Secondo i ricercatori dell’Università di Portsmouth, il greenwashing aziendale induce gli utenti a considerare “ecologici” prodotti che tali non sono. Il risultato? Scelte sbagliate che danneggiano l’intero processo di riciclo
Il
wishcycling è la pratica di smaltire materiali nella raccolta differenziata
sperando che siano compatibili con il riciclo. Anche se non lo sono.
Giacciono
negli “appositi” contenitori senza averne “diritto”, viaggiano verso un
impianto di riciclo che non sarà in grado di trattarli, vengono infine smaltiti
altrove o, verosimilmente, finiranno per contaminare la frazione recuperabile.
Il tutto, ovviamente, all’insaputa dell’utente, convinto al contrario di aver
fatto la scelta giusta. È questa la parabola dei rifiuti
“ingannevoli”, prodotti dall’aspetto “eco-friendly” che non sono né “eco”
né tantomeno “friendly” ma che, in questa veste, finiscono per illudere i
consumatori, a cominciare da coloro che sono più sensibili ai temi ambientali.
Un fenomeno probabilmente sottovalutato eppure piuttosto diffuso che, da tempo,
è stato anche battezzato con un termine più che eloquente: wishcycling,
altrimenti detta “illusione del riciclo”.
L’illusione
del riciclo
Di che si
tratta? Essenzialmente della pratica di smaltire materiali nella raccolta
differenziata nella speranza – più che nella certezza – che essi siano
riciclabili. Anche se spesso non lo sono. Un problema evidente che, assicurano
gli esperti, chiama in causa il ruolo stesso degli utenti. “I consumatori
moderni sono stati investiti di una responsabilità che potrebbe essere al di là
delle loro competenze: decidere cosa fare dell’imballaggio di un prodotto dopo
l’uso”, ha scritto in un recente articolo su The Conversation Anastasia
Vayona, ricercatrice della Facoltà di Scienze e Tecnologia della Bournemouth
University.
Ma la
verità, aggiunge, è che molti di loro sono in realtà “impreparati, poco
informati o semplicemente inconsapevoli di tutti gli effetti delle loro
scelte”.
La
principale responsabilità, in ogni, non può essere comunque attribuita ai
consumatori. Spetterebbe prima di tutto alle aziende, infatti, il compito di
fornire indicazioni chiare sul trattamento dei loro prodotti una volta divenuti
rifiuti. Peccato, però, che tutto questo spesso non avvenga. E che le strategie
di greenwashing, per contro, inducano i consumatori ad assumere “decisioni
errate e potenzialmente dannose”.
Le persone
attente all’ambiente sono anche le più vulnerabili
A chiarire
questa dinamica sono stati la stessa Vayona e i colleghi dell’ateneo britannico
che, in uno studio pubblicato
su Sustainable Development, hanno analizzato la relazione tra
marketing aziendale, percezione delle motivazioni e comportamenti di riciclo di
573 consumatori nel Regno Unito. L’indagine è stata diffusa un anno fa ma i
suoi risultati sono di stretta attualità. Gli autori, in particolare, hanno
posto una certa enfasi su un fenomeno tuttora molto comune: quello del
cosiddetto “alone ambientale”,
Come dire,
ricorda lo studio, che bastano una confezione ben studiata oppure un paio di
etichette verdi, una fogliolina stilizzata e uno slogan vago quanto ammiccante
– eco-friendly, appunto – per indurre gli utenti a considerare l’intero
prodotto più ecologico di quanto sia realmente.
L’aspetto
più sorprendente, però, è costituito in realtà dal profilo
psicologico del consumatore. Chi ha maggiore consapevolezza ambientale (a
partire dai giovani), un livello di istruzione più alto e una personalità più
sicura (in termini di autostima e di stabilità emotiva, ad esempio) finisce,
paradossalmente, per essere più vulnerabile al greenwashing. Secondo i
ricercatori, infatti, “i consumatori con livelli di istruzione più elevati
tendono a riporre maggiore fiducia nelle dichiarazioni delle aziende che
promuovono la sostenibilità e le pratiche etiche”. Anche quando queste
affermazioni sono generiche o non verificabili.
Un problema
per l’intera catena del riciclo
Le
conseguenze di queste pratiche sono notevoli. Per quanto incolpevoli, i
consumatori si ritrovano di fatto a immettere materiali non corretti nei flussi
di riciclo. Con il rischio di compromettere l’intero processo. “Anche piccoli
errori, come lo smaltimento di una confezione multistrato non separabile“,
spiega infatti lo studio, ”possono portare alla contaminazione di un’intera
partita di rifiuti riciclabili”.
Che fare,
dunque? La soluzione, affermano gli autori, consiste nel garantire un riciclo
migliore a partire dalle scelte stesse delle aziende. Servono, insomma,
packaging più trasparenti e realmente sostenibili, standard condivisi per
l’etichettatura e una maggiore responsabilità da parte dei produttori. Ma anche
l’impegno e l’attenzione di “consumatori dotati di senso critico e attenti
all’ambiente”.
Nessun commento:
Posta un commento