venerdì 28 febbraio 2025

Le compensazioni di carbonio delle grandi aziende sono una truffa? – Andrea degl’Innocenti

Molte aziende compensano le proprie emissioni di CO2 finanziando progetti di conservazione delle foreste. Eppure secondo un’indagine condotta dal Guardian assieme a Die Zeit e SourceMaterial questi crediti comprati dalle aziende sarebbero in realtà fuffa al 94%.

SHELL E CARBON OFFSETTING

Oggi voglio aprire questa rassegna con una notizia di cui sui nostri giornali non troverete traccia o quasi. La notizia è che una nuova inchiesta sta facendo tremare alle fondamenta il sistema di compensazione delle emissioni di CO2. In pratica, uno dei principali strumenti che stiamo utilizzando, a livello globale, per affrontare la sfida della crisi climatica, è perlopiù fuffa, se non addirittura truffa. Direi che è una notizia importante. 

L’indagine è durata nove mesi, a proposito dei tempi del giornalismo investigativo di cui parlavamo mercoledì riguardo all’arresto di Messina Denaro, ed è stata condotta dal Guardian, dal settimanale tedesco Die Zeit e da SourceMaterial, un’organizzazione no-profit di giornalismo investigativo. Provo a raccontarvela seguendo il lungo articolo del Guardian scritto da Patrick Greenfield.

Innanzitutto, di cosa stiamo parlando? Parliamo di compensazioni di carbonio basate sulla conservazione delle foreste. Le aziende hanno 3 modi per dire che stanno diventando sostenibili. Il primo è diventarlo davvero, smettendo di inquinare, il secondo è acquistare crediti di carbonio sul mercato, il terzo è acquistare carbon offsetting ovvero compensazioni del carbonio.  

In pratica sono degli altri crediti che vanno a finanziare progetti che, si presume, toglieranno CO2 dall’atmosfera. Quindi, ipersemplificando, se un’azienda inquina cinquanta, paga me per piantare una serie di alberi che stimo assorbiranno 10, l’azienda nel suo bilancio del carbonio potrà dire di aver inquinato 40. Chiaro, più o meno?

Uno di questi metodi è finanziare progetti di conservazione delle foreste pluviali. Che già qui la cosa inizia un po’ a scricchiolare: io pago qualcuno per impedire che una foresta (che ne so, l’Amazzonia, venga disboscata), poi calcolo quanta CO2 assorbirà quel pezzo di foresta di cui ho impedito la distruzione e faccio scalare quella CO2 risparmiata dalle emissioni dell’azienda finanziatrice. Capite già che è difficile calcolare quanta foresta sto effettivamente proteggendo, dovremmo avere accesso all’universo parallelo in cui non la sto proteggendo e vedere che succede.

Ma vabbè, proseguiamo. Ora, le aziende non si interfacciano direttamente con le associazioni o le organizzazioni che fanno i progetti. No, ci sono delle aziende il cui lavoro è proprio certificare questi progetti e poi metterli in un database in cui le aziende vanno a scegliere a seconda di quanto vogliono compensare. 

La più grande azienda di questo genere è Verra. Ed è proprio su questa organizzazione che si è basata l’inchiesta in questione. Che ha scoperto in base all’analisi di una percentuale molto significativa di progetti, che circa il 94% dei crediti di compensazione della foresta pluviale sono probabilmente “crediti fantasma” e non rappresentano vere riduzioni di carbonio. Il 94%. È una roba enorme. 

“L’analisi – scrive Greenfield – solleva dubbi sui crediti acquistati da alcune aziende di fama internazionale – alcune delle quali hanno etichettato i loro prodotti come “carbon neutral”, o hanno detto ai loro consumatori che possono volare, comprare nuovi vestiti o mangiare certi cibi senza peggiorare la crisi climatica. 

Gucci, Salesforce, BHP, Shell, easyJet, Leon e la band Pearl Jam sono tra le decine di aziende e organizzazioni che hanno acquistato compensazioni per la foresta pluviale approvate da Verra per le dichiarazioni ambientali.

L’inchiesta si è basata su due studi scientifici e su decine di interviste e reportage sul campo con scienziati, addetti ai lavori e comunità indigene. I risultati – che sono stati fortemente contestati da Verra – potrebbero porre seri interrogativi alle aziende che dipendono dalle compensazioni come parte delle loro strategie net zero.

Verra, che ha sede a Washington DC, gestisce una serie di standard ambientali molto usati per l’azione sul clima e lo sviluppo sostenibile, tra cui il suo standard di carbonio verificato (VCS) che ha emesso più di 1 miliardo di crediti di carbonio. Approva tre quarti di tutte le compensazioni volontarie. Il suo programma di protezione delle foreste pluviali costituisce il 40% dei crediti approvati ed è stato lanciato prima dell’accordo di Parigi con l’obiettivo di generare entrate per la protezione degli ecosistemi.

Verra sostiene che le conclusioni raggiunte dagli studi non sono corrette e mette in dubbio la loro metodologia. E sottolinea che il loro lavoro dal 2009 ha permesso di convogliare miliardi di dollari verso il lavoro vitale di conservazione delle foreste.

Secondo i due studi, però, solo una manciata di progetti di Verra sulle foreste pluviali mostra prove di riduzione della deforestazione, e ulteriori analisi indicavano che il 94% dei crediti non aveva alcun beneficio per il clima.

Secondo l’analisi di uno studio dell’Università di Cambridge del 2022, la minaccia alle foreste è stata sovrastimata in media del 400% per i progetti Verra.

Due diversi gruppi di scienziati – uno con sede a livello internazionale e l’altro a Cambridge, nel Regno Unito – hanno esaminato un totale di circa due terzi degli 87 progetti attivi approvati da Verra. Un certo numero di progetti è stato escluso dai ricercatori quando hanno ritenuto che non fossero disponibili informazioni sufficienti per valutarli in modo equo. I due studi del gruppo internazionale di ricercatori hanno rilevato che solo otto dei 29 progetti approvati da Verra, per i quali era possibile effettuare ulteriori analisi, mostravano prove di significative riduzioni della deforestazione.

21 progetti non avevano alcun beneficio per il clima, sette avevano un impatto tra il 98% e il 52% in meno rispetto a quanto dichiarato con il sistema Verra e solo uno aveva un impatto superiore dell’80%, ha rilevato l’indagine.

Mi hanno colpito anche le parole di Barbara Haya, intevistata dal giornalista. Haya p la direttrice del Berkeley Carbon Trading Project e ha condotto ricerche sui crediti di carbonio per 20 anni, nella speranza di trovare un modo per far funzionare il sistema. Ha dichiarato: “Le implicazioni di questa analisi sono enormi. Le aziende utilizzano i crediti per dichiarare di aver ridotto le emissioni quando la maggior parte di questi crediti non rappresenta affatto una riduzione delle emissioni.

“I crediti per la protezione delle foreste pluviali sono il tipo più comune sul mercato al momento. E sta esplodendo, quindi questi risultati sono davvero importanti. Ma i problemi non sono limitati a questo tipo di crediti. I problemi esistono per quasi tutti i tipi di credito.

“Una strategia per migliorare il mercato è quella di mostrare quali sono i problemi e costringere i registri a rendere più severe le loro regole in modo che il mercato possa essere affidabile. Ma sto iniziando a rinunciare a questa possibilità. Ho iniziato a studiare le compensazioni di carbonio 20 anni fa, studiando i problemi dei protocolli e dei programmi. Eccomi qui, 20 anni dopo, a fare la stessa conversazione. Abbiamo bisogno di un processo alternativo. Il mercato degli offset è rotto”.

Sono parole che pesano come macigni, perché pronunciate da chi ha provato con tutta se stessa a far funzionare questo sistema. Che non sta funzionando. Per niente. Ora, non è che sia esattamente una novità. Più o meno questa cosa si sapeva già. Però le dimensioni del problema sono impressionanti e soprattutto uno studio, un’inchiesta, sono qualcosa di molto più sostanzioso di qualche sospetto o un po’ di casi isolati. 

Ora dobbiamo capire se i governi e le aziende saranno disposti a cambiare radicalmente questo sistema per cercare di affrontare il problema davvero oppure preferiranno far finta di niente e continuare a dire che lo stanno affrontando, e che formalmente, nei conti, va tutto bene. 

Restando sul Guardian e restando su questo caso, un altro articolo a firma sempre di Patrick Greenfield assieme ad Alex Lawson prende in esame un caso specifico, quello di Shell, per vedere le dimensioni del problema. 

Secondo quanto dichiarato da un rappresentante della stessa azienda al Guardian, Shell, una delle cinque maggiori compagnie petrolifere del mondo,avrebbe messo da parte più di 450 milioni di dollari da investire in progetti di compensazione delle emissioni di anidride carbonica e prevede di acquistare ogni anno l’equivalente della metà dell’attuale mercato delle compensazioni naturali.

In pratica quasi tutta la strategia net zero di questa azienda, o perlomeno, un’ampia fetta, si basa sulla compensazione, che non funziona. Il fatto è che la compensazione è comoda, non richiede cambiamenti strutturali. Shell, come tutte le compagnie petrolifere, non potranno mai essere sostenibili. Semplicemente, a un certo punto, dovremo decidere che non esistono più. Quindi o si riconvertono in qualcosa di completamente diverso, o smettono di esistere. Ed è complicato prendere questa decisione, in questo sistema. Di certo non lo faranno i mercati, non la possono “prendere” i mercati. Ma è anche molto difficile che la prenda la politica, perlomeno finché stiamo all’interno di questo modello di democrazia, basato sul voto, sui concetti di maggioranza e minoranza e così via. 

FILENI, IL BIO, LE B-CORP

A proposito di ciò, mi viene in mente anche un’altra storia, un’altro scandalo emerso nei giorni scorsi, questa volta una questione italiana che però anche qui riguarda (anche se meno direttamente) i sistemi di certificazione. Parlo dello scandalo che ha travolto l’azienda Fileni a seguito della puntata dedicatagli da Report. Fileni che, oltre a essere uno dei colossi nell’allevamento e la vendita di polli ha – a proposito di certificazioni – sia il marchio bio che quello di B-corp.

Provo a riassumervi in breve la questione. In un lungo servizio andato in onda il 9 gennaio a firma di Giulia Innocenzi gli allevamenti della Fileni vengono accusati, immagini alla mano, di non rispettare molti degli obblighi per potersi fregiare del marchio bio. Attraverso immagini riprese di nascosto dalla Lav, associazione in difesa degli animali, vengono mosse pesanti accuse: operatori che abbattono polli perché non abbastanza cresciuti, animali sempre chiusi all’interno degli stabilimenti senza il rispetto del normale ritmo circadiano e alimentati con mangimi contenenti OGM. Insomma, ciò che viene descritto parla di azioni cruenti e crudeli, consumate negli stabilimenti di Monte Roberto, Ripa Bianca e Borghi, nei territori tra Marche e Romagna.

Altra questione sollevata dalla trasmissione TV riguarda i broiler, un tipo di pollo che arriva ad avere un petto di dimensioni così grandi da impedirgli di stare in piedi. Secondo l’associazione animalista Fileni non rispetterebbe i termini per la denominazione bio in virtù del fatto che questi polli non possono essere certificati come tali.

Insomma, Fileni ne è uscita a dir poco malissimo, è stata attaccata dai piccoli produttori marchigiani, messa sotto inchiesta dalla Procura di Ancona, Massimo Fileni si è autosospeso da AssoBio e così via.

Comunque, al di là di questo caso, questo è l’ennesima prova che i sistemi di certificazione funzionano fino a un certo punto. Per quanto siano elaborati, fatti bene, stringenti – e quello di B-corp è un sistema comunque piuttosto studiato ed elaborato – sono comunque e inevitabilmente superficiali. Poi possiamo dirci meglio che ci siano, che sono comunque uno stimolo a fare meglio, ma difficilmente garantiscono una sostenibilità strutturale.

Il fatto è che le prime certificazioni (tipo quella di biologico) erano molto semplici. Poi a un certo punto ci si è accorti che non funzionavano e molti baravano, puntavano a prendere il bollino solo per questioni di marketing e di marcato ma facevano il minimo sforzo possibile, e se possibile provavano ad imbrogliare, per continuare a massimizzare il profitto. 

Allora le certificazioni che sono arrivate dopo, sono diventate via via più severe, basandosi sugli errori delle generazioni precedenti. Solo che nel frattempo le aziende in cattiva fede hanno studiato nuovi modi per aggirarle. In un processo potenzialmente infinito. Insomma, non possiamo aspettarci che la transizione ecologica, quella vera, arrivi attraverso (o solo attraverso) le certificazioni. Non c’è modo di bypassare una profonda trasformazione dei nostri sistemi, purtroppo. O per fortuna.

da qui

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