Da 30 anni e
29 Conferenze
sul clima si discute a livello globale dell’urgenza di
affrontare la crisi climatica. Da allora le emissioni di gas serra sono
continuate ad aumentare, nell’atmosfera le parti per milione di CO₂ sono
passate da 360 a quasi 426, l’intensità di ondate di calore, incendi, uragani e
alluvioni è cresciuta in maniera spaventosa, molti ghiacciai perenni hanno
smesso di essere perenni e, anzi, stanno scomparendo.
E però, da
allora, sono anche state trovate soluzioni sempre più realistiche, sempre più a
basso costo, sempre meno impattanti. Le tecnologie per l’energia eolica e
solare si sono affinate a una velocità inizialmente impensabile. Oggi coprono
il 30 per cento del fabbisogno
europeo contro il 27 per cento delle fonti fossili e stanno
diventando molto più convenienti di queste ultime.
Ma c’è anche
un’altra cosa. Da allora, chi di noi ha provato a immaginarlo, questo mondo
libero dal fossile ha iniziato anche a desiderarlo. A prescindere dalla crisi
climatica. Semplicemente perché sarebbe un mondo migliore: meno inquinato ma
anche meno diseguale, meno centralizzato, meno estrattivista, meno coloniale.
Anche più sicuro, pulito, rilassato, verde. In questo mondo le automobili
magari ci sarebbero lo stesso, ma pochissime. Si userebbe l’auto privata solo
nelle aree interne dove non se ne può fare a meno, mentre nelle città sarebbero
solo in sharing, ci si muoverebbe in bici, a piedi e con mezzi pubblici
elettrici: ci sarebbe molto più spazio, meno cemento e l’aria sarebbe più
piacevole da respirare. In questo mondo le automobili restanti però, oltre a
essere elettriche, dovrebbero anche essere poco costose, e poco impattanti
dall’inizio alla fine del loro ciclo. Possibile?
Possibile.
Anzi, già esiste una tecnologia che lo permette, solo che non se ne parla
abbastanza. Sulle ragioni per cui non se ne parla abbastanza torneremo più
avanti. Intanto, di cosa si tratta?
La materia
prima è una delle risorse più abbondanti, diffuse e facilmente reperibili del
pianeta e sarebbe veramente difficile finirla: il sodio. In altre parole, il
sale marino. Ce l’hanno non proprio tutti gli stati del mondo ma una larga
maggioranza, di sicuro tutti i continenti. Per estrarlo una volta si usavano
vento e sole: asciugavano l’acqua, rimaneva il sale. Ora ci sono i dissalatori,
con cui si ottengono sia acqua potabile sia una melassa di sale da cui si
estrae sodio. Due piccioni con una fava, verrebbe da dire.
Ecco: con il
sodio si possono fare le batterie. Le batterie agli
ioni di sodio, oltre al sale marino come base principale, si legano
a materiali facilmente reperibili: il manganese, lo stagno per aumentare la
potenza, l’alluminio come collettore di corrente. Si prevede che arriveranno
presto a costare meno della metà delle batterie agli ioni di litio. Queste
ultime hanno bisogno di materiali particolarmente critici o strategici, tutti
inseriti ai primi posti del Critical Raw
Material Act, l’elenco stilato dalla Commissione europea per
classificare i materiali in base a rischi, difficoltà e costi di
approvvigionamento. Contengono infatti elettrodi di nichel e cobalto, rame,
silicio. Molti di questi, litio compreso, vengono dalla Cina o da miniere in
Africa o Sud America, spesso già controllate dalla Cina. Inoltre, la loro
estrazione comporta profondi danni alle popolazioni locali: perdita di
giurisdizione sul proprio territorio e sulle proprie risorse, inquinamento
delle falde acquifere e del terreno, carenza d’acqua, degrado ambientale.
Per ottenere
il sodio non c’è bisogno di nulla del genere. Lo hanno tutti, quindi non serve
andare così lontano né accaparrarsi risorse altrui. Non necessita di processi
di estrazione complicati e inquinanti, non ha nemmeno bisogno di essere
trasportato da una parte all’altra del pianeta, anzi permetterebbe molto più
facilmente lo sviluppo di un’industria locale su piccola scala. È quel
materiale meno inquinante, meno estrattivista, meno coloniale di cui avevamo
bisogno.
Un difetto
c’è. Ha una densità di potenza minore rispetto al litio. In altre parole: nello
stesso spazio, il sodio produce una quantità di potenza minore. Questo vuol
dire che col sodio non si possono fare gli smartphone, i pc, i tablet: tutti
quegli oggetti che devono essere piccoli e pesare poco. Ma ovviamente la
quantità di litio che serve per un telefono è minima rispetto a quella necessaria
per un’automobile, o un autobus, o un camion elettrico.
E qui
veniamo al punto. Con le batterie agli ioni di sodio si possono fare
fondamentalmente due cose. Innanzitutto le batterie di accumulo per stoccare
l’energia elettrica prodotta da solare e fotovoltaico. E poi le automobili, e
questa è una rivoluzione.
Vuol dire
avere automobili utilitarie a prezzi bassi, non più di lusso ma accessibili a
tutti. Si ricaricano più velocemente, durano più a lungo, si riciclano più
facilmente. Potrebbero essere un po’ meno performanti e quindi percorrere meno
chilometri. Ma se pensiamo a che passi avanti enormi si sono fatti con il litio
negli scorsi anni, la capacità evolutiva che abbiamo di fronte è immensa.
Infatti le
auto con batterie al sodio in Cina esistono già e sono in commercio da poco più
di un anno. Fra le prime c’è stata la Yiwei 3,
uscita a gennaio 2024 e prodotta da Jac, azienda partecipata al 75% da
Volkswagen. Costa 11.500 euro ed è già stata esportata in Centro e Sud America.
Anche in Europa molto timidamente qualcosa si muove: Stellantis per esempio ha
cominciato a investire nel
settore come ramo strategico di un’azienda francese, Tiamat,
impegnata a sviluppare questa tecnologia. Eppure se ne parla pochissimo, si
nomina a stento. E dire che proprio l’Italia – e in generale l’Europa – di
sodio ne avrebbe tantissimo, essendo letteralmente circondata dalla più grande
miniera di sodio: il mare.
C’è qualcosa
di strano nel fatto che una tecnologia come questa non sia sulla bocca di
tutti. I vantaggi sono evidenti, su tutti i piani: sociale, ambientale, etico e
geopolitico. Sul piano sociale, perché se costa poco è inclusiva. Ambientale ed
etico, per il basso impatto e perché riduce il problema dell’accaparramento
delle risorse. Geopolitico, perché vuol dire non dipendere da chi detiene
direttamente o indirettamente una data risorsa (di solito, la Cina). Non solo:
il processo di produzione è molto simile a quello delle altre batterie, quindi
convertire la produzione non sarebbe poi così difficile. E allora perché non se
ne parla?
Le questioni
sono essenzialmente due, collegate tra loro e altrettanto problematiche.
Da un lato
le aziende coinvolte nell’estrazione, produzione e raffinamento del litio hanno
tutto l’interesse a spingere sullo sviluppo e l’adozione di batterie al litio,
e lo stesso vale per gli attori che si occupano dell’estrazione degli altri
metalli rari coinvolti. Al contrario, il sodio non richiede concessioni. Non è
concentrato, non ci sono miniere. Quando un bene è troppo comune, il suo valore
è basso e chi vuole gestire il mercato delle batterie non ha interesse a
vederne scendere il prezzo.
Dall’altro
lato, se si è sempre stati abituati a ragionare su rapporti di forza che si
basavano sull’accaparramento delle risorse, una materia prima che non
rispecchia questo modello interessa poco. La maggior parte degli equilibri (e
ora soprattutto disequilibri) geopolitici è basata sull’economia
dell’estrattivismo, e il sodio ne è fuori. L’economia di mercato è fatta così:
non tiene conto dei beni comuni. Insomma, del sodio si parla poco perché può
creare benessere, indipendenza energetica, anche competitività, ma non grandi
profitti, non monopoli, non potere.
In Sicilia
nel XVI secolo re Carlo V d’Asburgo fondava il proprio impero sulle saline: con
la stessa quantità di sale prodotta da lui allora, oggi si potrebbero produrre
venti milioni di macchine, come racconta il chimico industriale dell’Università
di Bologna Leonardo
Setti. Sarebbero la metà dell’attuale parco auto italiano.
Nel mondo
senza fossile che immaginiamo non ne vorremmo così tante, ne basterebbero molte
meno: quel sodio potremo destinarlo alla mobilità pubblica, e intanto avere
acqua potabile proprio in Sicilia, dove già ora scarseggia. Se ragionassimo in
termini di vantaggi per tutti e non per poche aziende interessate, sarebbe
molto semplice. Immaginare le cose aiuta a renderle possibili e per questo
dovremmo parlare più spesso del sodio: renderebbe più concreta la visione di un
mondo meno inquinato, meno diseguale, meno centralizzato, meno estrattivista,
meno coloniale. Insomma, migliore.
Caterina Orsenigo è
scrittrice e giornalista. È laureata in filosofia a Milano e in letterature
comparate a Parigi. Scrive di immaginari e crisi climatica per diversi giornali
e riviste. Con Prospero Editore ha pubblicato il romanzo di viaggio “Con tutti
i mezzi necessari”. Organizza passeggiate letterarie con l’associazione
Piedipagina e fa parte del comitato organizzativo del corso di perfezionamento
in Ecosocialismo dell’Università Bicocca.
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