Non è necessario essere degli storici di professione per sapere che uno dei grandi salti paradigmatici che dobbiamo alla scuola degli Annales è il riscatto epistemologico della vita quotidiana. Lungi dall’essere un orpello inutile, è grazie all’immersione nella vita di tutti i giorni che possiamo comprendere davvero un fatto storico, piuttosto che limitarci alla superficie di ciò che definiamo comunemente storia politica. A volte mi pare che proprio questa conquista sia un grande rimosso del nostro tempo. Uno degli imperativi delle analisi politiche contemporanee è infatti surfare, restare sulla superficie per discutere di argomenti e temi che hanno la stessa volatilità delle onde in giornate di vento.
Così, mentre
i nostri analisti politici pettinano il proprio ego come i surfisti curano i
propri muscoli e tutti cediamo alla tentazione della spettacolarizzazione della
politica, la vita quotidiana cambia senza che noi ce ne accorgiamo.
Qualcosa o qualcuno esercita un potere diretto su di noi. La biopolitica
spiegata ai non addetti ai lavori: segui la vita quotidiana e capirai
dove sta davvero la sovranità, mentre in tv e sui giornali continuiamo a
occuparci di quel simulacro della sovranità che ci ostiniamo a chiamare
politica. Coltivare quest’attenzione ostinata e controvento rispetto ai
cambiamenti della nostra vita quotidiana mi pare così un vero e proprio atto di
resistenza politica e di rigenerazione del pensiero critico. Prestare più
attenzione alle cose che ci accadono senza che ce ne accorgiamo e meno
attenzione alle parole di Meloni o ai colori dei vestiti di Schlein. Per
distinguere meglio le evidenze della politica.
Per esempio
– senza alcuna preventiva discussione pubblica e senza che nessuno ci abbia per
così dire avvertito prima – a me pare che nell’ultimo anno sia avvenuto un
cambiamento dei nostri comportamenti che ha delle conseguenze politiche durevoli,
profonde e capaci di modificare strutturalmente il nostro rapporto col
mondo. Come a molti di noi, anche io uso ormai in modo quasi marginale
il contante e l’ho sostituito con le transazioni digitali. Non è ovviamente
una semplice percezione personale, quanto una rappresentazione sociale. Che gli
scienziati sociali stanno già valutando per comprenderne l’intenzionalità e le
coordinate. Intanto alcune cose si possono dire.
Per
cominciare, questo cambiamento ha delle sue regole di tempo e di spazio. È un
cambiamento intergenerazionale ma non universale: mi pare coinvolga
trasversalmente i giovani e le persone di mezza età, mentre tenda a essere meno
rilevante per gli anziani. Soprattutto non coinvolge tutti gli spazi del
mercato, ma solo alcuni. Può apparire paradossale, ma si sta verificando uno
scenario rovesciato rispetto all’eterno dibattito sul limite superiore dell’uso
del contante, su cui destra e sinistra per decenni hanno battibeccato. Per
quanto i dati dicano che vi è stato un significativo aumento delle entrate
fiscali, la situazione paradossale è quella per cui ormai ci fa comodo
utilizzare le transazioni digitali per le piccole spese più che per le grandi.
Per fare un esempio scorretto ma sincero: l’idraulico continuiamo a pagarlo
preferibilmente in nero e in contanti, ma il caffè al bar ci fa comodo ormai
pagarlo con la carta di credito o, ancor meglio, con il suo sembiante contenuto
nel cellulare. La conseguenza è dunque che non abbiamo abolito
l’evasione fiscale, ma rischiamo di abolire l’elemosina. Per pagare i
grandi professionisti in nero ci attrezziamo, ma se qualcuno viene a chiederci
un euro nel parcheggio di un supermercato, allora ci accorgiamo che le nostre
tasche sono vuote: pure il mendicante deve dotarsi del Pos (ma poi dovrebbe anche
pagare la commissione).
Già da
queste prime considerazioni si capisce quali siano le conseguenze politiche
della diffusione su larga scala di questo modello di scambio.
La prima
conseguenza è precisamente di rendere per l’ennesima volta evidente il salto di
specie della sovranità. Quello che la politica ha tentato vanamente di fare per
anni – limitare l’uso del contante per rendere i nostri pagamenti il più
possibile tracciabili – il capitalismo lo ha fatto in brevissimo tempo. Così
mentre noi continuiamo a guardare il dito non ci accorgiamo che è la luna che
trasforma il mondo. E che la sovranità appartiene al capitale che decide se
rallentare o accelerare in base a parametri che non sono in alcun modo
condizionati dalle libere decisioni politiche espresse nelle sedi
democraticamente legittimate. In questo caso, non possiamo certo dire che
l’orientamento dato al fenomeno sia del tutto fortuito. È evidente infatti,
come del resto ho già ricordato, che la scelta di puntare all’incremento di
transazioni digitali avvenga scaricando i costi sui piccoli commercianti e
andando a favore degli interessi delle grandi aziende e dei grandi monopoli.
Del resto la
finanziarizzazione dei processi produttivi comporta questo tipo di passaggio ed
è sempre più centrale. Forse tutti abbiamo notato che negli spot delle
automobili non si legge più il prezzo complessivo, ma il dettaglio delle rate
mensili. Se un tempo comprare l’automobile in contanti era una manna
dal cielo per il commerciante, oggi è lo stesso mercato che di fatto lo vieta o
lo rende difficile. Perché il vero plusvalore non è tanto sulla vendita del
prodotto, ma sulla vendita del pacchetto finanziario. Il finanziamento
non serve più a comprare la macchina, ma comprare la macchina è il pretesto
buono per costringerci ad accendere un ulteriore finanziamento. Tutti
processi di progressiva abolizione del contante attraverso cui il capitalismo
si finanziarizza sempre di più; i dispositivi di controllo e tracciamento della
nostra vita diventano più invasivi fino al punto che persino il numero dei
caffè che prendiamo quotidianamente è ormai affidato ad archivi digitali su cui
non esercitiamo alcun tipo di controllo (comprando il caffè al bar con la
carta, sto di fatto vendendo anche l’ennesima fetta del controllo sulla mia
vita quotidiana); infine, la nostra vita diventa sempre più orientata dal
meccanismo economico e simbolico del debito.
Questo
indebitamento diventa paradossale, nostro malgrado. Tutti ricordiamo che una
delle cause della grande crisi del 2008 negli States fu proprio l’esplosione
della bolla del credito. Ma l’indebitamento era in quel caso dovuto a una
mancanza di controllo rispetto a grandi spese, in fedeltà alla megalomania
dell’american dream. Nel nostro caso, le cose sono un po’ diverse e, per
certi versi, anche più inquietanti. Non solo siamo disposti – anzi, costretti –
a indebitarci per comprare una casa o una macchina, ma non ci pone alcun
problema indebitarci per un caffè. Perché il risultato concreto del pagare la
colazione al bar con la carta di credito (che per fortuna ha una parte
rilevante ma non ancora egemonica delle transazioni digitali) è che quello
scambio non si conclude immediatamente, ma qualche settimana dopo, quando il
conto della carta di credito maturerà. Invece che diffidare delle vite
indebitate – imparando le lezioni della storia recente – stiamo accettando di
indebitarci per cose di scarso valore: accettando dunque che il mercato si
faccia garante per noi. E tutti noi sappiamo che l’apparente liberalità con
cui il mercato ci concede di pagare il caffè è solo la maschera della sua
spietatezza da usuraio con cui saremo costretti a fare i conti se i nostri
conti non torneranno.
Infine,
un’ultima considerazione. Qual è stato il meccanismo che ha permesso al
capitale di agire così rapidamente, stravolgendo i nostri costumi quotidiani? A
me pare evidente: ciò è accaduto nel momento in cui si è diffusa la tecnologia
che ha permesso di smaterializzare le carte di pagamento tramite l’utilizzo dei
nostri smartphone. Troppo comodo in effetti poter uscire senza più portamonete
e persino senza portadocumenti, da quando abbiamo anche la possibilità di
digitalizzare la patente. Apparentemente, possiamo uscire senza più nulla a
parte noi stessi. Siamo sempre più vicini alla promessa del capitalismo di
rendere naturale l’artificiale, dandoci la possibilità di comprare con
la stessa facilità con cui possiamo bere, mangiare, riprodurci, dormire. Non
abbiamo bisogno di nulla oltre a ciò che siamo. Eppure in questo ragionamento
c’è una fallacia che somiglia a una maledizione. L’idea diffusa – anche in
certi circoli della sinistra postumana – che la tecnologia sia una protesi
evolutiva: nient’altro che un’estensione della mano che, nel tempo, non si
distinguerà più dalla mano stessa. Profezia che sta avvenendo, a guardare gli
usi e i costumi degli adolescenti. Con, tra le tante, una differenza – e anche
una diffidenza – fondamentale rispetto al sacro Verbo dell’ottimismo tecnologico:
quell’estensione della mano è una coscienza esterna, un hardware che non
appartiene a me ma a coloro che lo hanno prodotto, ne gestiscono i servizi e
senza che io me ne accorga stanno ridefinendo la forma stessa dei nostri
rapporti economici e materiali. Certo, sono sempre e solo io che scelgo
di pagare il mio caffè col cellulare, ma senza pensarci sto vendendo con quel
gesto una serie rilevante di informazioni sensibili a qualcuno che può
controllarle e in questo modo controllarmi e, soprattutto, sto
accettando che lo standard dello scambio economico non solo non abbia più nulla
di informale, ma non abbia nemmeno più la forma consueta dello
scambio capitalistico classico (Merce-denaro-Merce, avrebbe detto il buon
Marx). Una rimessa in forma dello scambio, che passa tramite
la sostituzione capitalistica della sovranità politica, la finanziarizzazione
dei processi produttivi e del consumo, l’indebitamento come dispositivo
biopolitico quotidiano e non estemporaneo.
Non c’è
nulla di più inquietante di questa comoda complicità col capitalismo da cui ci
facciamo tentare tutti. Paghiamo il caffè al bar senza l’ingombro delle monete
e in cambio vendiamo noi stessi e le nostre vite. Affidiamo le nostre
«magnifiche sorti e progressive» ai dispositivi tecnologici, ma in cambio ne
diventiamo schiavi e ostaggi. È così che va la vita: continuiamo a
discutere tra noi di politica, mentre la nostra vita quotidiana è assediata da
una sovranità senza alcun controllo e senza alcun limite, che approfitta
persino della nostra pigrizia. Buon caffè a tutti, dunque.
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