Mahasweta Devi non c’è più. Scrittrice, una delle più grandi figure
letterarie dell’India contemporanea, è morta il 28 luglio a Calcutta, la sua
città, dopo un attacco di cuore. Aveva 90 anni. Ha speso gran parte della
sua vita e della sua scrittura alla difesa dei diritti degli oppressi, e in
particolare degli adivasi, i nativi dell’India. Nata nel 1926 a
Dhaka (allora Bengala orientale, oggi Bangladesh) in una famiglia di letterati
e artisti, Devi si è trasferita nel Bengala occidentale dopo la Spartizione
dell’India nel 1947; ha frequentato l’università fondata da Rabrindanath Tagore
a Shantiniketan, in seguito si è stabilita a Calcutta. (Alcune notizie bio
e bibliografiche sono qui e qui).
Difficile riassumere la sua opera in poche righe: significa parlare di letteratura, di come ha usato la tradizione orale e le lingue viventi dell’India (lei ha sempre scritto in bengalese, solo in un secondo tempo le sue opere sono state tradotte in inglese), e anche di militanza politica.
Il suo primo libro è del 1956, The Queen of Jhansi, la storia della giovane donna che guidò la prima rivolta contro il potere coloniale a metà del XIX secolo. Da allora ha pubblicato decine di romanzi e numerosi racconti, ora raccolti in 42 volumi dalla casa editrice Seagull di Calcutta. Storie raccontate con grande maestria letteraria («le donne dei suoi racconti sembrano balzare fuori dalle pagine e assumere tre dimensioni», notava durante una presentazione a Roma Anna Nadotti, curatrice di una raccolta dei racconti di Mahasweta Devi pubblicata presso Einaudi: La preda e altri racconti, 2004: una tra le pochissime traduzioni in italiano). Da alcune sue opere sono stati tratti dei film: in particolare Madre del 1084, di Govind Nihalani (1998), dal romanzo omonimo, e più tardi Gangor, di Italo Spinelli (2011), ispirato al racconto Choli Ke Peeche(“Sotto il corsetto”). Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Magsaypay Award che è considerato un equivalente indiano del Nobel per la pace. Bisogna ricordare anche, in Italia, il Premio Nonino per “un maestro del nostro tempo”, 2005.
Ho incontrato diverse volte questa straordinaria scrittrice a Roma e poi a Calcutta: persona affascinante, Mahasweta didi ha sempre trovato il tempo per parlare delle sue battaglie. Nel testo che segue avevo cercato di rendere conto di questi incontri (lo riprendo da Il cuore di tenebra dell’India, ottobre 2012, mia ricerca sul conflitto sociale che percorre l’India profonda). (ma.fo.)
Difficile riassumere la sua opera in poche righe: significa parlare di letteratura, di come ha usato la tradizione orale e le lingue viventi dell’India (lei ha sempre scritto in bengalese, solo in un secondo tempo le sue opere sono state tradotte in inglese), e anche di militanza politica.
Il suo primo libro è del 1956, The Queen of Jhansi, la storia della giovane donna che guidò la prima rivolta contro il potere coloniale a metà del XIX secolo. Da allora ha pubblicato decine di romanzi e numerosi racconti, ora raccolti in 42 volumi dalla casa editrice Seagull di Calcutta. Storie raccontate con grande maestria letteraria («le donne dei suoi racconti sembrano balzare fuori dalle pagine e assumere tre dimensioni», notava durante una presentazione a Roma Anna Nadotti, curatrice di una raccolta dei racconti di Mahasweta Devi pubblicata presso Einaudi: La preda e altri racconti, 2004: una tra le pochissime traduzioni in italiano). Da alcune sue opere sono stati tratti dei film: in particolare Madre del 1084, di Govind Nihalani (1998), dal romanzo omonimo, e più tardi Gangor, di Italo Spinelli (2011), ispirato al racconto Choli Ke Peeche(“Sotto il corsetto”). Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Magsaypay Award che è considerato un equivalente indiano del Nobel per la pace. Bisogna ricordare anche, in Italia, il Premio Nonino per “un maestro del nostro tempo”, 2005.
Ho incontrato diverse volte questa straordinaria scrittrice a Roma e poi a Calcutta: persona affascinante, Mahasweta didi ha sempre trovato il tempo per parlare delle sue battaglie. Nel testo che segue avevo cercato di rendere conto di questi incontri (lo riprendo da Il cuore di tenebra dell’India, ottobre 2012, mia ricerca sul conflitto sociale che percorre l’India profonda). (ma.fo.)
Il diritto al sogno
«Io affermo che un diritto umano
fondamentale è il diritto a sognare. Tutti hanno i propri sogni. Ad esempio un
mondo senza polizia e sfruttatori, o il sogno dell’eguaglianza sociale. Grandi
cose sono nate dai sogni.» Ritrovo queste frasi di Mahasweta Devi, forse la più
grande scrittrice vivente in lingua bengalese, in una conversazione di qualche
anno fa. Diritto a sognare, diceva, significa che «tutti hanno il diritto a
rivoltarsi».
Mahasweta Devi ha speso gran parte della sua vita, e della sua scrittura,
per sostenere il «diritto al sogno» degli oppressi – donne, contadini, operai, e
in particolare degli adivasi, o «tribali», i nativi dell’India rurale. Nelle
sue pagine si agita un mondo di oppressi, donne e uomini dell’India rurale
profonda, storie di ingiustizie cocenti ma anche di rivolta,
raccontate con umanità e passione. Il risultato è una produzione
letteraria straordinaria, e insieme una vita dedicata alla militanza politica.
(«Dicono che unisco la scrittura all’attivismo sociale? Per me la
scrittura è attivismo sociale», mi diceva ancora in quella
vecchia intervista: «Le parole hanno un potere enorme. Le grandi armi non
durano, hanno il potere di distruggere ma non di creare. le parole creano, e le
parole durano. … La scrittura è uno strumento di battaglia»).
Torno a cercare Mahashweta didi al termine del mio ultimo
viaggio in Jharkhand, nel dicembre 2011. La trovo seduta sulla sua sedia piena
di cuscini nel minuscolo terrazzino di casa sua, un condominio popolare nella
Calcutta sud, davanti a un tavolo ingombro di libri e carte. Questa faccenda
delle terre tolte ai contadini per darla alle industrie è l’ultima ingiustizia,
mi dice quasi spazientita, perché lei queste cose le dice e le scrive da anni.
E ormai lei è stanca, borbotta. Ma poi torna a infervorarsi: a 86 anni compiuti
Mahasweta Devi continua a scrivere, a mobilitarsi per sostenere i
movimenti popolari, formare comitati, raccogliere aiuti, spendere la sua
autorevolezza per sostenere cause di giustizia – e scrivere racconti, con quel
suo linguaggio che cattura i lettori.
«L’ingiustizia sociale è ovunque», ripete nel mite inverno di Calcutta: «La
giustizia del resto non è cosa che ti può essere consegnata: va conquistata, e
una persona sola non ce la farà mai, ci vuole una volontà collettiva».
Sui tribali, insiste Devi, resta lo stigma sociale della colonizzazione:
anche nella “nuova” India indipendente gli è rimasta addosso l’etichetta di
vagabondi e criminali appioppata loro dai colonizzatori britannici. «Vivono
nelle foreste, esclusi dalle modernità come l’istruzione, l’acqua potabile o le
strade. Ci sono 90 milioni di tribali in India: usati, linciati, uccisi dalla
polizia nella totale impunità. E cacciati dalle loro terre. Per me, lavorare
per ristabilire i loro diritti umani e di cittadini è la cosa più importante.
Eppure, la società adivasi è per molti aspetti la più civile in India. Pensa:
non c’è disparità di genere, le donne non hanno un ruolo subalterno. Donne e
uomini hanno pari diritto all’eredità. Non esiste il sistema della dote,
divorzio e nuovo matrimonio sono ammessi per uomini e donne. È una società egualitaria».
Eppure non c’è idealizzazione in ciò che dice Mahasweta Devi. Cresciuta in
una famiglia di poeti e scrittori, formata all’università di Shantiniketan nel
1936, quando era ancora vivo Rabindranath Tagore, Mahasweta Devi è convinta che
la tradizione orale sia una fonte importante della storia: «Il mio primo libro
è stato The Rani of Janshir. Questa rani [regina]
era stata una leader della prima guerra di indipendenza contro i britannici,
nel 1857-’58. Aveva combattuto con un esercito di donne. Io volevo capire
perché una donna che era stata maritata a 8 anni, all’età di 18 decide di
andare a combattere, si mette alla testa di un’armata, cavalca, combatte, fino
a essere uccisa a 22 anni. Cosa l’ha spinta? Così ho lavorato alla sua
biografia. Mio figlio aveva 4 anni, l’ho lasciato a mio marito e ho viaggiato
nelle zone remote dove la rani aveva vissuto, a raccogliere la memoria di
quegli eventi: per me la tradizione orale è una fonte importante della storia».
Parla anche della cultura e della lingua, anzi le numerose lingue tribali.
«C’è molto da scoprire in ciò che le persone magari analfabete raccolgono nella
loro memoria», mi diceva. «In tutti questi anni ho cercato di scoprire l’India,
la vita delle persone comuni, le ingiustizie, le enormi potenzialità di tante
persone forti, coraggiose, che soffrono e combattono. La natura dello
sfruttamento va scoperta. Anche la lingua: se scrivi delle comunità di
pescatori, o contadini, o tribali, devi rispettare il loro linguaggio così
diverso da quello di una persone istruita urbana. Siamo circondati di lingue
viventi: dobbiamo ascoltarle con rispetto e usarle».
Parla delle donne: «Io scrivo di una società in cui donne, uomini, bambini,
tutti sono vulnerabili. La donna però è più vulnerabile, e proprio per il suo corpo:
è stato così attraverso la storia. È così nella vicenda di Draupadi, uno dei
miei racconti: al centro c’è lei che subisce uno stupro di gruppo. E perché?
perché dava sostegno ai giovani ribelli della sua comunità tribale. Suo marito
è stato ucciso. Per “punirla” della sua ribellione sarebbe bastata anche per
lei una pallottola, ma invece decidono per lo stupro. La donna ha un corpo
attraente, capace di amare e di generare figli: questa è l’immagine della
donna, colei che genera e nutre gli umani, l’acqua, la terra, gli animali.
Dunque, se vuoi darle una lezione fai violenza al suo corpo. Io parlo
dell’India ma questo è vero ovunque, donne punite perché si sono ribellate al
sistema». Già, non ricorda forse una nuova versione di Draupadi la terribile violenza inflitta a Soni Sori, “punita” per aver
continuato a vivere e battersi per la sua gente nelle foreste della regione Bastar?
Mahasweta Devi dice che i conflitti nascono da «gap di comunicazione». Un
gap comunicativo, diceva, «è che stai seduto nella tua comoda casa di Calcutta
e non hai neppure idea della vita in un villaggio senza acqua potabile, strada,
scuola, ambulatorio. Magari vai a vedere ma non sai come leggere ciò che vedi
perché ti è lontano. Ci sono molti gap di comunicazione. Se parli e dici che
una popolazione è rimasta senza casa, terra e diritti, e che non vogliono
quattro soldi di risarcimenti ma terra, ti dicono che stai facendo political
disturbance. E’ un altro gap di comunicazione».
Prima di congedarmi, nel suo terrazzino assolato, Mahasweta Devi tiene a
ripetere che lei ha ancora molto da scrivere: e la scrittura, ripete, esiste se
ha uno scopo.
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