mercoledì 28 maggio 2025

L’illusione del riciclo è l’ultima minaccia per i consumatori “green” - thewashingnews.com

Secondo i ricercatori dell’Università di Portsmouth, il greenwashing aziendale induce gli utenti a considerare “ecologici” prodotti che tali non sono. Il risultato? Scelte sbagliate che danneggiano l’intero processo di riciclo

Il wishcycling è la pratica di smaltire materiali nella raccolta differenziata sperando che siano compatibili con il riciclo. Anche se non lo sono.

Giacciono negli “appositi” contenitori senza averne “diritto”, viaggiano verso un impianto di riciclo che non sarà in grado di trattarli, vengono infine smaltiti altrove o, verosimilmente, finiranno per contaminare la frazione recuperabile. Il tutto, ovviamente, all’insaputa dell’utente, convinto al contrario di aver fatto la scelta giusta. È questa la parabola dei rifiuti “ingannevoli”, prodotti dall’aspetto “eco-friendly” che non sono né “eco” né tantomeno “friendly” ma che, in questa veste, finiscono per illudere i consumatori, a cominciare da coloro che sono più sensibili ai temi ambientali. Un fenomeno probabilmente sottovalutato eppure piuttosto diffuso che, da tempo, è stato anche battezzato con un termine più che eloquente: wishcycling, altrimenti detta “illusione del riciclo”.

L’illusione del riciclo

Di che si tratta? Essenzialmente della pratica di smaltire materiali nella raccolta differenziata nella speranza – più che nella certezza – che essi siano riciclabili. Anche se spesso non lo sono. Un problema evidente che, assicurano gli esperti, chiama in causa il ruolo stesso degli utenti. “I consumatori moderni sono stati investiti di una responsabilità che potrebbe essere al di là delle loro competenze: decidere cosa fare dell’imballaggio di un prodotto dopo l’uso”, ha scritto in un recente articolo su The Conversation Anastasia Vayona, ricercatrice della Facoltà di Scienze e Tecnologia della Bournemouth University.

Ma la verità, aggiunge, è che molti di loro sono in realtà “impreparati, poco informati o semplicemente inconsapevoli di tutti gli effetti delle loro scelte”.

La principale responsabilità, in ogni, non può essere comunque attribuita ai consumatori. Spetterebbe prima di tutto alle aziende, infatti, il compito di fornire indicazioni chiare sul trattamento dei loro prodotti una volta divenuti rifiuti. Peccato, però, che tutto questo spesso non avvenga. E che le strategie di greenwashing, per contro, inducano i consumatori ad assumere “decisioni errate e potenzialmente dannose”.

Le persone attente all’ambiente sono anche le più vulnerabili

A chiarire questa dinamica sono stati la stessa Vayona e i colleghi dell’ateneo britannico che, in uno studio pubblicato su Sustainable Development, hanno analizzato la relazione tra marketing aziendale, percezione delle motivazioni e comportamenti di riciclo di 573 consumatori nel Regno Unito. L’indagine è stata diffusa un anno fa ma i suoi risultati sono di stretta attualità. Gli autori, in particolare, hanno posto una certa enfasi su un fenomeno tuttora molto comune: quello del cosiddetto “alone ambientale”,

Come dire, ricorda lo studio, che bastano una confezione ben studiata oppure un paio di etichette verdi, una fogliolina stilizzata e uno slogan vago quanto ammiccante – eco-friendly, appunto – per indurre gli utenti a considerare l’intero prodotto più ecologico di quanto sia realmente.

L’aspetto più sorprendente, però, è costituito in realtà dal profilo psicologico del consumatore. Chi ha maggiore consapevolezza ambientale (a partire dai giovani), un livello di istruzione più alto e una personalità più sicura (in termini di autostima e di stabilità emotiva, ad esempio) finisce, paradossalmente, per essere più vulnerabile al greenwashing. Secondo i ricercatori, infatti, “i consumatori con livelli di istruzione più elevati tendono a riporre maggiore fiducia nelle dichiarazioni delle aziende che promuovono la sostenibilità e le pratiche etiche”. Anche quando queste affermazioni sono generiche o non verificabili.

Un problema per l’intera catena del riciclo

Le conseguenze di queste pratiche sono notevoli. Per quanto incolpevoli, i consumatori si ritrovano di fatto a immettere materiali non corretti nei flussi di riciclo. Con il rischio di compromettere l’intero processo. “Anche piccoli errori, come lo smaltimento di una confezione multistrato non separabile“, spiega infatti lo studio, ”possono portare alla contaminazione di un’intera partita di rifiuti riciclabili”.

Che fare, dunque? La soluzione, affermano gli autori, consiste nel garantire un riciclo migliore a partire dalle scelte stesse delle aziende. Servono, insomma, packaging più trasparenti e realmente sostenibili, standard condivisi per l’etichettatura e una maggiore responsabilità da parte dei produttori. Ma anche l’impegno e l’attenzione di “consumatori dotati di senso critico e attenti all’ambiente”.

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