La speculazione energetica in Sardegna. Intervista (di Angela Fais ) all'antropologo Armando Maxia, fondatore e Direttore dell’ “Eco-museo della montagna sarda”
La folle transizione energetica in
Sardegna ha profonde ricadute da un punto di vista anche antropologico e
culturale, delle quali troppo poco si parla. Si è comprensibilmente più
preoccupati dalle conseguenze di ordine ecologico che avranno una portata
devastante sotto il profilo dell’impatto ambientale, o da quelle di natura
economica. La svolta ‘green' infatti rappresenterà una irrimediabile iattura
per l’economia dell’isola e delle famiglie sarde.
Ricordiamo che la Sardegna costituisce ‘un unicum’ dal punto di vista
archeologico. Ha uno sviluppo che viaggia continuo nel corso dei millenni che
precedettero il periodo punico-romano, con più di diecimila monumenti
archeologici. Ottomila torri megalitiche (più note come nuraghes) risalenti
alla età del bronzo nuragica, e quattromila e oltre domus de janas, menhir o
dolmen che risalgono a un periodo ancora più antico. E fa male al cuore sapere
che sono state già richieste autorizzazioni per installare impianti anche sopra
siti di interesse archeologico ancora non scavati. E ancor più
sconcertante è scoprire che, a fronte di questa immensa eredità che un paese
come il nostro non dovrebbe mai svendere, si celano intrecci che riconducono a
scenari “interessanti”. Per cui dietro una società da diecimila euro che ha
presentato un progetto per un impianto di 800 ettari di pannelli a Saccargia,
in realtà c’è il più ricco oligarca ucraino, R.L. Achmetov, che è anche
proprietario della Azovstal, l’acciaieria in cui era asserragliato il battaglione
Azov durante la fase finale della battaglia di Mariupol’.
La speculazione energetica altro non è che il più recente e terribile
capitolo di uno sfruttamento che purtroppo si inscrive nella storia della
Sardegna stessa.
Basti pensare che l’isola è già colonia militare, subendo una occupazione
Nato con quarantamila (40.000) ettari occupati da poligoni militari che fanno
sì che su di essa insistano il 60% delle servitù militari d’Italia, pur
rappresentando solo il 2% della popolazione. Come Lampedusa è un’isola
militarizzata in cui, seppur in modalità differenti, si vive il dramma di
trovarsi ospiti in casa propria.
Come altre volte detto, se tutti i progetti presentati dovessero essere
approvati, sulla scorta di iter autorizzativi consentiti da decreti e norme che
sembrano concepiti proprio per favorire gli interessi dei colossi
multinazionali, a essere dedicata agli impianti sarebbe una area di 70mila
ettari.
Facendo riferimento all’estensione interessata dagli impianti si ragiona
sempre in termini di suolo. In realtà se parliamo anche di eolico non sono
semplicemente la superficie, il suolo a essere “consumati” perchè le pale, alte
più di 200 mt, si vedono sino anche a 70km di distanza. A essere consumato è
anche paesaggio, non solo suolo. Si disegna un altro paesaggio, che racconta
un’altra storia.
Di tutto ciò abbiamo parlato con il Dottor Armando Maxia, antropologo,
fondatore e Direttore dell’ “Eco-museo della montagna sarda”, museo
etnoantropologico diffuso che si trova nel territorio di Aritzo, in Barbagia,
provincia di Nuoro. Autore di numerosi testi, parecchi dei quali tradotti anche
in russo, il Dottor Maxia si è molto soffermato sul tema della lingua sarda e
sopratutto sul legame tra il territorio e le comunità. Gli abbiamo chiesto
quali possano essere le ricadute della speculazione da un punto di vista
antropologico-culturale per una terra come la Sardegna. Non ha dubbi nel dirci
che certamente ci sono importanti risvolti da un punto di vista paesaggistico,
essendo questi impianti destinati a ‘spazi rilevanti in senso
antropologico-culturale’. Dove per ‘spazi rilevanti dal punto di vista
antropologico-culturale’ dobbiamo considerare il fatto che in Sardegna, essendo
essa in gran parte una terra il cui territorio conosce poco l’habitat disperso
e che anzi - afferma il dott. Maxia- è in essa tradizionalmente assente, il
territorio si colora di fortissime connotazioni simboliche. Ci spiega Maxia:
“Occorre richiamare, per chi ancora non lo sapesse, che in gran parte della
Sardegna rurale vige ancora, e per fortuna aggiungerei, una concezione e una
percezione dello spazio di ‘antico regime’ perché rispetto ad altri luoghi
diverse sono state le pratiche di umanizzazione e addomesticamento dello spazio
e di manipolazione del territorio, ad eccezione infatti delle 4 cuspidi
geografiche rappresentate dalla Nurra, Sulcis, Gallura e Sarrabus Gerrei in cui
erano presenti insediamenti di pastori e contadini stabili. Quel che si dice
‘un habitat disperso’ appunto. Nel resto dell’isola invece persiste una concezione
e una pratica dicotomica dello spazio - prosegue Maxia - che viene
rappresentato come un dentro e un fuori: ‘sa idda’ e ‘su monte’, ossia il
villaggio e la montagna. Il primo rappresenta il luogo in cui la vita sociale
si svolge al suo massimo grado e in cui si risiede con la famiglia; il secondo,
il monte, è il luogo in cui ci si reca per svolgere esclusivamente le attività
lavorative ma lì non si risiede coi familiari. Lo spazio del monte, anche a
causa di una esigua presenza di lavoro femminile, è scarsamente antropizzato e
storicamente esposto al rischio di regressione allo status selvatico. Però è
una risorsa percepita, anche da un punto di vista simbolico, come richiamabile
nei momenti di crisi sul piano comunitario e individuale anche quando questo
spazio non è più parte degli usi comunitari ed è ormai inserito in pieno regime
di proprietà privata”, conclude il dott. Maxia.
Si, perchè sino al 1820 i due terzi dell’isola erano ancora proprietà
collettiva: dei Comuni, dello Stato , delle comunità di villaggio. Poi con la
“legge delle chiudende” nel 1820, i piemontesi cercarono di modernizzare la
Sardegna col tentativo di introdurla a pieno nella economia capitalistica;
essendo essa già all’interno della economia di mercato, ma ancora
prevalentemente legata a una economia comunitaria. Dunque questi spazi,
anche quando in seguito diventano proprietà di privati, continueranno e
continuano a essere percepiti, sul piano simbolico e dell’attaccamento
affettivo, come spazi comunitari. Adesso però saranno completamente sconvolti
da questo intervento devastante che sfigurerà il volto dell’isola. Oltretutto
E’ chiaro che la diffusione di impianti sottrae territorio a una Regione che
vive ancora di pastorizia e di agricoltura.
Ci spiega Maxia che la montagna, ‘su monte’, è “un precipitato di usi, di
pratiche ergologiche, di memoria comunitaria e di storie intorno a cui viene
strutturata l’autorappresentazione personale e di gruppo”. Sulla scorta di
quanto detto però immaginiamoci quale peso possa acquisire tale mutamento: è lo
sdradicamento dei popoli, l’annullamento della cultura antropologica. Trovarsi
a vivere in dei veri e propri “non luoghi” per dirla con Marc Augè: omologati,
appiattiti, non identitari e non relazionali, non storici, non antropologici.
Nei quali non abita nessuno e in cui la storicità è marginalizzata. Cancellato
il passato, se esiste solo il presente, si cancella anche il futuro. “Lo spazio
viene prodotto su scala industriale quindi non ha più individualità storica
perché è prodotto in serie, mentre tradizionalmente esso è fatto di
sedimentazioni storiche e simboliche. Non si legge più l’originario tessuto
storico-antropologico”. E’ chiaro, e Maxia concorda, che qui il punto focale è
proprio l’annullamento della cultura antropologica. Si annichilisce l’umanità
nel nome di una politica scellerata al servizio di colossi privati. E
questo riguarda l’umanità, non solo la Sardegna e la sua cultura: “Un luogo
vissuto simbolicamente riceve maggiore salvaguardia dalla comunità, ad es. nel
caso di un incendio. Ora si stravolge lo spessore storico- antropologico. Ma
gli impianti non appartengono a noi sardi. Si sostituisce lo spazio comunitario
con 'lo spazio multinazionale’ ”, spiega animatamente il Dott. Maxia,
concludendo la nostra conversazione.
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