mercoledì 4 dicembre 2024

Salva Milano”, sfascia il Paese - Paolo Pileri(*)

  

Sulla leggina ad urbem che affossa ciò che resta dell’urbanistica.
Il partito del cemento è uscito allo scoperto. E non poteva scegliere data migliore per farlo: la Giornata nazionale degli alberi, lo scorso 21 novembre.

D’altronde, perché parlare di Piani del verde comunali (peraltro non obbligatori in Italia, vergognoso) o di alberi a Milano, quando c’è da salvare torri di cemento cresciute più veloci dei platani e aprire nuove possibilità di deregolamentazione urbanistica?


Il 21 novembre è andato in scena, nel nostro teatrino parlamentare, il dibattito per il cosiddetto provvedimento “Salva Milano”, la leggina ad urbem che affossa quel che rimane della pianificazione urbanistica lasciando pieno campo alla legge della rendita (vuoi immobiliare, vuoi fondiaria). Il tutto al cospetto pure di alunne e alunni invitati in Parlamento per un giorno. Future generazioni che al ritorno a scuola, scrivendo il loro tema sulla giornata in Parlamento, citeranno il “Salva Milano”. Rendiamoci conto.

Veniamo però ai fatti. Da anni il Comune di Milano rilascia ardite autorizzazioni edilizie per fare torri, condomini, grattacieli nei cortili o laddove prima c’erano due magazzini, una palazzina o un deposito. Il tutto interpretando a modo suo la legge urbanistica nazionale e dilatando il concetto di ristrutturazione così da sostituire un piccolo volume preesistente con un condominio, rinunciando pure a incassare un bel po’ di oneri di urbanizzazione che servono a fare opere per tutti.

D’altronde da circa vent’anni Milano e i suoi sindaci hanno imboccato la strada pericolosa del cemento impegnandosi con tutto loro stessi a innalzare il più possibile i valori immobiliari. Per loro il principio a cui conformare il governo del territorio è l’attrattività (per cittadini ben paganti, ovvio). Attrattività è la parola che piace a destra come a sinistra e, infatti, i parlamentari la citavano con gran profusione quel 21 novembre.

Nel caso di Milano molta dell’attrattività l’hanno pagata tutti gli italiani perché tutti hanno contribuito a Expo 2015, alle Olimpiadi 2026, alla privatizzazione degli scali ferroviari, alle nuove Metropolitane e a tanto altro fatto con soldi pubblici non solo milanesi e non solo lombardi.

Quell’attrattività è fondata su un modello di vita urbana molto esclusivo e disegnato tutto addosso a una idea di felicità privata dove quel che conta è quel che possiedi, dove abiti, chi frequenti, quanti apericena fai alla settimana, se hai la palestra e il giardino in condominio, se hai la colonnina per la ricarica dell’auto elettrica, se hai soldi per pagarti la piscina pubblica nel frattempo trasformata in una location glamour per spritz-man, etc..

Ma chi l’ha stabilito poi che quella attrattività è cosa buona e giusta e, tanto meno, l’immagine della sostenibilità? E così, a furia di cemento, torri, grattacieli e archistar l’ultima Giunta ha oltrepassato quel poco di buon senso urbanistico che rimaneva ancora, decidendo che la ristrutturazione e la rigenerazione urbana fossero quella roba secondo la quale al posto di un piccolo magazzino artigianale posto in un cortile, si poteva allegramente costruire un condominio a torre da decine e decine di appartamenti da vendere dai seimila euro al metro quadrato in su.

Ma questa non è la Milano che tutti vogliono, con buona pace del sindaco, della sua giunta e dei tanti parlamentari che li sostengono (da tempo). E così qualcuno ha iniziato a dubitare e denunciare. Sono partite le inchieste ed eccoci qua nel pieno di un casino imbarazzante fatto già di mezze torri vendute, davanti alle quali schiere di parlamentari di destra e sinistra si danno da fare come matti per mettere una pezza (che io chiamerei condono, ma loro chiamano interpretazione autentica della legge urbanistica nazionale).

E la pezza, come tradizione vuole, è peggio del buco perché si vara una norma per mettere fuori legge l’urbanistica ovunque. In buona sostanza d’ora in poi la volumetria di un box potrà diventare quella di una palazzina. Quella di una palazzina di un condominio, e così via. Il tutto versando solo pochi denari al Comune, del tutto insufficienti a garantire quel minimo di servizi pubblici necessari per compensare l’aumento del numero di cittadini.

La vicenda è già sufficiente per vergognarsi di quel che hanno fatto a Milano e stanno facendo in Parlamento, da destra e sinistra. Ma oggi siamo nel 2024. E ha fatto bene qualche parlamentare a ricordarlo, ma non certo per mettere mano all’urbanistica affossandola.

Si è appena conclusa una fallimentare Cop29 dove si è ricordato che il 2024 è stato un anno pessimo e la politica non è stata capace di fare nulla a beneficio del clima. Pertanto i parlamentari che invocano il 2024 dovrebbero invocare lo stop alla crescita compulsiva delle città, ancor più se quella crescita la sfigura, si fonda sulla deregulation urbanistica e sulla espulsione delle fasce sociali più deboli, quelle che non possono permettersi appartamenti da cinquemila euro al metro quadrato in su.

E non ci vengano a dire che quell’urbanistica allegra in altezza a Milano è stata fatta per non consumare suolo, come ho sentito dire in aula Parlamentare. Falso. Milano continua a consumare suolo e il brivido per l’altezza non ha frenato un bel niente.

Negli ultimi 17 anni Milano ha consumato una media di 18 ettari all’anno di suoli agricoli o liberi al bordo o interni alla città. Semmai Milano è la dimostrazione del contrario: scegliere l’altezza non equivale a non consumare suolo.
Non sono quindi i sindaci, assessori e parlamentari milanesi a poterci dare lezioni di non consumo di suolo. Men che meno oggi. Negli ultimi venticinque anni non ho sentito uno solo di loro fare un discorso a favor di suolo con una energia e vigoria tale e quale a quella che ho visto in Parlamento per il cosiddetto “Salva Milano”. E faccio notare che non stanno neppure cogliendo l’occasione di questo imbarazzante provvedimento urbanistico per approvare uno stop al consumo di suolo. Se ne guardano bene.

Quel che si sta compiendo è un doppio disastro nazionale. Per “salvare Milano”, il Parlamento sta decidendo che in tutte le città italiane si potranno costruire torri, condomini, grattacieli semplicemente chiedendo la più semplice delle autorizzazioni edilizie, senza un piano attuativo, senza adeguare i servizi, saltando a piè pari qualsiasi pianificazione urbanistica. E per di più la decisione parlamentare avrà pure valore retroattivo. Fatico a non mettere questa roba dentro il faldone dei “condoni”.

Il secondo disastro è culturale. Questo “Salva Milano” come volete che venga letto e capito dalle persone? Come un provvedimento per salvare il Pianeta? La miglior mossa per la transizione ecologica? Una legge per adeguare le città alla crisi climatica? Il primo di una serie di provvedimenti per avere città resilienti? Non credo proprio.
Verrà visto come l’ennesimo abuso di potere politico all’italiana, dove i provvedimenti urbanistici in odor di condono e cemento che si approvano sono la normalità. Dove il cemento vince sul verde. Altro che “Salva Milano”, qui siamo in pieno “Sfascia tutto”. Benvenuti nello Sfasciocene.

Concludo con un appello alle sindache e ai sindaci che sono dalla parte del suolo.
Vi chiedo di prendere le distanze da questo provvedimento facendo sentire la vostra voce.
Prendete posizione pubblicamente, scrivete alla redazione di Altreconomia, intervenite: redazione@altreconomia.it.

 

(*) Tratto da Altreconomia.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Dalla parte del suolo” (Laterza, 2024)


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martedì 3 dicembre 2024

Black Friday, qualche considerazione di rito - Salvatore Bianco e Fabrizio Venafro

 

Quando il Grande Giorno arriva con la sua ingiunzione consumistica può accadere che un tarlo si insinua nella mente, prima sottile poi sempre più pressante, e spinge a considerare l’incipit celebre del Capitale di Marx, «il mondo si presenta come una immane distesa di merci», nonostante il tempo trascorso, ancora come la cornice teorica più adeguata per inquadrare un fenomeno come il Black Friday.

 1. Con velocità fulminea, da fenomeno di costume circoscritto e un po’ bizzarro è divenuto in pochi anni, complice il villaggio globale, evento planetario, con un giro di affari vorticoso. Solo in Italia ha fatto registrare, anno su anno, un incremento di circa il 55% di vendite e ha coinvolto sedici milioni di persone, superando abbondantemente i due miliardi di giro d’affari. Il successo ne ha dilatato la durata tanto che si parla di settimanadel Black Friday. Lo spazio geografico di provenienza è certo, gli USA, ma la provenienza del nome, venerdì nero, come conviene ad un mito sia pure di oggi, al contrario della puntuale ricorrenza, è controversa e segnala che anche le origini siano spesso una costruzione ex post, che accompagnano i cambiamenti culturali di un’epoca. Ed allora che sia la riattualizzazione tetra del giorno in cui gli schiavi finivano in saldo oppure la giornata in cui gli operai disertavano le fabbriche dopo le intemperanze del Ringraziamento o, ancora, racchiuda l’imprecazione dei poliziotti della stradale di Filadelfia che in quel venerdì del ’61 furono letteralmente travolti da un traffico eccezionale dovuto alle orde di consumatori, come detto, queste ricostruzioni, sono un po’ tutte vere o, se si preferisce, tutte un po’ false. Vero è che una storia come quella dei poliziotti lamentosi non poteva reggere alla lunga come stimolo allo shopping ed, allora, sotto regime neoliberista, meglio la narrazione dei libri contabili dei negozi che da quel fatidico venerdì passano dall’inchiostro rosso delle perdite a quello nero dei guadagni.

Ma cosa spinge una fiumana di gente, arrischiando la loro stessa incolumità, come dimostrano taluni episodi americani finiti in tragedia, a prendere letteralmente d’assalto i centri commerciali o come sciame digitale inondare le piattaforme immateriali del web? La risposta è in una foto a colori che sbuca dalla copertina di una rivista patinata, dai dettagli nitidi e con punto di osservazione da sorvolo. Ritrae una delle tante scene che si sono ripetute in questi giorni ovunque nelle moderne cattedrali del commercio. E’ una calca di gente infervorata che assedia in circolo uno dei tanti altari allestiti per l’occasione, sotto gli occhi compiaciuti dell’officiante di turno, di una nota marca di prodotti elettronici, che mostra – così si intuisce – ai consumatori lì convenuti l’oggetto devozionale. I cartellini con lo sconto promesso saturano poi tutto l’ambiente circostante. E non si sottolineerà mai abbastanza la funzione decisiva dello sconto volto a piegare quella sorta di riluttanza all’eccesso, che frena e che in questo modo viene tacitata. Perché la meccanica dello sconto, è bene sempre rammentarlo, con la sua implacabile logica del risparmio, serve a seppellire quell’antica vocazione alla parsimonia e alla misura che ci abita da tempi remoti.

Sembrano delinearsi i contorni del fenomeno. Un rito senza teologia in cui tutti noi siamo immersi, devoti di un culto che non promette espiazione, salvezza, ma solo crescente debito e conseguente colpa, «questo culto – scrive Benjamin riferendosi al capitalismo – è colpevolizzante-indebitante», che è poi il più vistoso apparente paradosso di una civiltà che ha promesso benessere ma non poteva che realizzare debito, basandosi in ultima istanza sul credito del denaro.

D’altronde, la radice ultima di un meccanismo che postula una crescita infinita in un quadro di risorse finite e per giunta in rapido deperimento non può che risiedere in una credenza, una fede o qualche forma moderna di superstizione razionalistica.

2. Se il termine Black Friday è suscettibile di congetture, l’ethos che lo anima ha origine certa. Come successe con lo spirito del capitalismo, grazie all’intuizione protestante che l’accumulo di ricchezza fosse un segnale di appartenenza alla comunità di eletti (come ci insegna Weber), anche lo spirito del consumismo ha un suo punto di origine ben preciso. E non a caso lo troviamo nella terra dove si insediarono quegli stessi che erano portatori dell’originaria fede: gli Stati Uniti. Qui, negli anni Cinquanta, vengono gettate le basi dello spirito consumistico, necessario corollario di un apparato iperproduttivista che si regge sul primo spirito. Da allora, si lavora incessantemente per creare una nuova antropologia fondata sul soddisfacimento compulsivo di un godimento senza fine che si esaurisce dopo ogni acquisto e cerca una propria riesumazione nel prossimo oggetto del desiderio (Lacan parlava in proposito del discorso del capitalista).

Sono passati appena dieci anni dalla fine del conflitto mondiale e già si stava esaurendo la spinta alla crescita innescata dalla ricostruzione delle macerie lasciate in Europa e in Giappone. Negli Stati Uniti si temeva una crisi di sovrapproduzione perché il mercato era già saturo. Allora si cercarono altri modi per convincere le persone ad acquistare merci di cui, in fondo, non avevano bisogno. Una società che si crede ricca solamente perché consuma beni inutili. Ma per far questo deve cambiare il concetto stesso di bene. Come racconta Vance Packard ne I persuasori occulti, lavoro pioneristico perché osserva in tempo reale il mutamento di sistema, negli uffici marketing delle aziende cominciano ad essere assunti gli psicologi, affinché suggeriscano come convincere i consumatori ad acquistare ciò che non gli serve. Ancora più di prima, allora, il bene diventa l’incarnazione di un sogno, di uno status, di un carisma che sarebbe acquisito solo in virtù del possesso di un determinato oggetto. Da allora le auto, negli Stati Uniti, aumentano di dimensione, divenendo simbolo della personalità del guidatore. Nel 1955 viene pubblicato un articolo di Victor Lebow sul Journal of Retailing che è considerato il manifesto del capitalismo di consumo. Lebow auspicava che il consumo divenisse un vero e proprio stile di vita, esprimendo la necessità che gli oggetti avessero una vita breve, fossero sostituiti e gettati a un ritmo sempre più rapido. Attualmente il capitalismo intero si fonda su questa teorizzazione. L’usa e getta permette di abbassare il rischio delle crisi di sovrapproduzione ma non fa i conti con il fatto che tale stile non è sostenibile dal pianeta. Oggi ogni attività delle persone ruota intorno all’acquisto ritualizzato di merci, tanto da fare dei centri commerciali il non-luogo di ogni relazione umana, laddove prima erano le piazze della città ad essere il centro relazionale delle comunità urbane. Ciò significa che il capitalismo ha operato una vera mutazione antropologica facendo del lavoro e dell’acquisto di merci lo scopo esistenziale. Chiedere di lavorare meno e di consumare in modo consapevole diviene un discorso eversivo in questo contesto. Anche se tale atto eversivo si rende necessario alla luce della crisi ecologica cui stiamo assistendo. Il comportamento ecologico non è neutro rispetto al sistema di sviluppo.

 Il mercato è indubbiamente forte e pervasivo, ma la storia ha mostrato che alle idee serve più tempo ma che poi possono invertire la freccia della storia in determinate circostanze; l’immaginazione di una soggettività collettiva da costruire non catturata alla lunga può essere la svolta dirompente di questo scorcio di nuovo millennio.  E se un nocciolo di verità le parole contengono, allora Black Friday, o venerdì nero, ci ammonisce circa il treno impazzito su cui stiamo correndo verso il baratro, che le guerre atroci in svolgimento stanno inverando. E dovrebbe anche ammonirci circa il poco tempo a disposizione per tirare il freno.

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