lunedì 27 maggio 2024

L’economia è reale: così vince la Cina - Piergiorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini

 

IL DOPPIO ERRORE DELL’EUROPA – Affidarsi al credo neo-liberista con l’idea che le avrebbe assicurato primato e benessere duraturi, e rinunciare al ruolo di ponte tra l’alleato Usa e il mondo emergente


Nel loro recente viaggio a Pechino, tanto il premier tedesco Scholz quanto la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen hanno rimproverato Xi Jinping perché la Cina avrebbe sovra-investito in alcuni settori, come i veicoli elettrici, i pannelli solari e le batterie, ben oltre le possibilità di assorbimento del suo mercato interno, per poter così inondare i mercati globali con beni più competitivi. Entrambi hanno affermato che non accetteranno che le loro industrie vengano messe all’angolo solo perché i prodotti cinesi possono godere di più bassi costi di produzione.

Secondo i cinesi, tali affermazioni sono prive di fondamento, aggiungendo che l’ascesa della Cina in questi settori è stata guidata, tra l’altro, dall’innovazione e da catene di forniture che hanno reso il sistema di produzione cinese più competitivo. La guerra commerciale tra i Paesi occidentali e la Cina sembra diventare ogni giorno più “calda”, ponendo le basi per un confronto militare, in linea col noto detto di Von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.

Le radici strutturali di questa situazione affondano negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e sono alla radice della “globalizzazione”. I Paesi occidentali ne hanno tratto grande beneficio: il capitale ha potuto svincolarsi dai confini nazionali, eludendo ogni tassazione, i sistemi di produzione si sono fatti globali ed è il costo del lavoro che più ha subito la concorrenza “al ribasso” data dalla spinta competitiva. L’economia finanziaria è cresciuta a dismisura, grazie a investimenti che fino al 2008 almeno, hanno avuto ritorni più alti di quelli nell’economia reale. Con la globalizzazione, le industrie dei Paesi occidentali hanno delocalizzato nei Paesi a più basso costo del lavoro. La Cina ha guidato il processo, guardando bene che ciò avvenisse acquisendo tecnologia e un aumentando il proprio capitale umano, un processo che, accompagnato da un investimento crescente in ricerca, sviluppo e istruzione, le ha permesso di fare un salto qualitativo guadagnandosi una posizione dominante in tutti i macrosettori ad alto valore aggiunto: se alla fine degli anni Novanta i beni cinesi inondavano i mercatini della domenica ora la Cina domina i mercati dell’informatica, delle auto elettriche e di molti altri settori ad alto contenuto tecnologico.

La storia di Stati Uniti ed Europa è speculare: per anni hanno delocalizzato una parte rilevante della loro struttura produttiva perdendo capacità ingegneristiche tecniche e manifatturiere che richiedono decenni per essere costruite. Le scelte compiute secondo il credo neoliberista del “va dove ti porta il mercato” si sono così sono rivelate fallimentari e oggi la Cina, che ha investito nella produzione reale e molto meno in finanza, ha un grande vantaggio competitivo: può vantare il superamento degli Stati Uniti come leader mondiale nella domanda di brevetti e nel numero di pubblicazioni scientifiche, indicatori di una economia in salute e in pieno sviluppo. Un aspetto fondamentale dell’economia americana è oggi la concentrazione del capitale finanziario in poche mani. Grazie alla loro posizione centrale nella finanzia globale, i tre più grandi fondi di investimento Usa gestiscono da soli quattro volte il Pil della Germania, controllano 4 azioni su 10 delle principali società statunitensi e possono condizionare ogni tipo di attività: produzione, distribuzione di beni e servizi, trasporti, cure mediche, ricerca, etc.

La differenza tra l’economia finanziarizzata, guidata da finanzieri, avvocati e lobbisti, e quella reale, in cui servono ingegneri, competenze e risorse naturali, si è resa palese ed è la causa degli squilibri in atto.

Anche l’errore di valutazione sulla resilienza russa alle sanzioni economiche – e la direzione dei flussi commerciali – ha qui le sue radici.

Come afferma Emmanuel Todd, la guerra in Ucraina è una questione secondaria in una storia molto più grande: quella della battaglia in corso tra una potenza egemonica globale in declino, gli Stati Uniti e con loro i Paesi occidentali, e una in ascesa, la Cina e con essa l’India e gli altri emergenti. La guerra ucraina doveva ridimensionare la Russia, consolidando il blocco “atlantico” attorno agli Stati Uniti, necessario per sostenere la potenza americana contro la Cina, tagliando anche legami commerciali fondamentali per l’Europa. Strategicamente, però, la guerra ha avvicinato la Russia alla Cina, che è il vero concorrente per l’egemonia. C’è però da dubitare che la Cina voglia davvero prendere il ruolo oggi degli Usa. La Cina sta ottenendo l’egemonia globale sul piano economico, ben più solido ed esteso di quello militare, mentre l’Europa ha sbagliato due volte: affidarsi al credo neo-liberista, pensando che le avrebbe assicurato il primato sul mondo e un benessere duraturo, e rinunciare a un ruolo di ponte tra l’alleato americano e il mondo emergente oltre le sue frontiere. Sarà su questo che si giocheranno i prossimi confronti che dovranno tenere conto del nuovo assetto economico mondiale in cui l’Occidente, e l’Europa in particolare, dovrà necessariamente ridimensionare il suo ruolo.

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