L’acqua è cristallina, in trasparenza si vede il fondale. Tuffarsi è
delizioso. Poi magari cambia la corrente. Oppure il mare è agitato. È una
medusa quella? No, un sacchetto di plastica bianchiccio. Poi un altro, poi un
altro. In acqua ora galleggiano pezzi di plastica, frammenti di sacchetti, un
sandalo rotto. Arrivano dalla spiaggia, dalle barche di passaggio? Sì, anche,
ma perfino davanti alla spiaggia più pulita può capitare di trovare plastiche e
altri rifiuti galleggianti. Sono prodotti umani e arrivano da terra, questo è
certo, ma magari da lontano: poi viaggiano trasportati da venti e correnti.
Sacchetti, bottiglie, posate, teli lacerati, pezzi di giocattoli, gli
infiniti oggetti della vita quotidiana. Oppure imballaggi, pezzi di reti da
pesca. Una enorme massa di rifiuti, soprattutto di plastica. Uno studio pubblicato
l’anno scorso su Science stima che tra 4,8 e 12,7 milioni di
tonnellate di plastica finisca negli oceani ogni anno, 8 milioni di tonnellate
nell’ipotesi media (lo studio ha preso a riferimento l’anno 2010, considerando
i 275 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica prodotti entro 50 chilometri
dalle coste dei 192 paesi affacciati sul mare).
Un pericolo per il mare
Insomma, milioni di tonnellate di detriti plasticosi galleggiano alla
deriva. La letteratura scientifica ne parla fin dagli anni settanta, ma allora
pochi ci facevano caso: la consapevolezza generale sta arrivando, a fatica,
solo ora.
Eppure ormai sappiamo che la plastica è un pericolo mortale per la vita
marina. È destinata a restare in mare per decenni, anzi secoli; ogni nuovo
oggetto si aggiunge a quelli che ci sono già, perché la plastica non si
degrada. Si frantuma, invece, in pezzi sempre più piccoli, e questo è parte del
problema. I pezzetti verranno ingeriti da pesci e molluschi, perfino da
invertebrati microscopici, per accidente o perché li scambiano per cibo: così i
pezzetti entrano anche nella catena alimentare. Molte specie marine rischiano
di mangiare plastica, specialmente le tartarughe e i cetacei, che scambiano
quei frammenti per le piccole meduse o i molluschi di cui si nutrono. Spesso
l’effetto è letale.
La deriva della plastica negli oceani segue dinamiche affascinanti, che gli
scienziati studiano ormai da tempo. Sappiamo che i rifiuti arrivano dalle coste
più abitate o con grande concentrazione di attività industriali. Alcuni si
depositano sui fondali, ma la gran parte resta a galla. Portati da venti e
correnti tendono a raccogliersi in “banchi”, o “macchie”, aggregazioni così
grandi che a volte si sente parlare di “isole” di rifiuti: si dice che la Great
Pacific garbage patch, nel Pacifico settentrionale, sia fino a due volte il
Texas, che è tre volte l’Italia. Questa però è leggenda. Quanto siano grandi
queste aggregazioni è difficile da dire, anzi impossibile.
Non esistono stime scientificamente ragionevoli, leggiamo sul sito della National oceanic
and atmospheric administration (Noaa), l’agenzia statunitense che si
occupa di ricerca oceanografica e dell’atmosfera, perché non si tratta di
“isole” ma di masse che si muovono, si disperdono, si riaggregano. E poi,
quella del Pacifico settentrionale è la maggiore, ma non l’unica.
I rifiuti galleggianti in una mappa
Un gruppo di climatologi e matematici dell’università di South Wales, in
Australia, ha studiato
l’evoluzione dei sei “banchi” di rifiuti corrispondenti alle
grandi zone subtropicali degli oceani, osservando come i nuovi rifiuti
rilasciati dalle coste finiscono in quei grandi agglomerati. La dinamica è
illustrata in questa mappa.
Secondo questi studiosi, alcuni “banchi” tendono a disperdersi e riformarsi
(per esempio quelli dell’oceano Indiano e dell’Atlantico meridionale), mentre
il “banco” del Pacifico settentrionale tende ad attrarre detriti dagli altri
bacini.
Intanto quella mappa dice che un rifiuto buttato in mare in qualunque punto
del Mediterraneo resterà nel Mediterraneo. Siamo in un sistema chiuso: una
plastica gettata presso le coste della Spagna o dell’Egitto può arrivare
nell’Egeo, nel Tirreno, davanti alle coste marocchine o siciliane. In Italia,
tra l’estate del 2014 e quella del 2015, la Goletta Verde di Legambiente ha
monitorato 2.600 chilometri di coste e ha avvistato oltre 2.700 rifiuti
galleggianti più grandi di 2,5 centimetri: il 95 per cento è plastica. Risulta che
il mare più denso di rifiuti galleggianti è il Tirreno centrale, con 51 rifiuti
per chilometro quadrato; seguono l’Adriatico meridionale (34) e lo Ionio (33).
Così torniamo alla nostra baietta con l’acqua cristallina. Ovunque sia,
rischieremo sempre di trovare un po’ (o tanta) plastica alla deriva: almeno
finché non riusciremo a evitare che la plastica finisca in mare. Questo
significa usarne di meno e poi raccogliere, riciclare, smaltire in modo
appropriato. Ma serviranno azioni globali: come molti dei problemi del nostro
tempo, anche l’inquinamento dei mari non conosce frontiere.
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