Tre anni fa, durante la COP26 ospitata a Glasgow, il ministro per la
Giustizia, le Comunicazioni e gli Affari Esteri di Tuvalu Simon Kofe decide di
videoregistrare il proprio intervento in mare: vestito in maniera
inappuntabile, in giacca e cravatta, ma immerso dalle ginocchia in giù nelle
acque che circondano lo Stato insulare polinesiano.
Da diversi anni, il villaggio costiero Sitio Pariahan,
situato nell’arcipelago delle Filippine e a nord della capitale Manila, affonda
nel mare di circa 4 centimetri ogni anno. La causa principale è la subsidenza
del suolo dovuta all'uso eccessivo delle acque sotterranee, ma a questo
problema si sovrappone l’innalzamento del livello dell’oceano che a Tuvalu,
come riporta la NASA, è oggi 1.5
volte più veloce della media globale. Le proiezioni indicano
che nei prossimi 30 anni il livello dell'oceano che circonda l’atollo di Funafuti,
la capitale di Tuvalu, potrebbe salire di quasi altri 30 centimetri, più di
quanto ha fatto negli ultimi 30 anni. Le proiezioni guardano al futuro, ma
intanto dovremmo occuparci del presente.
Nella mia testa sono queste le due immagini più utili per spiegare e
raccontare l’imbuto rovesciato che rappresenta gli effetti del cambiamento
climatico odierno: i Paesi che ne soffrono maggiormente gli impatti non sono in
alcun modo quelli che contribuiscono alla formazione del fenomeno.
La sommità dell’imbuto è stretta, rappresentata dai pochi Paesi che
contribuiscono a produrre la maggior parte dell’inquinamento e del
riscaldamento della temperatura media globale; la base è invece estremamente
larga e ci rientrano tutti i Paesi del terzo mondo – in particolar modo quelli
del Sud globale – che si affacciano sul mare. L’imbuto rovesciato racconta, in
maniera emblematica, l’enorme sproporzionalità che caratterizza il mondo
odierno, non solo se parliamo di clima e ambiente.
Come conferma anche il giornalista ambientale di Domani Ferdinando Cotugno
nel suo podcast Areale, i Paesi più sviluppati hanno ormai “occupato” il 92 per
cento dell’atmosfera attraverso il proprio sviluppo. Tra questi, Cina, Stati
Uniti e India sono i tre Paesi più inquinanti al mondo: da soli pesano per
oltre il 50 per cento delle emissioni annuali di CO₂ globali; la Cina, da sola,
apporta circa il 34 per cento dei milioni di tonnellate di CO₂ prodotte.
Questa sproporzione è visibile, ogni anno, anche attraverso l’andamento
delle COP, le Conferenze delle Parti sui cambiamenti climatici presiedute
dall’ONU: da anni, almeno dalla COP26 di Glasgow in poi, osserviamo le medesime
reazioni e analisi non appena si scioglie la seduta. Lo spirito di comunanza e
condivisione che aveva guidato la formulazione degli Accordi di Parigi del 2015
– il trattato che regola la riduzione globale delle emissioni di gas serra e
stipulato da 195 Paesi firmatari – sembra perdersi a ogni Conferenza che passa.
Mentre i grandi della Terra guardano ai propri interessi e giocano a
cambiare le carte in tavola – gli USA sotto la prima presidenza Trump si erano
ritirati dal trattato nel 2020, salvo poi rientrarci nel 2021 con Biden –, chi
esce costantemente penalizzato è il cosiddetto Terzo Mondo: l’agglomerato di
Paesi meno sviluppati dove gli effetti dei cambiamenti climatici sono più
tangibili.
Le ultime Conferenze sul Clima sono state progressivamente sempre più
stantie e deludenti, distanti dagli obiettivi globali prefissati a Parigi – il
contenimento dell’incremento della temperatura media globale a 1.5°C oltre i
livelli preindustriali – e dal fornire una voce concreta a chi, già oggi,
subisce i danni più feroci del riscaldamento climatico, a chi manifesta e si
batte per una giustizia climatica.
La COP27 si è tenuta a Sharm El Sheikh, in Egitto, dove il dissenso degli
attivisti sarebbe stato impraticabile. La COP28 ospitata a Dubai, nella culla
di combustibili fossili che contribuiscono in maniera decisiva al riscaldamento
del pianeta, è proseguita sul medesimo solco e così è stato anche con la COP29 di Baku,
in Azerbaigian. Lì, poche settimane fa, l’attivismo climatico è stato assente.
Le Conferenze annuali sembrano essere lo specchio di un dibattito sul clima che
si sta attorcigliando sempre più su sé stesso, distanziandosi dall’obiettivo
finale. Se nemmeno la terribile alluvione di Valencia, in uno dei Paesi
più avanzati del mondo, riesce a fornire un deciso e comune cambio di passo
nella lotta al riscaldamento climatico, che voce in capitolo possono avere i
Paesi che già da tempo osservano i suoi effetti più violenti?
Tuvalu,
stato insulare del Pacifico di soli 26 km² citato all’inizio della puntata, è
uno dei tanti Paesi attorniati dal mare e dove gli effetti del cambiamento
climatico saranno più catastrofici: entro il 2050 si
stima che la metà delle terre occupate dalla capitale Funafuti saranno sommerse
dall’acqua. Sempre nella stessa parte di mondo, le Isole Marshall hanno appena
progettato una maglia da calcio progettata per scomparire: si chiama
“No-Home 2030” ed è decorata con il numero 1.5, che rappresenta
il limite dell’aumento della temperatura media globale e il rischio di
scomparsa di questo arcipelago.
L’innalzamento
del livello dei mari, insieme agli eventi meteorologici sempre più frequenti e
violenti, sono il principale termometro – appunto… – di come il
clima stia mutando: oltre alle isole del Pacifico come Tuvalu e le Isole
Marshall, a farne le spese sarà anche l’intera area caraibica. Nelle Isole
Bahamas, per esempio, si stima che entro il 2050 il livello del mare si potrà
alzare di 32 centimetri se il riscaldamento climatico dovesse proseguire come
da previsioni.
Il peso di
Tuvalu, Isole Marshall e Bahamas sul totale delle emissioni globali prodotte è
più che risibile: non si avvicina neanche lontanamente all’1 per cento delle
emissioni di CO₂. Il medesimo discorso vale, ancor di più, per l’Africa: è il
continente più arretrato al mondo, quello che osserverà la crescita demografica
più significativa del secolo in corso e in cui i primi due Paesi per tonnellate
di CO₂ prodotte sono Egitto e Sudafrica. Sono due tra i Paesi più avanzati del
continente e apportano meno del 2 per cento delle tonnellate di emissioni di
CO₂ globali.
La disparità
climatica si contraddistingue per un vero e proprio imbuto rovesciato: il 19
Novembre 2000 da questa rappresentazione è nato il concetto di “Giustizia
Climatica”, durante il primo vertice denominato First Climate Justice Summit e
tenutosi in concomitanza con la COP6 ospitata a L’Aja.
La giustizia
climatica sembra un concetto sempre più distante dalla modalità con cui si
parla del cambiamento climatico e dall’atteggiamento con cui ogni anno quasi
tutti i Paesi mondiali si ritrovano nella Conferenza delle Parti. Da Baku, ad
esempio, i Paesi
africani sono usciti estremamente insoddisfatti per l’accordo
finale: il solo impegno delle nazioni più ricche – quelle che impattano
maggiormente sull’inquinamento di gas serra – a destinare almeno 300 miliardi
di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo è distante dalle reali e
complesse necessità della crisi climatica.
Emerge,
dall’ultima COP29, l’interesse individualista con cui ogni Paese affronta la
lotta al cambiamento climatico, con la stessa, apparente indifferenza che –
purtroppo – finisce per riversarsi sui singoli cittadini, granelli di un
ingranaggio globale attualmente poco efficace e, ancora, drasticamente
squilibrato.
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