“La guerra che stiamo conducendo contro la natura è per forza di cose una guerra contro noi stessi”. In questo articolo, uscito anche sul n. 54 di Liberazioni, gli autori, Zipporah Weisberg e Carlo Salzani, si interrogano sul concetto di “giustizia climatica”: perché il principio funzioni davvero non possono essere ignorate le azioni di sterminio agite dall’uomo contro gli animali – si pensi agli allevamenti intensivi. Siamo dunque nell’urgenza di pensare una “giustizia multispecie”: un approccio relazionale alla giustizia che non trascuri alcun vivente e si proponga il “decentramento” dell’essere umano. Traduzione dall’inglese di Federica Timeto
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Il movimento
per la giustizia climatica, in quanto movimento per la giustizia sociale,
riconosce la connessione tra l’emarginazione, lo sfruttamento di gruppi umani
vulnerabili e la distruzione del mondo naturale. Tuttavia, la promessa di
inclusività della giustizia climatica non sembra applicarsi allo stesso modo
all* altr* animali. Mentre affronta l’allevamento intensivo, l’attivismo per il
clima si focalizza sull’inquinamento, le emissioni di carbonio e altri rischi
ambientali associati, senza dire quasi nulla sull’indicibile sofferenza cui
sono sottoposte decine di miliardi di esseri senzienti negli allevamenti
intensivi. Questo silenzio non solo è ingiustificato, è anche controproducente.
Come non può esserci giustizia climatica senza giustizia sociale, così non può
esserci giustizia climatica senza giustizia per gli animali.
«Abbiamo
reciso le basi stesse della vita»
Il Living
Planet Report 2022, pubblicato nell’ottobre 2022 dal World Wildlife Fund (WWF)
in collaborazione con la Zoological Society London (ZSL), richiama l’attenzione
sul ritmo allarmante con cui le popolazioni di animali selvatici nel mondo sono
state decimate negli ultimi decenni. Il rapporto documenta una diminuzione
media del 69% fra le popolazioni monitorate tra il 1970 e il 2018, con Paesi
come quelli in America Latina che presentano un calo più marcato (94%). Al con-
tempo, i pesci d’acqua dolce hanno registrato la maggior diminuzione globale
complessiva (83%)[2].
L’elenco dei fattori chiave del decremento delle specie comprende la perdita e
la frammentazione degli habitat, la deforestazione, lo sfruttamento intensivo,
l’inquinamento, le malattie, le cosiddette specie “invasive” e il cambiamento
climatico. Andrew Terry, direttore del settore conservazione e politica della
ZSL, unendosi al coro di scienziati e attivisti che da decenni chiedono
(invano) ai governi e alle organizzazioni internazionali di agire[3],
lamenta che «abbiamo reciso le basi stesse della vita».
Il costo
umano del cambiamento climatico non è meno grave. Gli habitat decimati, la
risorse idriche contaminate, il degrado del suolo e l’inquinamento atmosferico
sono minacce crescenti per la vita umana. Le conseguenze, come siccità,
inondazioni, povertà e carestie, acuiscono i conflitti geopolitici e
determinano spostamenti forzati di intere popola- zioni. Nel frattempo, la
spoliazione degli ecosistemi rende impossibili i “servizi ecosistemici” che
sostengono e regolano la vita umana (come l’impollinazione delle colture)[4] e
la crescente antropizzazione di territori sempre più vasti contribuisce
all’introduzione e alla diffusione di patogeni virulenti che minacciano
gravemente la salute umana. Come ha osservato Dave Goulson, la guerra che
stiamo conducendo contro la natura è per forza di cose una guerra contro noi
stessi[5].
Il movimento
per la giustizia climatica affronta questi problemi di petto, fornendo
un’alternativa necessaria agli approcci tradizionali, corporativi o
governativi. La nozione di “giustizia climatica” risale a più di due decenni
fa: una delle prime occorrenze si trova in un rapporto dell’ONG CorpWatch del
1999, intitolato Greenhouse Gangsters vs. Climate Justice[6].
L’anno dopo si teneva il primo vertice sulla giustizia climatica organizzato da
CorpWatch in parallelo (e in opposizione) ai negoziati COP6 all’Aia. Molti sono
stati gli eventi che si sono succe- duti nel corso degli anni, e tra questi
l’Earth Summit a Bali del 2002, la World People’s Conference on Climate Change
and the Rights of Mother Earth del 2010 e il People’s Summit for Climate
Justice del novembre 2022. In questi anni sono sorte anche decine di
associazioni per la giustizia climatica, come Global Justice Now, Climate
Justice Alliance, Climate Justice Coalition e Climate Justice Action.
Come
movimento sociale per la giustizia, il movimento per la giusti-zia climatica
evidenzia le disuguaglianze prodotte dalla crisi climatica, compreso l’impatto
decisamente differenziato sulle popolazioni umane in tutto il pianeta. Il
genere, la razza, l’etnia, l’età e il reddito incidono in modo determinante su
queste differenze e chi soffre maggiormente le conseguenze del cambiamento
climatico sono le componenti più vul- nerabili della popolazione: le persone
povere, le minoranze razziali, le donne e le persone native. Tuttavia, l* altr*
animali sono quasi sempre l* grandi assenti nelle discussioni sulla catastrofe
climatica, anche se sono tra quell* più gravemente colpit*. Nell’industria
zootecnica, una delle più distruttive per l’ambiente, centinaia di specie
animali si stanno estinguendo mentre decine di miliardi di animali sono
costretti a vive- re in allevamenti intensivi in condizioni abominevoli prima
di essere mandati a morte violenta. Sette miliardi di animali, la maggior parte
dei quali neonati, sono stati finora uccisi per cibo e altri sottoprodotti
negli Stati Uniti solo quest’anno e più di 150 miliardi di animali vengono
macellati a livello globale ogni anno[7].
I
sostenitori della giustizia climatica criticano l’agribusiness per i danni
ambientali che provoca, ma di fatto rimangono in silenzio sui danni che questo
infligge all* altr* animali. Mentre la produzione di gas metano, le emissioni
di carbonio e gli incendi per creare pascoli per il bestiame in Amazzonia
suscitano inquietudine, la mutilazione, la detenzione estrema, il pestaggio e
l’uccisione in massa degli animali rimangono in gran parte invisibili. Tacendo
sulla violenza sistemica contro gli animali, il movimento per la giustizia
climatica si rende complice di una delle più gravi ingiustizie del nostro
tempo. Come non può esserci giustizia climatica senza giustizia sociale, così
non può esserci giustizia climatica senza giustizia per gli animali.
La giustizia
climatica è giustizia sociale
Il movimento
per la giustizia climatica ha ribadito in tutti i modi che il cambiamento
climatico è una questione di diritti umani[8] e,
soprattutto, di giustizia sociale. Il movimento sfida apertamente i leader
globali e le organizzazioni governative che ignorano le principali ingiustizie
alla base del cambiamento climatico, mentre perseguono il mito del soluzionismo
tecnologico e fingono di ridurre progressivamente le emissioni di carbonio.
Contrariamente all’approccio mainstream alla crisi climatica, favorevole alle
imprese e dominato dagli euroamericani, i collettivi per la giustizia climatica
sfidano l’elitarismo, promuovono la democrazia di base e attirano l’attenzione
sulla difficile situazione del Sud del mondo. Global Justice Now, per esempio, dichiara di essere:
“un’organizzazione
democratica per la giustizia sociale che lavora come par- te di un movimento
globale per sfidare i potenti e realizzare un mondo più giusto ed equo.
Mobilitiamo le persone nel Regno Unito per il cambiamento e agiamo in
solidarietà con coloro che combattono l’ingiustizia, in particolare nel Sud del
mondo”.
Climate Justice Alliance si concentra sulla relazione
tra i sistemi di produzione estrattivi e l’oppressione politica, insistendo sul
fatto che l’uguaglianza di razza, genere e classe sono parte integrante della
trasformazione:
“La nostra
strategia organizzativa translocale e la nostra capacità di mobilitazione
stanno costruendo una Transizione Giusta, contraria ai sistemi estrattivi di
produzione, consumo e oppressione politica e nella direzione di economie
resistenti, rigenerative ed eque. Crediamo che il processo di transizione debba
porre razza, genere e classe al centro delle soluzioni di questa equazione
perché la Transizione sia davvero Giusta”.
L* attivist*
per il clima identificano una “tripla ingiustizia” in gioco nella crisi
climatica: 1) i gruppi svantaggiati, che sono i meno responsabili del
cambiamento climatico, ne subiscono le peggiori conseguenze;
2) i Paesi
ricchi del Nord globale e le classi benestanti di tutto il mondo, i maggiori
responsabili del riscaldamento globale, sono i meno colpiti;
3) i gruppi
marginalizzati, che hanno minori risorse, sono lasciati a se stessi con poco o
nessun sostegno. Per rimediare alle tante ingiustizie sociali, l* attivist*
chiedono un’equa distribuzione di oneri e benefici[9].
Ma nel lavoro urgente e importante svolto dai collettivi per la giustizia
climatica in tutto il mondo, un gruppo particolarmente vulnerabile resta
vistosamente assente: l* animali non uman*.
Il Primo
Sterminio di Massa
Che gli
umani siano i responsabili della Sesta Estinzione di Massa[10] è
ormai un dato condiviso. Il panico su ciò che abbiamo fatto per pro- vocare
questo scenario apocalittico è evidente, e la gente comune e l* attivist* di
base, se non i governi, stanno genuinamente cercando di trovare delle
soluzioni. Il nostro senso di colpa è evidente nei nomi che diamo a
quest’ultima estinzione: “Estinzione dell’Antropocene”, “Estinzione del
Capitalocene” ed “Ecocidio”[11].
Justin McBrien propone di rinominare questa estinzione “Primo Sterminio di
Massa”, per evidenziare che non si tratta di un evento geologico passivo come
le precedenti cinque estinzioni, ma di uno sterminio vero e proprio, una
«eradicazione attiva e sistematica» che sta spingendo la Terra sull’orlo di
quello che McBrien chiama il “Necrocene”[12].
A questo già lungo elenco di orribili neologismi, Danielle Celermajer aggiunge
quello di “onnicidio”, l’“uccisione di tutto”, che minaccia l’esistenza stessa
della vita sulla terra[13].
Il linguaggio
allarmistico, d’altra parte, ha un suo senso: questi cataclismi sono crimini su
scala planetaria, le cui responsabilità possono e devono essere identificate e
i cui colpevoli devono essere chiamati a rispondere. Sebbene nessun*,
singolarmente, sia incolpabile, l’arroganza umana, unita a un sistema economico
intrinsecamente estrattivo, sono in fondo i veri colpevoli. Ma neppure questi
neologismi colgono il problema specifico dello sterminio animale. L’uso del
termine “ecocidio” al posto di “zoocidio”, per esempio, non tiene in
considerazione la detenzione, la tortura e l’uccisione degli animali negli
allevamenti intensivi e nei laboratori di ricerca, negli zoo, nei circhi, nei
rodei, nelle fiere di paese e così via. “Onnicidio” evidenzia correttamente la totalità
della distruzione, ma un altro termine che metta in luce la spietata
sottrazione di vita animale non umana consentirebbe di non trascurare e
occultare ancora una volta la violenza contro l* altr* animali[14].
A onor del
vero, l’industria degli allevamenti è spesso identificata come una delle cause
principali del cambiamento climatico. Gli scienziati del clima hanno
ripetutamente invocato una riduzione del consumo di carne e latticini e il
passaggio a una dieta a base vegetale[15].
Tuttavia, le atrocità umane contro l* animali in sé non sembrano avere alcun
peso morale o politico nel movimento per il clima. Quando l* attivist*
esprimono preoccupazione circa (piuttosto che per) gli animali allevati, è
tipicamente in termini utilitaristici, in quanto cibo o risorse. Quando l*
animali non uman*, come l’onnipresente panda o l’orso polare, sono al centro
delle campagne per la giustizia climatica, di solito come simboli di una
minaccia per la sopravvivenza umana. In documenti e dichiara- zioni come i
Principles of Environmental Justice o i Bali Principles of Climate Justice[16],
l* altr* animali restano preoccupazioni morali secon- darie o indirette: se
anche l* non uman* possono essere colpiti da crisi ecologiche, il centro della
questione restano gli umani[17].
Extinction Rebellion (ER), uno dei movimenti più
radicali per la giustizia climatica degli ultimi anni, che sottolinea l’urgenza
e l’attualità della crisi climatica attraverso l’azione diretta o performativa,
è un esempio calzante: ER si rifiuta di riconoscere che la tortura sistematica
e l’uccisione di animali negli allevamenti intensivi è già un problema in sé.
Il movimento organizza funerali pubblici per le specie estinte, ma non
riconosce né onora gli animali che non rientrano nella categoria del
“selvatico”[18].
La sua insistenza nel tracciare una linea tra le vite e le morti che contano e
quelle che non contano è così forte che è sorto un gruppo separatista, Animal
Rebellion, ora noto come Animal Rising (AR),
per affrontare nello specifico le atrocità perpetrate contro gli animali. Con
il suo approccio integrato alle oppressioni interconnesse, AR è forse l’unico
gruppo esistente per la giustizia climatica multispecie. Ma non può vincere da
solo e certamente non come appendice di un altro gruppo più potente. Alcun*
attivist* per la giustizia climatica, come Greta Thunberg, sono vegan*, ma
rimangono un’eccezione. Nel suo silenzio sull’oppressione animale, il movimento
per la giustizia climatica finisce per assomigliare alle controparti che
combatte, indebolendo il proprio impegno per la giustizia.
Omettere l*
animali nel dibattito sulla giustizia climatica non è frutto del caso. Fa parte
di una campagna millenaria di cancellazione materia- le e simbolica dell*
animali. Gli umani hanno sistematicamente ucciso l* altr* animali attraverso
attività agricole, industriali ed economiche per millenni e il periodo fra la
fine del XX e l’inizio del XXI secolo si è rivelato finora il più catastrofico.
Per dirla con Dinesh Wadiwel[19],
l* animali sono sotto assedio, catturat* e a rischio perpetuo di lesioni e di
morte nella «topografia dell’inimicizia»[20] che
gli umani hanno realizzato. Addomesticat* o meno, confinat* o “liber*”, sulla
terraferma o in mare, l* altr* animali sono vittime di una monumentale
ideologia e di un sistema di sterminio.
Si potrebbe
arrivare al punto di dire che l* animali allevat* e riprodott* a miliardi sono
tra le maggiori vittime dell’“estinzione”, se nel fenomeno dell’estinzione
includiamo l’eliminazione di certe specie come soggetti di vita significativa.
L* altr* animali si estinguono come soggetti attraverso la loro
iper-(ri)produzione come merci e sono doppiamente liquidati attraverso una manipolazione
genetica aggressiva. La morte di un individuo è solo una questione di valore
economico. Di per sé, un* singol* animale non vale nulla. Un* altr* sarà
prodotto al suo posto. E poi un* altr* ancora al posto di quest*. L* animali
allevat* sono così sacrificabili che il loro smaltimento in “mucchi di
carcasse” o il loro status di “morti all’arrivo” sono già calcolati a monte in
termini di perdite minime o nulle. I sussidi agricoli, poi, compensano
qualsiasi spesa imprevista e mantengono basso il prezzo della carne e dei
derivati.
Gli
allevamenti su piccola scala non sono luoghi tanto diversi da quelli di
sterminio dell’agribusiness. Per quanto ci piaccia credere alle fantasie
pastorali dell* “animali felici” e dell’allevamento “umano”, di cui molt* attivist*
per la giustizia climatica sono sostenitori, le fattorie “locali” sono letali
come gli allevamenti intensivi e fondate sulla stessa ideologia zoocida. Non
importa quanto “bene” siano trattat* (e, il più delle volte, non sono trattati
bene), quest* animali restano proprietà, non individui o soggetti. In alcuni
casi, l* animali nelle fattorie hanno persino un nome e vengono coccolati e
viziati per un po’ di tempo, ma alla fine, quando i loro proprietari decidono
che è il momento, sono sterminat*. Proprio come quell* allevat*
industrialmente, l* animali in ambiti locali non hanno alcun diritto alla
libertà, o alla vita in quanto tale, men che meno a una vita significativa. La
loro funzione è fornire prodotti consumabili e redditizi.
Perché noi e
non loro? Perché non noi e loro?
La tendenza
antropocentrica nel movimento per la giustizia climatica è una contraddizione.
La catastrofe climatica non può essere contenuta, e tanto meno superata, senza
affrontare la difficile situazione degli esseri più vulnerabili colpiti dai
cambiamenti climatici e dall’attività umana, le vittime delle forme più brutali
di ingiustizia, gli stessi esseri meno responsabili per tutto questo[21] e
che hanno le minori risorse per farvi fronte: l* animali non uman*. È indubbio
che gli umani che vivono nel Sud del mondo sono vittime della triplice
ingiustizia del cambiamento climatico, ma non c’è motivo per cui riconoscere la
loro terribile condizione implichi ignorare quella dell* altr* animali. Questo
non fa che acuire il problema e rafforza un binarismo arbitrario tra “noi” e
“loro”, un binarismo che è alla base di tutte le forme di ingiustizia. Le
famiglie, le comunità e le società non umane, proprio come le famiglie, le
comunità e le società umane nel Sud del mondo, vengono fatte a pezzi, distrutte
e spazzate via, a causa del cambiamento climatico. Anche l* altr* animali,
proprio come gli umani, patiscono sofferenze atroci a causa del cambiamento
climatico, quali fame, malattie, migrazioni forzate e perdita delle proprie
dimore.
Il fatto che
gli umani e l* altr* animali vengano sistematicamente abusati su una scala
senza precedenti in nome del profitto dovrebbe ispirare un senso di solidarietà
transpecie. Ma lo specismo è stato così profondamente interiorizzato dagli
umani e la violenza contro l* altr* animali così normalizzata nel tempo e nello
spazio, che alla maggior parte delle persone, incluso chi si mobilita per il
clima, non viene nemmeno in mente di mettere in discussione il diritto umano
sui corpi dell* altr* animali.
Ci deve
essere una ragione per cui il terrore e l’ansia che proviamo tutt* quando
veniamo a conoscenza dell’estinzione di un’altra specie di animali “selvatici”
si trasformano in indifferenza totale quando apprendiamo della macellazione di
animali allevat* a scopo di lucro, sia nelle fattorie a conduzione familiare
sia nel circuito industriale. È perché abbiamo estetizzato, reificato e
feticizzato “il selvaggio” (e i suoi abitanti) come oggetto di meraviglia e
incanto al punto tale che non vogliamo perdere il piacere estetico che ci
offre? O perché, se dovessimo affrontare l’orrore di ciò che stiamo facendo a
maiali, polli, mucche, capre, pecore e altr* animali allevat*, dovremmo
smettere di mangiarli, di indossarne pelle e pelliccia e di bere il latte delle
loro madri?
È come se la
sofferenza dei singoli animali rispetto alla scomparsa delle specie
(selvatiche) toccasse molto meno il movimento per la giustizia climatica, ma
anche le persone in generale. Forse perché una “specie” è, nella sua
astrattezza, meno minacciosa da considerare di un “individuo” o di una
“persona”. Se invece si prende in considerazione l’esperienza di un singolo
animale, una persona animale che assiste alla morte della propria famiglia e
dei propri amici, è probabile venirne più disturbati emotivamente. Ma ci
sottraiamo a questo sentimento, anche se potrebbe portarci a una maggiore
consapevolezza e compassione e a un agire realmente trasformativo: una
giustizia sociale davvero per tutt*, non solo per un gruppo di eletti (gli
umani).
Nessuna
giustizia multispecie nel capitalismo
Per
soddisfare l’urgente necessità di un concetto più inclusivo di giu-stizia
(climatica), attivist* e studios* antispecist* hanno teorizzato la “giustizia
multispecie”[22].
In senso ampio, la giustizia multispecie si basa su due principi fondamentali:
un approccio relazionale alla giustizia e il decentramento dell’umano. Il primo
principio deve partire dal riconoscimento delle diverse storie e pratiche di
violenza ambientale ed ecologica; solo così potrà promuovere ambienti
inclusivi, partecipativi, efficaci e rigogliosi e, inoltre, vie percorribili
verso un futuro più giusto.
Allo stesso
tempo, mentre decentra il singolo, una teoria (e una pratica) della giustizia
deve anche decentrare l’umano (o, che è lo stesso, la nozione individualista ed
eccezionalista di soggettività umana) e riconoscere la rete delle molteplici
interazioni quotidiane che lega insieme tutti gli esseri, umani e più che umani[23].
Esistono
teorie di rilievo sulla giustizia animale[24]:
Nussbaum propone un «approccio basato sulle capacità», fondando la giustizia
sul- la soddisfazione delle capacità specifiche della specie[25].
Donaldson e Kymlicka[26] offrono
una solida teoria politica dei diritti animali, in cui l* animali sono
considerati soggetti sovrani, abitanti e cittadin*, ossia membri a pieno titolo
di una comunità politica diversificata, dinamica e democratica. Angie Pepper,
un’altra studiosa del campo, tenta di col- mare il divario tra le teorie della
giustizia animale e climatica sostenendo un approccio cosmopolita
[cosmopolitan] alla giustizia climatica. Sviluppando quella che definisce una
«tesi per l’uguaglianza radicale», Pepper sostiene che la giustizia climatica
per gli animali non umani non può limitarsi ai «doveri di mitigazione» (cioè,
ridurre la pressione dell’estrattivismo umano) ma deve includere «doveri di
adattamento» che facilitino l’adattamento al cambiamento climatico antropogenico[27].
La proposta di Pepper è certamente convincente ma, come osservano Charlotte
Blattner ed Eva Meijer, mantiene un approccio tradizionale all’etica animale e
non riesce ad affrontare la dimensione intrinseca- mente politica e
imprescindibile del problema[28].
Questi
contributi, per quanto importanti e diversificati siano, si basano su una
tradizione politica liberale occidentale e, quindi, danno per scontato il
capitalismo come un sistema economico che, sebbene riformabile, non
necessariamente esclude la giustizia. Queste forme di ingiustizia, però, si
legano indissolubilmente al capitalismo globale. Il cambiamento climatico è
innegabilmente il prodotto di un sistema economico, sociale, culturale e
politico che, in poco più di due secoli, ha radicalmente cambiato il mondo
(ecco perché l’appellativo più appropriato per la nostra epoca è Capitalocene[29]).
Il livello di ingiustizia che gli umani, l* altr* animali e la Terra stanno
affrontando non sarebbe mai stato raggiunto senza il capitalismo globale[30].
Mentre va oltre lo scopo di questo articolo discutere in dettaglio il ruolo del
capitalismo nell’esacerbare la crisi climatica (e altre ingiustizie)[31],
è evidente che il sistema globale di produzione e consumo di massa – per non
parla- re della violenza dell’estrattivismo industriale[32],
redditizio tanto quanto sfruttatore – è enormemente distruttivo, perché genera
gigantesche quantità di rifiuti di plastica e industriali, di scarti tossici e
di emissioni di carbonio ed è causa di dolore e terrore immani sia per gli
umani che per l* altr* animali.
È come
minimo fuorviante presumere che si possa ottenere giustizia per chiunque finché
rimane in vigore un sistema così intrinsecamente violento. E presumere che la
giustizia sociale e climatica possano esse- re ottenute mentre gli altri
animali continuano a essere massacrati senza pensarci due volte non fa che
intensificare la crisi. Perché si dia una qualche speranza di ottenere la
giustizia sociale e climatica, deve esserci giustizia per l* altr* animali. Il
primo passo per ottenere giustizia per l* animali è opporsi al loro
sfruttamento e alla loro uccisione. Solo dopo può avere inizio un dibattito
serio.
NOTE
[*] Questo articolo è apparso per la prima volta in lingua inglese col
titolo No Climate Justice Wi- thout Justice for Animals in dePICTions volume 3:
“the Paris Institute”, 2023, https://parisinstitu-
te.org/no-climate-justice-without-justice-for-animals/#_ftnref26. Lo
pubblichiamo in traduzione con il permesso dell* autor*.
[2] R.E.A.Almond et al. (a cura di), Living
Planet Report 2022 – Costruire una società nature-positive, trad. it. di
Carlotta Maggio, Isabella Pratesi, Marco Antonelli e Marco Galaverni, WWF,
Gland, SEDE 2022.
[3] Enfasi dell* autor*. Il rapporto ha ricevuto una copertura ampia da
parte della stampa, vedi, per esempio, Lights Flashing Red for Wildlife amid
69% Populations Decline, in “Al-Jazeera”, 13 Ottobre 2022,; Hafsa Khalil, Global Wildlife
Populations Have Declined by 69% since 1970, WWF Report Finds, CNN, 13 Ottobre 2022,; Gloria Dickie, Global
Wildlife Populations Have Sunk 69% since 1970 – WWF Report, Reuters, 13 October 2022; Patrick Greenfield e Max
Benato, Animal Populations Experience Average Decline of Almost 70% since 1970,
Report Reveals, in “The Guardian”, 13 Ottobre 2022,.
[4] Questo punto è sottolineato anche nel comunicato stampa del WWF per
il Living Planet Report 2022: «Questi decrementi nelle popolazioni della fauna
selvatica possono avere conse- guenze disastrose per la nostra salute e le
nostre economie», afferma Rebecca Shaw, global chief scientist del WWF. «Quando
le popolazioni di fauna selvatica diminuiscono così tanto significa che
cambiamenti drammatici stanno avendo un impatto sui loro habitat e sul cibo e
sull’acqua da cui dipendono. Dovremmo preoccuparci seriamente della distruzione
degli ecosistemi perché queste stesse risorse sostengono la vita umana»: WWF,
69% Average Decline in Wildlife Populations since 1970, Says New WWF Report, 13 Ottobre 2022,
https://www.worldwildlife.org/press-
releases/69-average-decline-in-wildlife-populations-since-1970-says-new-wwf-report
[5] Dave Goulson, Silent Earth: Averting the Insect Apocalypse, Harper
Collins, New York 2021, cit. in Alice Crary e Lori Gruen, Animal Crisis: A New
Critical Theory, Polity Press, Cambridge 2022, p. 126.
[6] Kenny Bruno, Joshua Karliner e China Brotsky, Greenhouse Gangsters
vs. Climate Justice, San Francisco, TRAC—Transnational Resource & Action
Center, 1999, http://www.corpwatch.
org/sites/default/files/Greenhouse%20Gangsters.pdf.
[7] Cfr. www.animalclock.org per i dati aggiornati
[8] Cfr., per esempio, Amy Sinden, Climate Change and Human Rights, in
“Journal of Land, Resources, and Environmental Law”, vol. 27, n. 2, 2007, pp.
255-273; Ottavio Quirico e Mouloud Boumghar (a cura di), Climate Change and
Human Rights: An International and Comparative Law Perspective, Routledge,
London 2016.
[9] Per una introduzione generale a questi temi, cfr. Dominic Roser e
Christian Seidel, Climate Justice: An Introduction, Routledge, London 2017
[10] La letteratura scientifica e divulgativa su questo argomento è ampia.
Per alcuni riferimenti essenziali (e noti), cfr. Richard Leakey e Roger Lewin,
La sesta estinzione. La vita sulla terra e il futuro del genere umano, trad.
it. di Isabella C. Blum, Bollati Boringhieri, Torino 2015; Eliza- beth Kolbert,
La sesta estinzione. Una storia innaturale, trad. it. di Cristiano Peddis, Neri
Pozza, Venezia 2016
[11] Cfr. Franz J. Broswimmer, Ecocidio. Come e perché l’uomo sta
distruggendo la natura, trad. it. di Maria Cristina Coldagelli, Carocci, Roma
2005
[12] Justin McBrien, This is Not the Sixth Extinction. It’s the First
Extermination Event, in “Truthout”, 14 Settembre 2019,
https://truthout.org/articles/this-is-not-the-sixth-extinction-its-
the-first-extermination-event/. Cfr. anche Justin McBrien, Accumulating
Extinction: Planetary Catastrophism in the Necrocene, in Jason W. Moore (a cura
di), Anthropocene or Capitalocene: Nature, History, and the Crisis of
Capitalism, PM Press, Oakland 2016, pp. 116-137
[13] Danielle Celermajer, Omnicide: Who is Responsible for the Gravest of
All Crimes?, in “ABC Religion and Ethics”, n. 2 Gennaio 2020,
https://www.abc.net.au/religion/danielle-celermajer-
omnicide-gravest-of-all-crimes/11838534
[14] Il tentativo di Celermajer di cogliere l’ampiezza di questo crimine
con un neologismo non intende certo cancellare l’importanza delle morti
individuali; in Summertime: Reflections on a Vanishing Future (Hamish Hamilton,
London 2021), la studiosa affronta esplicitamente l’importanza critica delle
singole vite e il pericolo di “appiattire” le morti come se fossero semplici
unità numeriche. Il nostro punto, tuttavia, è che raggruppare tutti questi
diversi crimini sotto un’unica etichetta finisce per annacquare la specificità
dei crimini propri dell’industria degli allevamenti e dello sfruttamento
animale
[15] Per un esempio (fra i tanti), cfr. Quirin Schiermeier, Eat less Meat:
UN Climate-change Report Calls for Change to Human Diet, in “Nature”, 12 agosto 2019,
[16] Principles of Environmental Justice, First National People of Color
Environmental Leader- ship Summit, Washington D.C., 24-27 Ottobre 1991; Bali Principles
of Climate Justice, International Climate Justice Network, 28 Agosto 2002,
https://www.corpwatch.org/article/bali-principlesclimate-justice.
[17] Claire Palmer, Does Nature Matter? The Place of the Non-human in the
Ethics of Climate Change, in Denis G. Arnold (a cura di), The Ethics of Global
Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge 2011, p. 272. Questa
sembra essere la linea comune di molte discussioni sull’etica animale e il
cambiamento climatico, che troviamo, per esempio, nel nuovo libro di Jeff Sebo,
Saving Animals, Saving Ourselves: Why Animals Matter for Pandemics, Climate
Change, and Other Catastrophes, Oxford University Press, Oxford 2022: il tema è
che dovremmo salvare gli animali non umani, ma la ragione ultima è che è
l’unico modo per salvare noi stessi.
[18] Prima di conoscere ed entrare a far parte di AR (Regno Unito), un* di
noi era un membro di ER e ha cercato di attirare l’attenzione sugli animali da
allevamento in funerali pubblici. La sua proposta è stata rapidamente e
fermamente liquidata.
[19] Dinesh J. Wadiwel, The War Against Animals, Brill, Leiden 2015
[20] Timothy Pachirat, Sanctuary, in Lori Gruen (a cura di), Critical
Terms for Animal Studies, University of Chicago Press, Chicago 2018, p. 339
[21] Una argomentazione particolarmente sgradevole incolpa gli animali
allevati, e specialmente quelli allevati negli allevamenti, di essere la causa
della distruzione ambientale. Per esempio, si attribuisce agli animali negli
allevamenti fino al 51% delle emissioni di gas serra (per una discussione su
questi numeri, cfr. l’appendice al libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo
salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi, trad. it. di Irene
A. Piccinini, Guanda, Parma 2019). Superfluo rimarcare l’ipocrisia di cattivo
gusto che colpevolizza le vittime.
[22] Cfr., per esempio, Deborah Bird Rose, Wild Dog Dreaming: Love and
Extinction, University of Virginia Press, Charlottesville 2011; Eben Kirksey (a
cura di), The Multispecies Salon, Duke University Press, Durham 2014; Ursula K.
Heise, Imagining Extinction: The Cultural Meanings of Endangered Species, The
University of Chicago Press, Chicago 2016. E poi: Danielle Celermajer et al.,
Multispecies Justice: Theories, Challenges, and a Research Agenda for Environ-
mental Politics, in “Environmental Politics”, vol. 30, nn. 1-2, 2021, pp.
119-140; Petra Tschakert et al., Multispecies Justice: Climate-just Futures
With, For and Beyond Humans, in “Wiley
Interdisciplinary Reviews: Climate Change”, 28 Dicembre 2020,
[23] Charlotte Blattner e Eva Meijer, Animals and Climate Change, in Hanna
Schübel and Ivo Wallimann-Helmer (a cura di), Justice and Food Security in a
Changing Climate, Wageningen Academic Publishers, Wageningen 2021, p. 69.
[24] Cfr. Martha Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità,
nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna 2007 e il suo più
recente Justice for Animals: Our Collective Responsibility, Simon &
Schuster, New York 2023; Sue Donaldson e Will Kimlicka, Zoopolis: A Political
Theory of Animal Rights, Oxford University Press, Oxford 2013; Alasdair
Cochrane, Animal Rights Without Liberation. Applied Ethics and Human
Obligations, Columbia University Press, New York 2012; Robert Garner, A Theory
of Justice for Animals: Animal Rights in a Noni- deal World, Oxford University
Press, Oxford 2013; Brian Baxter, A Theory of Ecological Justice, Routledge,
London 2014, che comprende anche delle misure di giustizia per l* non uman*.
[25] M. Nussbaum, Beyond “Compassion and Humanity”: Justice for Nonhuman
Animals, in Cass R. Sunstein and Martha Nussbaum (a cura di) Animal Rights:
Current Debates and New Directions, Oxford University Press, Oxford 2005, pp.
299-320; Ead., Le nuove frontiere della giustizia, cit.; Ead., Justice for
Animals, cit. Cfr. anche David Schlosberg, Ecological Justice for the
Anthropocene, che prova ad applicare alla giustizia climatica l’approccio
basato sulle capaci- tà, in Marcel Wissenbrug e David Schlosberg (a cura di),
Political Animals and Animal Politics, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2014,
pp. 75-89.
[26] S. Donaldson e W. Kymlicka, Zoopolis, cit.
[27] Angie Pepper, Beyond Anthropocentrism: Cosmopolitanism and Nonhuman
Animals, in “Global Justice: Theory Practice Rhetoric”, vol. 9, n. 2, 2016, pp.
114-133; Ead., Justice for Animals in a Globalizing World, in Andrew Woodhall
and Gabriel Garmendia da Trinidade (a cura di), Ethical and Political
Approaches to Nonhuman Animal Issues, Palgrave Macmillan, Ba- singstoke 2017,
pp. 149-176; Ead., Adapting to Climate Change: What We Owe to Other Animals, in
“Journal of Applied Philosophy”, vol. 36, n. 4, 2019, pp. 592-607.
[28] C. Blattner e E. Meijer, Animals and Climate Change, cit., p. 67.
[29] Jason W. Moore (a cura di), Anthropocene or Capitalocene? Nature,
History, and the Crisis of Capitalism, PM Press, Binghamton 2016; Armel
Campagne, Le Capitalocène: Aux racines historiques du dérèglement climatique,
Éditions Divergences, Paris 2017.
[30] Per approfondimenti sulla relazione fra cambiamento climatico e
capitalismo, cfr. Max Koch, Capitalism and Climate Change: Theoretical
Discussion, Historical Development and Policy Re- sponses, Palgrave Macmillan,
Basingstoke 2011; Mark Pelling, David Manuel-Navarrete e Mi- chael Redclift (a
cura di), Climate Change and the Crisis of Capitalism: A Chance to Reclaim,
Self, Society and Nature, Routledge, London 2011; Naomi Klein, Capitale contro
clima, trad. it. di Marco Carassai, Castelvecchi, Roma 2020; Christopher Wright
e Daniel Nyberg, Climate Change, Capitalism, and Corporations: Processes of
Creative Self-Destruction, Cambridge University Press, Cambridge 2015; David
Camfield, Future on Fire: Capitalism and the Politics of Climate Change, PM
Press, Binghamton 2022.
[31] Questo ruolo è stato ampiamente teorizzato nella letteratura
eco-marxista. Il rapporto tra capi- talismo e animali è stato specificamente
affrontato, per esempio, da Maan Barua nel recente Lively Cities: Reconfiguring
Urban Ecology, University of Minnesota Press, Minneapolis 2023.
[32] Alcuni teorici della giustizia multispecie, in effetti, hanno affrontato
la questione del capitali- smo. Cfr. D. Celermajer et al., Multispecies
Justice, cit.; Ead. et al., Justice Through a Multispecies Lens, in
“Contemporary Political Theory”, vol. 19, n. 3, 2020, pp. 475-512; D.
Celermajer, D. Schlosberg, D. Wadiwel e C. Winter, A Political Theory for a
Multispecies, Climate-Challenged World: 2050, in “Political Theory”, vol. 51 n.
1, 2023, pp. 39-53. Tschakert et al., Multispecies Justice, cit.
Il testo è
stato pubblicato anche su Liberazioni, n. 54, 20 settembre 2023. Traduzione
di Federica Timeto
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