sabato 29 giugno 2024

Il pensiero come strumento del desiderio - Marina Garcés

 

Dieci anni fa ho pubblicato questo libro e ora lo ripubblichiamo, in una nuova edizione in spagnolo e per la prima volta in catalano. La situazione di depressione pandemica in cui uscirà mi fa dubitare della sua necessità. È facile dire che la filosofia non serve a nulla, quando quel nulla di senso si vive con allegria. Il gioco dei problemi e dei concetti diventa allora la festa di un eccesso, in cui desiderio e intelligenza si moltiplicano e fecondano il linguaggio, portando i loro codici al parossismo. Ma quando il nulla si tinge di minacce, quando il vuoto è solo vuoto, quando il non senso diventa normalità, allora diventa più difficile affermare con allegria che la filosofia è inutile e per questo conta. Se vivere è un conto alla rovescia, qualsiasi cosa che non sia una risposta all’emergenza sembra una perdita di tempo.

Pensare o predicare

Gran parte del pensiero contemporaneo sembra muoversi tra due opzioni: constatare l’apocalisse o metterle toppe e usare rimedi palliativi. Avvertire dei disastri o muoversi al loro interno. Nel raccontare i disastri che verranno, si percepisce come un’eccitazione, si manifesta nel pubblicarli prima degli altri, nell’esercitare da intellettuali della fine del mondo. Il pensiero critico cessa di essere critico quando la sua funzione è quella di commentare una partita a cui non prende parte. Racconta con emozione come si muove la palla, come le opzioni si perdono una giocata dopo l’altra. L’apocalisse è sempre stata una forma di spettacolo, una promessa perversa che qualcosa di importante sta per accadere. Che la vita vada avanti, nonostante tutto, è quasi motivo di delusione. Ammalati di normalità, ci chiediamo, non può succedere qualcosa una volta per tutte?

In questi dieci anni il mondo sembra essersi fatto drammaticamente comune. Non si tratta solo della pandemia di Covid-19. L’evoluzione di internet e delle tecnologie verso la concentrazione di monopoli privati ​​ci fa stare tutti sugli stessi social network e sulle stesse piattaforme di consumo. L’evoluzione del cambiamento climatico e della scarsità di risorse naturali ed energetiche ci collocano negli abissi della calamità globale. L’aumento del numero e della mortalità dei movimenti migratori, la sproporzione degli indici di disuguaglianza in ogni società e a livello globale… Tutti questi aspetti, per citare solo i più evidenti, ci incatenano a una realtà unica in cui l’interdipendenza di tutti i fenomeni s’è fatta pià stretta ed è diventata una minaccia per la maggior parte della popolazione.

Come accade nel cinema più recente, sembra che qualsiasi teoria possa darci solo ragioni e immagini, a volte solamente povere metafore, per la nostra salvezza o la nostra condanna. La crisi dell’immaginazione è una crisi della critica, quando gli unici limiti a cui possiamo pensare sono quelli della nostra stessa fine. Un sentimento neoreligioso pervade gran parte del discorso più attuale, anche se non sembra. Il domani dell’estinzione o quello di una resurrezione “più che umana” sembrano gli unici futuri con cui possiamo confrontarci oggi. Allora il pensiero smette di pensare e si dedica a predicare.

Un concetto latente

Il concetto di mondo comune ha una lunga storia, che comincia all’inizio del ‘900 con la fenomenologia, quando questa corrente filosofica si azzarda a interrogarsi su quali siano le fonti della nostra esperienza e comprensione del mondo, prima della conoscenza che abbiamo dei suoi oggetti. Vale a dire, su ciò che c’è “prima” della scienza e della tecnica, oppure, detto in un altro modo, su ciò che sostiene e si nasconde sotto il nostro rapporto di sapere e dominio sul mondo come insieme di oggetti (umani inclusi).

Questo spostamento della domanda e, quindi, dello sguardo, cambia anche la posizione del soggetto, che non si trova più immune e frontale davanti al mondo, ma si scopre nel “tra”, cioè nella trama di relazioni che lo compongono e lo inscrivono in un mondo naturale e sociale. Come riassumerà il filosofo Merleau-Ponty in una delle espressioni che guidano questo libro, l’aspirazione a un mondo comune ci porta a “risvegliarci nei legami”. Per Merleau-Ponty, principale ispiratore di questo libro, questo “tra” è il nostro corpo, inteso non come unità anatomica, ma come un nodo di significati viventi. Per una filosofa sua contemporanea come Hannah Arendt, questo “tra” sarà il luogo del soggetto politico e del mondo comune, l’apertura di una distanza che rende possibile l’azione e il discorso. Sono due opzioni diverse, una verso la parola e l’altra verso il corpo, di una stessa posizione coinvolta nella pluralità irriducibile all’unità delle vicende comuni.

Questo soggetto coinvolto in un mondo comune è quello che ha assunto rilevanza, con nuovi significati, nella teoria critica contemporanea, perché decentra il punto di vista, senza svincolarsi dai problemi comuni. Le soggettività che storicamente ne hanno occupato i margini hanno voce nella pluralità irriducibile di un mondo comune, perché da ognuna di esse il senso del mondo appare in modo diverso, in conflitto e in disputa. Per questo possiamo seguire la pista del concetto di mondo comune nelle filosofie femministe, nelle teorie postcoloniali (soprattutto nell’ambito dell’attuale filosofia africana), nella riflessione e nelle lotte contro la precarizzazione della vita (lavoro, casa, produzione, consumo…) o nelle teorie scientifiche e filosofiche che stanno tessendo un modo nuovo di concepire la relazione tra l’umano e il non-umano, la natura e la cultura nell’era conosciuta come Antropocene.

Con la globalizzazione e l’Antropocene, il mondo non s’è fatto più comune ma, come abbiamo detto, si è drammaticamente unificato. Contro quella tendenza e i suoi terrificanti miraggi, contro le sue metafore e i suoi predicatori, interrogarsi su un mondo comune è un invito a pensare e immaginare ciò che ci lega senza ridurlo all’unità, né dell’essenza, né del sistema, né dell’identità.

Problemi comuni

La filosofia non è un programma di salvezza. Lavora con problemi comuni. Elabora le sue mappe e così prepara il terreno per le sue soluzioni possibili. Non è vero che non abbia risposte: le mette alla prova senza chiuderle. Rileggere “Un mundo común” a dieci anni dalla sua prima pubblicazione è ritrovare una mappa dei problemi che sono ancora i nostri. In alcuni casi si sono complicati, in altri si sono arricchiti con esperienze, teorie e lotte venute dopo.

Elaborare la mappa dei problemi comuni è la strategia critica più efficace contro il dogma apocalittico e i suoi promotori a destra e a sinistra. È anche la strategia più efficace per non cadere nell’altra tentazione, quella della nostalgia e dell’idealizzazione dei tempi passati. Sebbene sia stato pubblicato nel 2012, questo libro non è una sublimazione delle lotte che hanno scosso le piazze di molte parti del mondo nel 2011. Fa parte della risonanza che ha condotto molti di noi a esse, ma anche dei problemi che né allora né oggi siamo stati in grado di risolvere. Dall’irrisolto che chiede di tornare a essere pensato, i problemi comuni che vengono sviluppati in questo libro sono parte della nostra attuale geografia, una geografia filosofica e politica che possiamo situare all’incrocio di almeno cinque nozioni: interdipendenza, noi, impegno, critica, incompiutezza. I problemi rimangono, ma i significati e le tonalità di questi concetti si sono spostati. Per questo è interessante ritornarvi come punto di partenza per una nuova lettura.

Maurice Merleau-Ponty e la figlia lungo la rue Canebière a Marsiglia, estate 1948

NOI. il Novecento si è chiuso con il culmine dell’individuo come protagonista della vita politica e sociale, con tutte le sue espressioni culturali, commerciali e psicologiche. L’Io sembrava regnare proprio nel momento in cui cominciava a rompersi. La sociologia, la politica, la filosofia, l’arte, ecc. ruotavano intorno al culto dell’individuo o alla sua critica. Il paradigma individualista sembrava confondersi con l’esistenza umana stessa, come se non potessero mai arrivare a differenziarsi. Di fronte a questo, rivendicare il Noi è stato un appello a reincontrare la comunità, il collettivo e ad aprire i significati possibili della vita al plurale.

Quando abbiamo già alle spalle due decadi del XXI secolo e qualche crisi vissuta e da vivere, l’individuo e le sue rivendicazioni cominciano a essere una figura sfumata. La crisi terroristica del 2001, la crisi finanziaria del 2008, la crisi sanitaria del 2020 e la crisi ambientale come presente continuo e futuro irreversibile ci hanno collocato in uno scenario in cui i privilegi si difendono dall’interno del gruppo. Il problema è che chi ha capito meglio questa nuova situazione sono i più ricchi, che si tutelano e si arricchiscono a vicenda, oppure le cosiddette politiche populiste, cioè costruite sull’idea di un gruppo (popolo, razza, cultura, ecc. ) che deve difendersi ed essere difeso dalla minaccia degli «altri». Anche i movimenti sociali si sono spesso rinchiusi in queste logiche autoreferenziali, sempre più di scontro ed escludenti. Sono logiche che si son viste rafforzate, peraltro, dall’asprezza della repressione che, a scala globale, sta esercitando un sistema di sorveglianza e di dominio sempre più vicino al tecnofascismo.

I Noi sono protagonisti della scena sociale e politica di oggi, ma sono un Noi in lotta per la sua esistenza e per la conservazione di ciò che considerano i loro privilegi o le loro aspirazioni. Mentre l’Io sprofonda nel disagio psichico, nella solitudine e nel consumo, il Noi si riarma sulla base di identità riconoscibili, nuove ritualità politiche e leader forti. Come imparare a dire Noi contro l’identità di gruppo che ne definisce e chiude il significato? Come imparare a dire noi oltre il riconoscimento e la difesa “dei nostri”? Queste domande sono state il punto di partenza di “Un mundo común” e continuano ad essere oggi, con ancor più urgenza, le chiavi per aprire le serrature del nostro presente. La collaborazione, la cooperazione, il sostegno reciproco, le resistenze, l’accoglienza, l’apprendimento… sono pratiche sociali e politiche che non possono partire dal gruppo chiuso, devono aprire e inventare i significati possibili della vita in comune.

INTERDIPENDENZA. L’interdipendenza è passata dall’essere una rivendicazione ad essere vissuta come una minaccia. Dalle scienze fisiche e sociali, dalla filosofia e dai movimenti sociali come l’ambientalismo o il femminismo, si lavora da decenni per ricomporre una visione del mondo che privilegi i legami dell’interazione e della dipendenza sui valori dell’autonomia e dell’autosufficienza che invece aveva elevato l’individualismo. Negli ultimi tempi, però, l’interdipendenza è diventata una pericolosa imposizione. Ciò è avvenuto, soprattutto, con due esperienze interconnesse: la globalizzazione del capitalismo e delle sue catene di estrazione, produzione e consumo in tempo reale, e la pandemia di Covid-19, che ha posto la quotidianità di un mondo contagioso nell’intimità dei nostri corpi e delle nostre case. Con queste due esperienze della globalizzazione abbiamo percepito il mondo come più stretto e piccolo, e l’interazione con gli altri, umani e non-umani, come sovraccarica di pericoli.

Le voci dei media ripetevano, all’inizio della pandemia, che avevamo scoperto l’interdipendenza e la vulnerabilità. Non le avevamo scoperte. Erano arrivate ​​alla porta di coloro che, per i loro privilegi, avevano vissuto fino ad allora nella finzione della loro autosufficienza e immunità. Per il resto del mondo, la vita è sempre stata interdipendente e vulnerabile. L’interdipendenza può essere sperimentata come condizione per l’emancipazione collettiva. Ma può essere vissuta anche come il suo contrario: la minaccia costante che deriva dal fatto di vivere nelle mani di altri, appesi all’aria che respirano, alle decisioni che prendono e ai modi di vivere che tengono. Questa minaccia viene gestita oggi, molto efficacemente, da forze politiche di destra, che invocano la libertà e l’autosufficienza – e perfino la secessione (dei ricchi) e l’autogestione, di ciascuno, come modo per non dipendere dalle zavorre e dai pericoli che comporta la vita in comune.

IMPEGNO. Le prime due questioni ci impongono di passare da analisi descrittive a un giudizio di valore in cui si mettono in gioco opzioni e non solo situazioni. È allora che si apre la questione concreta dell’impegno. Abbiamo scritto, dieci anni fa, che l’impegno non è un esercizio della libera volontà, ma piuttosto l’effetto di lasciare cadere l’immunità per chiedersi cosa ci colpisce. Vale a dire, ciò che ci lega agli altri nel pensiero e nell’azione. Però quando l’immunità crolla e ci lascia nella nudità della precarietà, ciò che ci colpisce non produce legame: ci separa e ci fa scontrare. Questo libro inizia con una domanda: cosa ci separa? Se in tempi in cui dominava l’individualismo ciò che ci separava era la finzione immunitaria, il simulacro del fatto che nulla potesse accaderci nelle società sviluppate, quello che ci separa oggi è la sensazione che in ogni momento possa capitarci qualsiasi cosa.

Sentirsi coinvolti, in tempi di minacce e crisi accumulate, è diventato fondamentalmente sostenersi e prendersi cura. Il mutuo aiuto e l’etica del prendersi cura sono stati posti al centro di un’esperienza di impegno che ruota intorno alla vita danneggiata e vulnerabile. La ferita è stata posta al centro, ma non si tratta della ferita ontologica, la vita aperta che siamo, è la distruzione che l’agire umano provoca su di noi e sul resto del pianeta. Frenare e riparare quella distruzione sembra oggi il solo impegno possibile. Quando questo è l’unico impegno possibile, tuttavia, la vita collettiva comincia ad assomigliare a un pianeta di malati terminali. La cura e il sostegno reciproco non possono essere solo pratiche di riparazione. Se fanno parte della vita, devono essere anche un’espressione di desiderio. Stiamo dimenticando di desiderare. Stiamo cessando di immaginare.

CRITICA. La critica è un esercizio dell’immaginazione perché è un’arte dei limiti. Consiste nel mostrare i limiti di ciò che sappiamo e di ciò che siamo per interrogarne il significato e rimuoverne l’assurdità, per comprenderne l’esistenza e smantellarne la violenza. Le tradizioni più analitiche del pensiero hanno ridotto il pensiero critico a un lavoro di dissezione e discriminazione. Le tradizioni più moraliste all’emissione di un giudizio su ciò che è bene e ciò che è male. Schiacciata sotto queste due approssimazioni, la critica smette di immaginare e desiderare. Si limita a controllare e giudicare.

Questo libro prende in esame molteplici modi di mettere in pratica l’immaginazione critica, come collegamento attivo tra il corpo e il pensiero, l’educazione e la cultura, l’arte e la politica. Sono tentativi, riprendendo il termine del pedagogo Fernand Deligny che già allora facevamo nostro. Il valore del tentativo continua ad essere un luogo instabile in cui cercare la relazione tra le situazioni che ci tocca vivere e le opzioni che in esse si aprono. Parlare dei fatti richiede, oggi, molta immaginazione. Vale a dire, una sfida decisa a collegare ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo, ad apprendere nei limiti di un mondo che può essere comune solo se si apre a significati ed esperienze che non possediamo. Abbiamo smesso di immaginare e di desiderare perché abbiamo interiorizzato la convinzione di sapere cosa accadrà. E, soprattutto, come andrà a finire. Forse una delle principali funzioni del pensiero critico oggi potrebbe essere invece di ricordarci che sappiamo molto meno di quel che credevamo. Solo così potremo metterci in condizione di apprendere, mettere in discussione e smettere di predicare.

INCOMPIUTEZZA. Ho cominciato a studiare filosofia quando le teorie più in voga del momento annunciavano la fine di quasi tutto. Della storia, della filosofia, delle ideologie, delle rivoluzioni… Trent’anni dopo, annunciano la fine del mondo. Già allora mi ribellai a queste posizioni e scrissi una tesi in cui si esploravano le forme in cui la filosofia aveva pensato il possibile contro il possibile. Oggi credo di essere ancora lì, nel tentativo di fare del pensiero uno strumento del desiderio. La tentazione della fine ha l’altra sua faccia nella vendita di fumo, sotto forma di utopie, speranze e progetti di salvezza, personale o collettiva. Entrambe sono forme di credulità che fanno risparmiare, questo sì, molta energia. Pensare stanca. Però non poterlo fare deprime.

Pensare, oggi, è di nuovo una scommessa contro la depressione. Una forma di allegria di vivere che non si inganna né vuole ingannare. Chi ha il coraggio di non sapere per apprendere di nuovo e che parte dalla convinzione che un mondo comune non è il mondo che riconosciamo come nostro ma il mondo che non finisce con noi. Le lotte migliori sono quelle che non finiremo noi. Le storie migliori, quelle che altri continueranno. L’incompiuto è ciò che non ha un punto finale e per il quale nessuno ha l’ultima parola. Né dio, né il padrone. Né tu, né nessuno. Contro la tentazione della fine, pensare è far pensare. Dire è far dire, e quindi non sapere cosa diranno quelli che verranno dopo di noi, quelli che, quando prenderanno la parola, non potremo più ascoltare.

Il mondo non finisce con noi: né con noi che viviamo oggi, né con noi intesi come l’umanità e la sua storia. Riscoprire il concetto di mondo comune vuol dire darci la possibilità di pensare oltre noi stessi. L’Occidente ha pensato l’aldilà in modo gerarchico e verticale: verso il cielo, verso il divino, verso lo spirituale, verso l’eternità. C’è però un altro aldilà che è il continuum di esseri umani e non umani, naturali e artificiali, di cui siamo parte responsabile ma non unica. Interrogarsi su un mondo comune è un invito a pensare a questo aldilà terreno e fangoso, concreto e incompiuto, a partire dall’alleanza e dalla co-appartenenza con esseri e realtà che non saranno mai nostri.


* Questo testo è il prologo alla nuova edizione del libro Un mundo común,  (Bellaterra, 2022)

Fonte e versione originale in castigliano: Comunizar

Traduzione per Comune-info: marco calabria

 

Marina Garcés, filosofa che ha dedicato tutto il suo impegno alla vita come problema comune fin da quando diede vita, insieme ad altri compagni e compagne alla grande esperienza di Espai en Blanc, da 15 anni insegna alla Universidad de Zaragoza e oggi anche alla Universitat Oberta de Catalunya. Il suo primo libro è stato En las prisiones de lo posible (Bellaterra, 2002), gli ultimi Un mundo común (Bellaterra, 2012 edito nuovamente nel 2022), El compromiso (CCCB, 2013), Filosofía inacabada (Galaxia Gutenberg, 2015), Fuera de clase (Galaxia Gutenberg, 2016), Nueva ilustración radical (Anagrama, 2017) e Ciudad princesa (Galaxia Gutenberg, 2018). In italiano sono usciti, sempre per Nutrimenti, nel 2019, Il nuovo illuminismo radicale e, nel 2022, Scuola di apprendisti.

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