martedì 2 gennaio 2024

Clima, finanza, ambiente. I fatti del 2023 e le speranze per il 2024 - Andrea Barolini

 

I principali avvenimenti del 2023, dalla Cop28 di Dubai ai rapporti che inchiodano banche e finanza sul clima. E cosa può farci ancora sperare

La crisi climatica è sempre più al centro dell’attenzione. Che sia per la cronaca degli eventi meteorologici estremi, o per l’illogica querelle tra comunità scientifica e ong, da un lato, e negazionisti dall’altro, almeno se ne parla. Per lo meno su social network e stampa alternativa, visto che quella mainstream continua a relegare quasi sempre le notizie sul clima nei trafiletti a pagina 32. 

Valori considera quello del riscaldamento un problema reale, gigantesco e che va trattato nei termini a più riprese indicati dalle Nazioni Unite, a cominciare dal segretario generale António Guterres. Che la transizione ecologica sia imprescindibile (a partire da quella energetica che implica l’abbandono delle fonti fossili e lo sviluppo delle rinnovabili) lo può ancora negare solo chi è in malafede o chi è ignorante. Non tutti invece hanno chiaro quanto, per operare tale cambiamento, sia necessario l’apporto del mondo finanziario

Il rapporto Banking on climate chaos, in primavera, ha spiegato che le banche continuano a concedere a chi sfrutta a vario titolo carbone, petrolio e gas cifre semplicemente folli: 5.500 miliardi soltanto tra il 2016 e il 2022. Quanto basta per spingerci dritti verso la catastrofe climatica. Con il solito apporto anche delle italiane Unicredit e Intesa Sanpaolo. D’altra parte, anche le banche che affermano di impegnarsi per sostenere la transizione e la decarbonizzazione in realtà utilizzano metriche che permettono di dichiarare di aver ridotto le “emissioni finanziate” anche senza agire troppo sui fondi concessi. E i portafogli dei grandi asset manager sono quasi tutti incoerenti con i piani di decarbonizzazione.

Allo stesso modo, per quanto riguarda le aziende private nel loro complesso, troppo spesso le promesse assomigliano molto, troppo ad operazioni di greenwashing. Un report dell’organizzazione non governativa Carbon Disclosure Project ha analizzato più di 18mila aziende: tra queste, più di 4mila hanno pubblicato un piano di transizione climatica. Eppure, solo 81 di questi risultano «credibili», secondo la stessa ong. Lo 0,4%! Passando all’automotive, la musica non cambia. Dopo il Dieselgate del 2015, livelli di emissione “sospetti” continuano in almeno il 77% dei test effettuati su auto diesel in Europa. E c’è perfino chi si è adoperato per boicottare le verità scientifiche sugli impatti sulla salute delle emissioni domestiche. 

Tutto cambia, insomma, affinché nulla cambi. O comunque troppo poco. Il risultato è che l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale ad 1,5 gradi centigradi, come indicato nell’Accordo di Parigi, è quasi fuori portata. Ad esserne responsabili sono soprattutto i Paesi ricchi del mondo. Per la precisione, in particolare, i ricchi che abitano soprattutto nei Paesi ricchi. Ciò mentre le popolazioni indigene continuano a pagare il prezzo più alto del riscaldamento climatico, e quelle dei Paesi a basso reddito potrebbe  presto non avere ospedali a sufficienza, proprio per colpa (tra gli altri fattori) della crisi climatica. 

Gli eventi meteorologici estremi, quelli invece non risparmiano già nessuno. Il disastro dell’Emilia-Romagna è solo uno dei drammi che abbiamo vissuto, stiamo vivendo e vivremo in futuro. Anche per questo si moltiplicano le azioni in giustizia contro i governi: ultime in ordine di tempo quella che ha portato alla condanna del Belgio e quella intentata da Greenpeace e ReCommon contro Eni in Italia.

Ciò nonostante, a livello istituzionale perfino l’Europa ha scelto di piazzare al posto del sincero ambientalista olandese Frans Timmermans il suo connazionale Wopke Hoekstra: ex del colosso petrolifero Shell e di McKinsey. È il mondo che non vuole cambiare. Quello che scopre che siamo sommersi da inquinanti eterni e ancora non legifera per porvi rimedio (ammesso che ciò sia almeno in parte possibile). Quello che continua ad estrarre dal mondo molte più risorse di quante esso sia in grado di riprodurne. Quello che sceglie come presidente della Cop28 un petroliere. Quello che privilegia i profitti di pochi rispetto al benessere di tanti. Quello che continua a finanziare l’industria della difesa inondando il mondo di armi in un nome della “salvaguardia della pace e della sicurezza” mentre ovunque si moltiplicano i conflitti. 

Ma non c’è da stupirsi. È il nostro modello di sviluppo ad imporre tutto questo. Il sistema economico nel quale viviamo si nutre di questo: della massimizzazione del profitto ad ogni costo, dell’accumulo di risorse e ricchezza nelle mani di pochi, delle disuguaglianze, del vendere la bugia secondo la quale ci si dovrebbe accontentare delle briciole che piovono da chi se la spassa. L’augurio per il 2024 è che la trasformazione, inevitabile, avvenga il più presto possibile. L’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ne è certo: «Quando il feudalesimo stava già crollando, tutto attorno era ancora basato su di esso. Oggi il capitalismo è già finito, anche se tutto è ancora basato su di esso». Il cambiamento, secondo l’ex ministro, rivoluzionerà sia i mercati finanziari che quelli del lavoro: «La speranza è il mio dovere e ad essa mi aggrappo – ha affermato -. Anche contro ogni evidenza empirica». 

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