‘eccezionalmente’. Forse un tempo era così, ora non più, ora parlano i fatti.
Negare i cambiamenti climatici è da dementi. Negare la complicità dei comportamenti umani e delle scelte politiche che assurdamente continuano a perseguire questo modello di sviluppo è irresponsabile e pericoloso.
I fenomeni sistemici complessi, com’è la biosfera, funzionano per progressioni esponenziali, funzionano con meccanismi come il collasso ad esempio. Per rallentare e invertire processi fisici e biochimici già ampiamente in atto, e in parte compromessi, bisognerebbe avere una prospettiva di almeno trenta/cinquant’anni. Gli scienziati ce ne danno dodici, che in questa materia vuol dire zero. Vuol dire adesso.
Secondo l’IPCC le emissioni di CO2 nette globali prodotte dall’attività umana dovrebbero diminuire di circa il 45 per cento rispetto i livelli del 2010 entro il 2030, raggiungendo lo zero intorno al 2050. “Limitare il riscaldamento a 1,5°C è possibile per le leggi della chimica e della fisica, ma richiederebbe cambiamenti senza precedenti”, dice Jim Skea, co-presidente del Working Group III.
Stiamo alimentando una progressione incontrollata di fenomeni climatici estremi e al contempo ci siamo resi vulnerabili con una gestione dei territori e degli ecosistemi scellerata: abbiamo una fragilità idrogeologica enorme, rischi sismici elevati, abbiamo distrutto interi ambiti di mitigazione. Continuiamo imperterriti a costruire, a impermeabilizzare i suoli, a disboscare, a occludere reti di scolo delle acque, a creare isole di calore con cemento e asfalto. Continuiamo a preferire le fonti fossili, a spolpare risorse dagli ecosistemi con mega estrazioni e mega infrastrutture, per mantenere una macchina di consumi insostenibile, globalmente e localmente.
L’11 ottobre a Padova è stato presentato il primo studio “Veneto Adapt – Central VENETO Cities netWorking for ADAPTation to Climate Change in a multi-level regional perspective”, progetto finanziato dal programma comunitario LIFE per circa 3 milioni di euro, che vede la collaborazione di numerosi e partner: dal Coordinamento Agende 21 Locali Italiane, all’Università Iuav di Venezia, alle principali istituzioni metropolitane. Si tratta di un’indagine sulla capacità adattativa locale rispetto ai rischi, specie quello idrogeologico, e l’analisi delle vulnerabilità del Veneto Centrale al cambiamento climatico.
È almeno dagli anni Settanta – dai tempi del Club di Roma, di cui ricorre il 50° anniversario della sua fondazione, ma ricordo anche la pietra miliare di Rachel Carson Primavera silenziosa del ‘62 – che scienziati, economisti e attivisti, diffondono studi e mettono in guardia sui pericoli concreti, sui processi suicidiche abbiamo innescato e che il pianeta non è in grado di sopportare. La questione è sistemica e globale, è in gioco la vita sul pianeta, e a nessun paese al mondo può essere concesso di fare ostruzionismo su scelte e politiche di sopravvivenza.
Perché un disastro sia tale ha bisogno di due fattori contemporaneamente: un evento violento e una vulnerabilità intrinseca strutturale. Si parla tanto di ‘resilienza’, quella che Carlo Infante chiama “intelligenza capace di rimodellarsi alla complessità degli eventi” [(Ri)generazioni urbane, in La nuova ecologia 2013] Ora gli eventi complessi e violenti ce li abbiamo. Non resta che usare questa ‘intelligenza’ e lavorare, rapidamente, sul rafforzamento della capacità di risposta di territori e persone. Questa, e solo questa ora, è l’assoluta emergenza, l’assoluta priorità.
Fonti:
Grazie a tutti gli amici che stanno lavorando, monitorando e informando
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