“A determinate condizioni”. Lo scontro ideologico sul suicidio assistito, rinfocolatosi dopo il varo della legge regionale in Toscana, si gioca tutto in queste tre parole. È l’espressione usata dalla Corte Costituzionale nella pronuncia 242/2019, che ammette la possibilità di autosomministrazione di un farmaco letale nei casi che prevedano quattro requisiti: patologia irreversibile, dipendenza da macchine di sostegno vitale, sofferenze ritenute intollerabili e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli da parte del paziente. Con un’altra sentenza più recente, la 135/2024, i supremi giudici hanno chiarito che non spetta a loro, ma al legislatore decidersi una buona volta a disciplinare una materia così irta di dilemmi etici e giuridici. La difficoltà risiede infatti nel contemperare diritti e doveri in contrasto. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività… Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’articolo 32 della Costituzione pone da un lato il dovere di tutela della dignità umana e dall’altro, con il rifiuto di sottoporsi alle cure, il diritto all’autodeterminazione individuale. Le leggi, come ognun sa, servono appunto a mediare punti di vista in contrapposizione. Ma la mediazione su temi come la malattia, il dolore e la morte non trova spazio. E si capisce il perché.
Da una parte
ci sono i cattolici e la Chiesa, contrari in assoluto e per principio. Qualcuno
accusa l’attuale pontificato di José Maria Bergoglio di cedere al laicismo e al
nichilismo dilaganti su vari fronti, compresi i problemi bioetici. Il silenzio
di questi giorni delle alte gerarchie vaticane potrebbe suffragare il sospetto.
Ora, a parte il fatto che la Conferenza Episcopale toscana si è precipitata a
condannare, l’ultimo documento ufficiale, compilato dalla Congregazione della
Fede (il vecchio Sant’Uffizio), pare tutt’altro che ambiguo: “È proprio della
Chiesa”, si legge nella Samaritanus Bonus del 2020, “accompagnare con
misericordia i più deboli nel loro cammino di dolore, per mantenere in loro la
vita teologale e indirizzarli alla salvezza di Dio. … sopprimere un malato che
chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e
valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua
libertà. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte. Per questo,
l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario guastano la civiltà
umana”. Come si vede, la Santa Madre Apostolica e Romana non distingue e mette
tutto assieme in un unico anatema: suicidio (volontario, ergo anche assistito),
eutanasia (che è un’altra cosa, come vedremo) e, onde evitare dubbi, anche
l’aborto, che è un’altra cosa ancora. In un’ottica teologica, la coerenza c’è:
se la vita, e dunque la morte, appartiene a Dio, solo Dio può decidere il
momento di far calare la falce.
Sull’altro
lato della barricata i laici di vario orientamento stabiliscono come valore
insindacabile la libertà dell’individuo di disporre della propria esistenza. In
prima linea, com’è noto, ci sono gli sparuti radicali dell’Associazione Luca
Coscioni, e a seguire la sinistra genericamente intesa. Ma la sensibilità
favorevole è trasversale (così come quella ostile: tutta l’ala cattolica del
Partito Democratico, ad esempio). Nel centrodestra, a intestarsi la battaglia
pro suicidio assistito contro il suo stesso partito, la Lega, è il presidente
del Veneto Luca Zaia. “La richiesta dei malati terminali”, ha dichiarato, “è
una scelta intima e personale… che a un certo punto non ha più a che fare col
dolore insopportabile, ma con la dignità della condizione di quell’ultima fase
della loro vita” (Repubblica, 14/2/2025). Fratelli d’Italia, per bocca di Elena
Donazzan, lo ha accusato di “fare speculazione per fini elettorali”. Il
riferimento è alla partita fra alleati per decidere chi sarà il candidato a
succedergli alla guida della Regione alle prossime amministrative. Strumentale
o no, la posizione di Zaia coglie il punto decisivo: il rapporto con il dolore,
prima ancora che con la morte.
I cattolici,
nel sostenere la tesi che la vita è inviolabile nel suo decorso “naturale”,
insistono molto sul diritto-dovere della cura. Si affidano alla Speranza e,
soprattutto, alla compassione con la quale i malati terminali vanno assistiti,
come detto, “nel loro cammino di dolore”. Ma quando un povero cristo (si
parva licet) sopravvive solo grazie a un macchinario, obbligarlo a restare
in quello stato non è sacralizzare la vita: è far trionfare la Tecnica. A
chiarirlo è stato un filosofo di sicura fede cattolica, Giovanni Reale: “La
vita è indisponibile per l’omicidio e il suicidio… deve essere indisponibile
anche nei confronti dell’accanimento terapeutico e della tecnica invasiva alla
fine della vita, quando di vera vita ormai non ce n’è più” (G. Reale, U.
Veronesi, Responsabilità della vita. Un confronto fra un credente e un
non credente, Bompiani 2013). Lasciando al morituro la facoltà di stabilire
se e quando staccare la spina, il medico prende atto del suo rifiuto a
continuare una vita artificiale e gli restituisce esattamente il diritto alla
morte naturale invocato dai cattolici. È curioso che questi ultimi, e in specie
quelli più accaniti nel denunciare il falso progresso distruttore dei “valori”,
non si avvedano della contraddizione. Ma conosciamo la possibile replica:
promuovere il suicidio in tutte le sue forme significa alimentare la “cultura
della morte” (Giovanni Paolo II), la “cultura del relativismo” (Benedetto XVI),
la “cultura dello scarto” (Francesco). In particolare, la contro-accusa dei
“pro-vita” investe l’ideologia liberal-liberista, secondo la quale un individuo
ridotto a vegetare, non essendo più produttivo per la società di mercato,
rappresenterebbe un peso morto che conviene eliminare. Una sorta di eugenetica
su basi non razziali, come durante il nazismo, ma economiche.
Sarebbe
facile ribattere a nostra volta sorridendo sul pulpito dal quale viene la
predica: non risulta tutta questa animosità per gli effetti disumanizzanti
delle pratiche liberiste, quando si parla di disoccupazione, precarietà e povertà.
Non, almeno, da parte dei più feroci avversatori della “barbarie” bioetica,
generalmente posizionati a destra dell’emiciclo politico e culturale.
Bergoglio, per lo meno, è dichiaratamente anti-liberista sempre, e in ogni
circostanza. Per rendersene conto basta leggersi le sue encicliche (che in
certi passaggi sembrano trattati di sociologia). Ma è proprio l’argomentare dei
buoni samaritani, a non reggere. Prima di tutto, e chiedendo venia per il
cinismo del ragionamento, si dovrebbe sapere che il mercato esige anzitutto
consumatori, non produttori. Certo, un infermo inchiodato a letto non
contribuisce alla giostra dei consumi come un sano, vittima ideale a cui
succhiare quattrini con i mille bisogni indotti dall’inesauribile fabbrica di
merci. Ma che sia steso in un ospedale o a casa con la badante (pardon,
“caregiver”), un valore economico, sia pur ridotto, ce l’ha. In secondo luogo,
e ancor più abbassandoci nella cinica ma doverosa constatazione, veicolare il
messaggio per cui l’amore deve vincere su tutto e va quindi elevato a obbligo
giuridico, è un sostegno all’illusione di poter opporsi alla morte. La morte è
la grande scomunicata del mondo moderno: rimossa, minimizzata, o a volte al
contrario spettacolarizzata (gli applausi ai funerali…), si cerca in tutti i
modi di “neutralizzarla”. Ma, purtroppo, si muore lo stesso. È umano e di ogni
tempo il tentativo di ridurre l’angoscia che provoca. Com’è umanissimo e senza
tempo il bisogno di trovare palliativi al soffrire. Quel che non è umano, e che
è fattibile soltanto oggi grazie all’evolversi della tecnologia, è forzare chi
sia oramai spacciato a dilazionare all’infinito il giorno del dunque, perché si
scambia la vita “naturale” con l’accanimento tecnologico.
I cattolici,
però, hanno ragione quando affermano che non esiste un diritto all’eutanasia.
Perché qui si esce dall’ambito del suicidio e si entra nella fattispecie dell’omicidio,
sia pur del consenziente. Per cui, colui che sia colpito da malattie o disagi,
anche solo psichiatrici ma in ogni caso privi di prospettive di miglioramento,
chiede di essere ucciso dal medico (o di essere assistito nel sopprimersi).
Nell’eutanasia manca, o non è necessario, l’elemento centrale della dipendenza
dalle macchine. È sufficiente farsi certificare una patologia mortale che causi
mali o menomazioni insopportabili. E si può arrivare agli estremi della
modernissima e liberale Olanda in cui, previo consenso dei genitori, è ammessa
anche per i minori di 16 anni. E infatti, prendendo quello olandese a
esempio-limite, su questo versante hanno torto i laici, a fondare la loro
intera visione sulla pura e semplice autonomia decisionale del singolo. Non è
una questione di modernità o di allargamento di diritti (che messi in capo al
soggetto individuo slegato da ogni dovere, possono prendere derive mostruose).
Anzi, personalmente non troverei scandaloso confrontarsi sui limiti del
suicidio assistito, purché resti tale e non diventi omicidio, anche
consensuale. Il discrimine sta nell’uccidere o nell’uccidersi. Uccidere è inammissibile
e deve restare un divieto. Uccidersi, invece, non è un reato, e non dovrebbe
essere neanche una colpa. Semplicemente e tremendamente – e da ben prima che
venissero all’onor del mondo i cattolici o i liberali – la morte è sempre e
solo la propria morte. È l’esperienza liminale per eccellenza:
non si può condividere. Pertanto nessun altro può arrogarsi il diritto di
decidere, in un senso o in un altro, al posto del diretto interessato. Solo
lui, anche con l’aiuto medico, può materialmente infliggersela, purché se ne
assuma in toto la responsabilità. Per questo la dignità della vita dovrebbe
includere anche la dignità della morte. Perché la morte fa parte della vita.
Con buona pace dei cosiddetti pro-vita.
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