venerdì 15 luglio 2011

Cosa vuol dire essere sardo? - Alessandro de Roma

Una settimana di Sardegna sarebbe di per sè una cosa molto bella. Soprattutto se si è sardi e quindi tornare significa, non solo godere del mare e dei paesaggi, ma anche rivedere amici e luogi ai quali si è molto affezionati. Peccato solo che esista il fondamentalismo sardo a rendere agrodolci certi momenti.

Quello strano miscuglio di complesso di inferiorità e sciovinismo estremo che rende spesso i sardi del tutto immuni all’autocritica (e invece vulnerabili a qualunque abuso di potere di tipo coloniale). Fessi e contenti, per così dire.

Qualche esempio? In Sardegna si mangiano solo cose genuine, guai a dire il contrario. Guai a pensare che così non sia.

Peccato che in Sardegna sia difficile anche solo trovare uova di galline allevate a terra, o reparti di frutta e verdura con prodotti locali. La frutta e la verdura sono rigorosamente confezionate in scatole di plastica e/o polistirolo e di solito importate da luoghi lontani. Lavate a casa con cura (perché va bene che è tutto genuino, ma non si sa mai…) e mangiate poi in piatti di plastica (credo che la Sardegna sia il luogo al mondo in cui i piatti di plastica siano più utilizzati).

Così, nella corrotta e impura Costa Azzurra in cui abito, io mangio le zucchine e le cipolle del contadino che vende al mercato rionale di Saint Roch i prodotti del suo orto (e me li vende a un euro il chilo, ancora con la terra sopra), mentre in un qualunque paese dell’interno della Sardegna compro pesche spagnole, banane Del Monte e Ananas del Costarica, a prezzi impossibili: tutto già tagliato e sbucciato a migliaia di chilometri di distanza. A meno che non abbia la fortuna di avere una zia con l’orto. Cosa che però è sempre più rara e, ai turisti, di solito non capita: così che lasceranno l’isola pensando di essere stati a Los Angeles e non a Putzu Idu.

Perché smentirli? Ci piace che tornino a casa con la convinzione di essere stati a Los Angeles...

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