domenica 14 dicembre 2025

Corruzione, in Italia quasi 100 indagini nell’ultimo anno. Mazzette pure per falsi cambi di residenza e certificati di morte

 

 

The Italian job. È con il titolo preso in prestito da un film che investigatori e giornalisti in Belgio cominciano a rifersi alle inchieste per corruzione. È successo nel caso dell’ex ministra Federica Mogherini, ma non solo. Negli ultimi tempi, in effetti, quando in Unione europea si indaga per tangente a finire sotto inchiesta sono spesso cittadini italiani. Quasi che le mazzette siano diventate una prodotto tipico del Belpaese. Una tendenza confermata dal dossier Italia sotto mazzetta, preparato da Libera in vista della giornata della lotta alla corruzione del 9 dicembre. L’associazione fondata da don Luigi Ciotti ha censito le inchieste sulla corruzione dal primo gennaio al primo dicembre 2025, basandosi sulle notizie di stampa: ne ha contate ben 96 , praticamente il doppio rispetto al 2024 quando erano appena 48. Negli ultimi 11 mesi, invece, sono state aperte almeno 8 indagini al mese per mazzette, con il coinvolgimento di 49 procure in 15 regioni e 1.028 persone indagate, quasi un raddoppio rispetto ai 588 dello scorso anno.

 

Campania maglia nera

Le regioni meridionali con le isole primeggiano con 48 indagini, seguite da quelle del Centro (25) e del Nord (23). La Campania è “maglia nera” con 219 persone indagate, segue la Calabria con 141 e la Puglia con 110. La Liguria con 82 persone indagate è la prima regione del Nord Italia, seguita dal Piemonte con 80. I reati ipotizzato spaziano dalla corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio al voto di scambio politico-mafioso, dalla turbativa d’asta all’estorsione aggravata dal metodo mafioso. Ci sono mazzette in cambio di un’attestazione falsa di residenza per avere la cittadinanza italiana o per ottenere falsi certificati di morte. In altri casi le dazioni hanno facilitato l’aggiudicazione di appalti nella sanità, per la gestione dei rifiuti o per la realizzazione di opere pubbliche, la concessione di licenze edilizie, l’affidamento dei servizi di refezione scolastica. Ci sono scambi di favori per concorsi truccati in ambito universitario. E ancora, le inchieste per scambio politico elettorale e quelle relative alle grandi opere con la presenza di clan mafiosi.

53 politici sotto inchiesta

Da Torino a Milano, da Bari a Palermo, da Genova a Roma, passando per le città di provincia come Latina, Prato, Avellino, nel corso del 2025 risuona un allarme mazzette con il coinvolgimento di un migliaio di amministratori, politici (53), funzionari, manager, imprenditori, professionisti e mafiosi. Dall’analisi delle inchieste, ancora in corso e dunque senza un accertamento definitivo di responsabilità individuali, emerge una corruzione “solidamente” regolata, spesso ancora sistemica e organizzata, dove a seconda dei contesti il ruolo di garante del rispetto delle “regole del gioco” è ricoperto da attori diversi. Tra i 53 politici indagati (sindaci, consiglieri regionali, comunali, assessori) pari al 5,5% del totale degli indagati, 24 sono sindaci, quasi la metà. Il maggior numero di politici indagati sono in Campania e Puglia (13), seguite da Sicilia con 8, e Lombardia con 6. “Si tratta di un quadro sicuramente parziale, per quanto significativo, di una realtà più ampia sfuggente”, spiega Libera.

 

“Non è un’anomalia, ma un sistema”

“I dati che presentiamo ci parlano con chiarezza: la corruzione in Italia non è affatto un’anomalia, bensì un sistema che si manifesta in mille forme diverse, adattandosi ai contesti, riflettendo l’impiego di tecniche sempre più sofisticate. Da quelle più classiche (la mazzetta, l’appalto truccato, il concorso pilotato) fino a quelle ormai pressoché legalizzate, frutto di una vera e propria cattura dello Stato da parte di un’élite impunita: leggi e regole scritte su misura per i potenti di turno, conflitti di interesse tollerati, relazioni opache tra decisori pubblici e portatori di soverchianti interessi privati”, dice Francesca Rispoli, copresidente nazionale di Libera. “La questione – aggiunge – va molto al di là delle singole responsabilità individuali. Sono all’opera meccanismi che, se non svelati e contrastati, rischiano di consolidare un sistema di potere sempre più irresponsabile. Non basta invocare pene più severe, o attendere l’ennesima inchiesta giudiziaria, spesso destinata ad arenarsi in un nulla di fatto: occorre rinnovare un patto forte e lungimirante tra istituzioni responsabili e cittadinanza attiva. Da un lato, le istituzioni pubbliche consolidino i presidi di prevenzione e si dotino di strumenti efficaci di contrasto della corruzione, anziché delegittimarli e indebolirli come si è fatto negli ultimi anni. Dall’altro, la cittadinanza deve potenziare la capacità di far sentire la propria voce, investendo in una crescita della cultura della segnalazione, del monitoraggio civico, dell’impegno condiviso nel difendere i beni comuni e l’interesse pubblico”.

da qui

sabato 13 dicembre 2025

Saldi Totali - Alessio Canu

 

Saldi totali. Quello che vediamo da diversi mesi negli ultimi anni in Sardegna ed in Italia. Avete presente quando negli anni 90 e nei primi anni 2000 si lanciavano proclami su una presunta superiorità dei prodotti nostrani? Buona parte di quel discorso si basava sulla qualità dei prodotti nostrani, delle materie prime, maestranze e procedure; tutte cose che davano al consumatore un prodotto che giustificava il prezzo poi praticato sul mercato. Tutto bello, tutto perfetto se non fosse che i profitti legati al Pecorino Romano non hanno interessato principalmente i produttori iniziali, ma soltanto i distributori industriali. Nessun reinvestimento consistente nella filiera produttiva, nessuna campagna che valorizzasse il territorio, gli animali e le maestranze coinvolte nella produzione del Pecorino Romano. Nessun percorso stile Parmigiano Reggiano.

Si è deciso un percorso inverso, simile a quello che si utilizza nel Terzo Mondo per lo sfruttamento delle risorse naturali. Ossia creare un sistema basato sulla quantità. In nome della richiesta si distorce un preliminare e si declassa la qualità del prodotto. Via i limiti dati dalle qualità del bestiame sfruttato per la produzione del formaggio (con introduzione di specie aliene a quelle sarde). Via quindi i limiti dettati dalla territorialità in senso stretto, via con la distruzione non solo di un prodotto ma di un modello economico sociale che avrebbe dato un valore aggiunto al prodotto. Passa l’idea che un primario tecnologico, avanzato e legato ad un’alta qualità dei prodotti possa valere per il Nord Italia, mentre Sud ed Isole devono basarsi su un’economia limitata e su modelli che non possono reggere competizione e richiesta ai giorni nostri.

E da parte dei Sardi? Cosa possiamo dire in nostra discolpa? C’è stato per caso un movimento di difesa per tutto ciò che rappresenta la cultura isolana, in campo culinario, letterale, sociale, economico? Assolutamente no C’è un’incapacità cronica di riuscire a connettere i vari ambiti nei quali le varie parti della società sarda combatte. Vuoi per scarsa capacità nostrana di individuare e risolvere i nostri mali atavici. La difesa del territorio sardo va fatta per la speculazione energetica, il ripopolamento e lo sfruttamento per la produzione di prodotti alimentari ad alto valore che possano dare risorse per il potenziamento del settore primario sardo.

E qua vanno dette anche due cose. La difficoltà di rendere le lotte dei pastori sardi di creare un movimento permanente e potenzialmente molto influente, capace di dettare le regole per la valorizzazione del prodotto Pecorino Romano. Che non si limitasse al blocco delle strade nelle situazioni più buie giusto per richiedere un obiettivo minimo come il prezzo del latte politico. La strategia sarebbe dovuta essere di avere maggiori leve decisionali e un’organizzazione più capillare, articolata e coordinata allo stesso tempo per crescere e avere maggior peso nelle contese future. Qua paghiamo la miopia politica, intesa come popolo e come Regione (che storicamente non è riuscita a far valere il proprio peso nella questione e che anche attualmente latita, più impersonante una grigia burocrazia di signorsì che di politici come il loro incarico imporrebbe).

Sarebbe interessante avere delle risposte:

– quale è stata la reazione dei Sardi, in particolare ai lavoratori del comparto allevamento, a tale prevaricazione? Come intenderanno proseguire un’eventuale contrasto?

– quale sarà la reazione della Regione Autonoma Sardegna, vista la possibilità entro oggi, 24 Novembre, di opporsi al preliminare sul punto legato alle specie ovine aliene? O rimarrà inerte?

– quali sono le previsioni di mercato e vendita del prodotto Pecorino Romano? Quali sono le sicurezze per le quali il mercato dovrebbe rispondere positivamente? E chi garantisce un aumento del volume di affari, quando il rischio potrà essere quello di svalorizzare il prodotto?

Ma soprattutto, in caso di danno al prodotto Pecorino Romano, chi pagherà?

da qui

venerdì 12 dicembre 2025

Caos errori ed orrori al San Raffele - S.I.COBAS

Solo il sensazionalismo mediatico sembra gettare luce su condizioni di degrado sanitario ed umano che sono quotidiane, immanenti, inevitabili, preparate e volute ma non casuali.

Cosi come non si improvvisano la gestione delle cure intensive, cosi lo sprofondo documentato al San Raffaele non è un incidente casuale: è invece  il portato  di scelte gestionali a sua volta originate da un’idea di sanità piegata al profitto.

   

Al San Raffaele si consuma l’atto finale di una deriva del SSN che con le lotte degli anni ’60 e ’70 si voleva universale e gratuito. 

Con l’irruzione di un capitalismo sui generis che anziché investire risorse proprie ha fagocitato le risorse pubbliche ed ha fatto della salute un territorio per le sue scorrerie affaristiche.


La salute  da non mercanteggiare, la salute da preservare per  tutti  e soprattutto dei più poveri  è un principio che a Milano ma poi in tutta Italia va sostituendosi con la logica del “ti curi se hai i soldi”.   

Una sanità non uguale più per tutti ma a misura di portafoglio.

Ed ecco che lo scadimento assistenziale si raccorda con il cinismo del capitale che stabilisce prezzi e tariffe a secondo delle disponibilità individuali.

Ed ecco che la sanità diventa preda di ditte fintamente onlus, fintamente religiose,  fintamente cooperative. 

Ma la concorrenza tra i predoni, progressivamente, fa emergere società di taglia sempre più grande.  La concentrazione dei capitali opera anche in questo settore e fa emergere colossi come il Gruppo San Donato SPA che controlla a sua volta il San Raffaele.

L’appalto alle cooperative ha il vantaggio dei costi contenuti del personale, rispetto ad un personale professionale che ha lo svantaggio di costare di più. La qualità assistenziale è deprezzata di conseguenza.

 

La gestione del San Raffaele ha solo portato alle estreme scelte  proprie del  registro Profitti e Perdite.

 

Ed ecco che il concentramento, voluto dalla direzione del San Raffaele,  delle cooperative nei reparti che si occupano, guarda caso, dei malati “non paganti” ma bisognosi di cure intensive, non è un blackout momentaneo è un lucido disegno di un capitale che non ha coscienza sociale. La sua coscienza si misura in quote di capitale che devono essere crescenti.

  

A conferma di ciò alle dimissioni dell’Amministratore Unico Francesco Galli (che passa a dirigere altre strutture sanitarie e ad assumere quindi altre cooperative), subentra un ingegnere, Marco Centenari con una formazione non certamente sanitaria ma certamente più attrezzato a limitare le spese (del personale) e massimizzare i guadagni societari della Spa.  

 

Man mano che il clamore della caotica giornata va spegnendosi e le luci natalizie si accendono l’assessore alla Sanità  Guido Bertolaso rassicura  che il San Raffaele è “ un vero fiore all’occhiello della sanità italiana ed è fisiologico che ogni giorno possano presentarsi criticità" 

Tra i fiori critici bisogna annoverare: la terapia delle ore 18 somministrata alle 24, la terapia antibiotica non somministrata, gli esami del sangue non effettuati, allo squillare del campanello l’infermiere (può arrivare) dopo mezzora e il medico dopo due ore e mezzo che nel frattempo si rende conto che gli esami ematici del mattino non sono stati fatti, gli esami  vengono eseguiti a mezzogiorno ma a mezzanotte si scopre che alcune provette si sono perse. Un’infermiera della cooperativa rivela di  che non aver mai fatto l’affiancamento, un’altra dichiara che non sapeva dove cercare i farmaci né di saper caricare gli esami né di saper gestire la ventilazione assistita … l’elenco potrebbero continuare! Ma può bastare,

Per fortuna “la Madonnina che brilla da lassù” questa volta ha scongiurato drammi ancora più gravi. 

 

Ma intanto è Natale e la stella cometa riposa sul San Raffaele. Ma non brilla!

 

Sindacato Intercategoriale Cobas 



giovedì 11 dicembre 2025

“Lo 0,01% ha tre volte più ricchezza della metà più povera dell’umanità. Ma la disuguaglianza non è inevitabile: è una scelta politica dei governi” - Chiara Brusini

 

Il World Inequality Report 2026 del World Inequality Lab, co-diretto da Thomas Piketty con Emmanuel Saez e Gabriel Zucman alla guida scientifica, conferma che quando i governi rinunciano alla progressività fiscale e alla redistribuzione i divari tra ricchi e poveri si allargano. E rilancia la proposta di una tassa minima per i miliardari

 

La lotta alla disuguaglianza, ormai un’emergenza globale, non può e non deve essere solo materia su cui si esercitano think tank e convegni accademici. È una scelta politica ed è la politica a doversene assumere la responsabilità. È il messaggio che arriva dal World Inequality Report 2026, la nuova indagine del World Inequality Lab, osservatorio co-diretto da Lucas ChancelThomas Piketty e Rowaida Moshrif, con Facundo AlvaredoEmmanuel Saez e Gabriel Zucman alla guida scientifica: il gotha mondiale della ricerca sul tema. La loro analisi aggiornata conferma ancora una volta che quando i governi rinunciano alla progressività fiscale e alla redistribuzione, i divari tra ricchi e poveri si allargano. E oggi i sistemi di tassazione di gran parte dei Paesi avanzati contribuiscono a quell’allargamento, perché consentono a chi si piazza in cima alla piramide dei redditi di pagare molto meno degli altri.

“La storia, l’esperienza dei diversi Paesi e la teoria mostrano che l’attuale livello estremo di disuguaglianza non è inevitabile. Una fiscalità progressiva, forti investimenti sociali, standard di lavoro equi e istituzioni democratiche hanno ridotto i divari in passato e possono farlo di nuovo”, scrivono nella prefazione l’economista Jayati Ghosh e il premio Nobel Joseph Stiglitz, tra gli esperti a loro volta incaricati dalla presidenza sudafricana del G20 di stilare un rapporto ad hoc. “Il World Inequality Report fornisce la base empirica e la cornice intellettuale per capire come intervenire”.

 

Il 37% della ricchezza globale all’1% più ricco

Oggi, calcola il World Inequality Lab nel suo terzo rapporto basato sul lavoro di 200 accademici, il 10% più ricco della popolazione mondiale incassa il 53% del reddito totale e detiene il 75% della ricchezza mentre la metà più povera si ferma rispettivamente all’8% e al 2%. Non è una “legge naturale dell’economia”. Sono le conseguenze cumulative di scelte politiche: riduzione dell’imposizione sui più abbienti, tagli al welfare, arretramento dello Stato come garante di servizi e investimenti collettivi. È il punto di caduta di un trentennio (1995-2025) durante il quale il 50% più indigente ha intercettato appena l’1,1% dell’incremento totale della ricchezza globale a fronte del 37% che è finito in tasca all’1% più ricco. E in Italia? La disuguaglianza risulta in aumento lento ma costante. Negli ultimi dieci anni il rapporto tra il reddito medio del top 10% e quello della metà più povera è salito da 14 a 15. Oggi il 10% più ricco assorbe circa il 32% del reddito totale, mentre il 50% più povero si ferma al 21%. Sul fronte patrimoniale le distanze sono molto più accentuate: il top 10% possiede il 56% della ricchezza nazionale e l’1% supera da solo il 22%.

Il fisco iniquo

Il fisco ha fatto la sua parte: in molti Paesi i miliardari finiscono per pagare aliquote effettive quasi nulle grazie a elusione e strutture societarie che permettono di posticipare o evitare la distribuzione di dividendi e la realizzazione di plusvalenze in modo da non generare reddito tassabile. In media, a livello globale versano circa il 20%, ben al di sotto rispetto alla pressione fiscale subita da contribuenti con redditi medi. Anche quando sono soggetti a imposizione, del resto, i guadagni in conto capitale sono tassati meno del lavoro. Il risultato è che dagli anni Novanta la ricchezza dei multi-milionari è triplicata e lo 0,001% – circa 60mila persone, che starebbero comodamente in uno stadio – controllano tre volte più denaro della metà più povera dell’umanità, composta da 2,8 miliardi di persone.


I divari tra regioni

Un adulto medio in Nord America e Oceania dispone di un reddito pari al 290% della media mondiale e di un patrimonio che arriva al 338% della media. In Europa le percentuali sono più basse (215 e 224% rispettivamente) ma comunque abbondantemente sopra la media globale. All’estremo opposto, in Africa subsahariana l’adulto medio sopravvive con un reddito pari al 30% del livello mondiale e una ricchezza che non arriva al 20%. In concreto, ogni giorno un cittadino statunitense dispone di circa 125 euro, contro i 10 euro di un abitante dell’Africa subsahariana. Anche all’interno di ciascun continente la frattura tra ricchi e poveri è estrema: in Russia e Asia centrale il top 10% guadagna 141 volte il reddito medio della metà più povera, in Nord America e Oceania il rapporto è 72 a 1 e in Europa, il continente più egualitario, il divario è comunque 19 a 1. Quanto alla ricchezza, in tutte le regioni il 10% più abbiente controlla ben oltre la metà di quella complessiva.

La disuguaglianza come scelta politica

“La disuguaglianza non è un destino, ma una scelta”, ribadiscono Ghosh e Stiglitz nella chiusa della loro introduzione. Dove i sistemi pubblici restano più robusti, infatti, tasse e trasferimenti riescono a ridurre le disuguaglianze in modo significativo. Vale a dire che se il gap aumenta è perché la politica ha deciso di stare a guardare, invece di adottare misure per affrontare il problema. Le vie per farlo sono numerose: investimenti pubblici in istruzione e salute, che secondo gli autori sono “tra i più potenti strumenti di riequilibrio”, trasferimenti monetari e sussidi di disoccupazione insieme a supporti mirati ai nuclei vulnerabili, riduzione dei gap di genere. E ovviamente politiche fiscali.

Perché serve una tassa minima globale sui miliardari

Una tassa minima globale su miliardari e centimiliardari sul modello di quella proposta da Gabriel Zucman ed elaborata dal suo Eu Tax Observatorydiscussa anche dai leader del G20, sarebbe “tecnicamente realizzabile, gestibile sul piano amministrativo e politicamente trasformativa”. Fissando l’aliquota al 2% la regressività al vertice verrebbe neutralizzata e portandola al 3% il sistema tornerebbe progressivo. Al tempo stesso i governi potrebbero raccogliere cifre pari rispettivamente allo 0,45% o allo 0,67% del pil mondiale con cui finanziare investimenti decisivi in istruzione, sanità e adattamento climatico, settori penalizzati dai bilanci pubblici “magri” dei Paesi occidentali e sottofinanziati da sempre in quelli più poveri. Basti dire che nel 2025 la spesa pubblica per istruzione per ogni giovane tra 0 e 24 anni è stata di 220 euro in Africa subsahariana, contro i 7.430 euro dell’Europa e i 9.020 del Nord America.

I ricchi responsabili della crisi climatica

Il tema climatico è un’altra bomba politica. Il 10% più ricco del mondo è responsabile del 77% delle emissioni legate alla proprietà di capitale e del 47% di quelle da consumo. La metà più povera non supera il 3% e il 10%, rispettivamente. Ma chi contribuisce meno alla crisi climatica è anche chi ne paga il prezzo più alto: secondo il rapporto, le famiglie a basso reddito sopportano il 75% delle perdite economiche globali legate al riscaldamento. Anche in questo caso, le soluzioni – se c’è la volontà politica – non mancano. Sovvenzioni climatiche mirate, combinate con una tassazione progressiva, possono accelerare l’adozione di tecnologie a basse emissioni. E tasse ad hoc accompagnate a paletti sui consumi di lusso e sugli investimenti ad alta intensità di carbonio possono contribuire a ridurre le emissioni dei Paperoni.

da qui

mercoledì 10 dicembre 2025

Spagna, in Catalogna dopo lo sciopero degli affitti la Generalitat acquista 1.700 appartamenti: li manterrà come alloggi sociali - Victor Serri

 

Le abitazioni, costruite con fondi pubblici, andavano incontro alla scadenza del periodo di "protezione" e avrebbero potuto alimentare speculazioni del settore immobiliare. Per questo il Sindacato degli Inquilini aveva avviato la protesta in diverse città, e ora saluta l'azione del governo regionale come un "risultato storico"

 

Uno sciopero degli affitti ha spinto le istituzioni a intervenire contro la crisi abitativa in Catalogna. La Generalitat ha infatti annunciato l’acquisto di 1.700 appartamenti di InmoCaixa, il ramo immobiliare di La Caixa, una delle principali banche catalane. Una decisione che mette fine a un processo di privatizzazione che minacciava la stabilità abitativa di centinaia di famiglie. Con questa operazione, il patrimonio pubblico incorpora definitivamente alloggi che, pur essendo stati costruiti come edilizia di protezione ufficiale, rischiavano di essere sottratti ai vincoli pubblici e immessi sul mercato libero, con conseguenze pesanti per gli inquilini. Secondo il Sindicat de Llogateres (il sindacato degli inquilini), si tratta di “un risultato storico reso possibile solo dalla pressione popolare e dalla determinazione delle famiglie in lotta”.

Per capire la portata di questa decisione, occorre ricordare che molti immobili gestiti da InmoCaixa erano stati realizzati grazie a fondi pubblici e sottoposti per anni al regime di “casa di protezione ufficiale”, l’equivalente delle case popolari. Questo regime impone affitti calmierati, limiti sul prezzo e obblighi di destinazione sociale. Tuttavia, allo scadere del periodo di protezione — che varia di solito tra 20 e 30 anni — gli alloggi possono essere “desqualificati”, cioè liberati dai vincoli pubblici. A quel punto la proprietà è libera di vendere gli appartamenti a prezzi di mercato o aumentare drasticamente gli affitti. Si tratta di un meccanismo legale, ma che negli ultimi anni ha aggravato la crisi abitativa in molte città catalane, trasformando progressivamente un patrimonio nato come sociale in merce immobiliare destinata alla speculazione.

InmoCaixa ha gestito questa transizione come molti altri operatori finanziari: in prossimità della scadenza dei vincoli, ha smesso di rinnovare i contratti agevolati, ha aumentato la pressione sugli inquilini e, secondo numerose testimonianze, ha scaricato su di loro persino il pagamento dell’IBI, l’imposta sugli immobili. Quando è apparso chiaro che interi blocchi residenziali sarebbero stati venduti o che gli affitti sarebbero cresciuti in modo insostenibile, la tensione sociale è esplosa.

In questo contesto il Sindicat de Llogateres ha messo in piedi una strategia complessa e tenace. Organizzando le famiglie minacciate dalla privatizzazione, ha promosso una mobilitazione senza precedenti: uno sciopero degli affitti. In diverse città colpite dal processo — tra cui Banyoles, Mollet, Sitges e Palau-solità i Plegamans — decine di nuclei familiari hanno aderito, trattenendo migliaia di euro di canoni come forma di pressione. La loro richiesta era semplice e radicale: che quegli alloggi, costruiti con fondi pubblici, rimanessero patrimonio pubblico e venissero sottratti definitivamente alla speculazione.

Ora la Generalitat ha scelto di rispondere acquistando gli immobili e “blindandoli” come alloggi sociali permanenti. Una scelta politica di peso, che non risolve solo un conflitto locale ma interviene sulla concezione stessa della casa come diritto. Per molte famiglie l’annuncio rappresenta la fine di un incubo. “Senza la lotta degli inquilini questa operazione non sarebbe mai esistita”, sottolinea il Sindicat, che parla apertamente di una vittoria popolare ottenuta contro uno dei maggiori attori finanziari del Paese. “Abbiamo dimostrato che quando le istituzioni non intervengono, l’organizzazione dal basso diventa l’unica difesa del diritto all’abitare”.

Il governo catalano ha presentato l’acquisto come parte di una strategia più ampia per ampliare rapidamente il parco di alloggi sociali, considerata una via più efficace rispetto alla sola costruzione di nuove case. Ma il Sindicat avverte che la battaglia non è finita: chiede il ritiro delle cause giudiziarie contro gli scioperanti, la revisione dei contratti a condizioni eque, la garanzia di una manutenzione adeguata e il rimborso delle somme pagate indebitamente negli anni precedenti.

Nonostante le questioni ancora aperte, la portata materiale e simbolica della decisione è enorme. In una Catalogna in cui la crisi abitativa è diventata una delle emergenze sociali più gravi, il “salvataggio” di 1.700 appartamenti significa molto più che proteggere alcune famiglie: rappresenta un precedente politico che dimostra come la logica del mercato possa essere contrastata dall’intervento pubblico — purché sostenuto, e questo è il punto decisivo, dalla forza organizzata di chi quelle case le abita ogni giorno.

da qui

martedì 9 dicembre 2025

L’economia sarda resiste, ma i talenti scappano: in due anni via quasi 10mila giovani - Luigi Barnaba Frigoli


Il rapporto Svimez 2025: il Pil regionale, pur rallentando, resta positivo. Cresce l’occupazione. L’Isola però rimane nella «trappola» della denatalità e dei neolaureati in fuga

L’economia della Sardegna rallenta, ma resiste a crisi, dazi e altri sconvolgimenti economici e finanziari. Ciò che invece desta sempre più preoccupazione è la costante e pressoché inarrestabile fuga di giovani talenti.

È quanto evidenzia il nuovo rapporto dell’agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno Svimez, appena presentato.

Come accennato, l’Isola non arretra: tra il 2021 e il 2024 il Prodotto interno lordo regionale ha fatto registrare una variazione complessiva del +8,4%, anche se il rallentamento dell’economia isolana è nei fatti. Se nel 2021 il Pil regionale era infatti cresciuto dell’8,5%, nel 2022 si è scesi a +6,2%, nel 2023 a 1,1% e lo scorso anno a 0,9%.

Le performance migliori – sottolinea il report – sono soprattutto quelle dell’industria e delle costruzioni. In apparenza bene anche l’agricoltura (4,8%), che deve però fare i conti con un calo di occupati pari all’11,1%.

L’occupazione in Sardegna è complessivamente in aumento (+5,1%), ma, come accennato, l’allarme riguarda in particolare i giovani: il tasso di disoccupazione giovanile nell’Isola nel 2024 era infatti pari al 23%, mentre tra 2022 e 2024 hanno lasciato la Sardegna ben 9.491 persone nella fascia d’età 25-34 anni, di cui 5.164 per trasferirsi al Centro-Nord e 4.327 per trasferirsi all’estero.

Numeri ancor più allarmanti se associati a quelli degli emigrati totali dall’Isola tra il 2005 e il 2024 (20mila persone) e alla denatalità e al calo della della popolazione, che solo lo scorso anno è stato pari a 9.152 unità.

II commento di Svimez al fenomeno non lascia dubbi: la Sardegna, con Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Molise e Sicilia è una «regione in trappola», perché «il calo della popolazione attiva è accentuato, le percentuali di laureati sono nettamente inferiori alla media europea e la migrazione giovanile è ormai una tendenza consolidata, a conferma della persistente fragilità strutturale del Mezzogiorno».

Il Pil che tiene oppure che cresce e l’occupazione che aumenta, con il contraltare della fuga di giovani e di talenti, caratterizza infatti - rimarca il rapporto - tutti i territori del Sud e delle Isole.

Anche in questo caso i dati sono eloquenti: il Prodotto interno lordo del Mezzogiorno ha registrato negli ultimi anni un balzo in avanti formidabile, pari all'8,5% contro il +5,8% del Centro-Nord. Numeri quasi da record, stemperati però dalle 175mila persone totali, soprattutto giovani, che hanno lasciato il Meridione e le Isole per trasferirsi al Nord o all’estero.

«Per trattenere i giovani – tira le somme il report Svimez -, il Sud deve attivare filiere produttive ad alta intensità di conoscenza, rafforzare la base industriale innovativa e integrare formazione superiore, ricerca e politiche industriali. Senza un salto di qualità nella domanda di competenze, la mobilità giovanile continuerà a essere una scelta obbligata».

da qui

lunedì 8 dicembre 2025

Glifosato, ritirato dopo 25 anni lo studio diventato “pietra miliare” che difendeva l’erbicida Roundup - Luisiana Gaita

Il caporedattore della rivista che lo pubblicò, Martin van Den Berg, spiega le ragioni della scelta: "I dipendenti della Monsanto potrebbero aver contribuito alla scrittura dell’articolo" senza essere citati

A 25 anni dalla sua pubblicazione, la rivista scientifica Regulatory Toxicology and Pharmacology ritira lo studio, pubblicato nel 2000, secondo cui il glifosato, potente erbicida commercializzato dalla Monsanto con il nome di Roundup, non era dannoso. Autori dello studio, intitolato ‘Valutazione della sicurezza e valutazione del rischio del roundup di erbicidi e del suo ingrediente attivo, glifosato, per gli esseri umani’ sono Gary Williams del New York Medical College, l’unico tuttora in vita, Robert Kroes dell’Università di Utrecht (Olanda) e Ian Munro, che lavorava per la società di consulenze canadese Cantox, oggi Intertek. Nel documento, giungevano alla conclusione che l’erbicida a base di glifosato della Monsanto non rappresentava alcun rischio per la salute umana, né per quanto riguarda il cancro, né per eventuali effetti negativi sul sistema riproduttivo ed endocrino. E quel documento è stato citato, negli anni, da centinaia di ricerche successive (ma anche da autorità di regolamentazione come l’Agenzia per la protezione ambientale, ndr). Tanto da diventare, come dichiarato dalla stessa rivista che lo aveva pubblicato “una pietra miliare nella valutazione della sicurezza del glifosato”. Dopo “un’indagine approfondita”, il caporedattore della rivista, Martin van Den Berg, ha ritirato lo studio e ha spiegato le ragioni di questa scelta. In sintesi, “gravi preoccupazioni etiche riguardanti l’indipendenza e la responsabilità degli autori di questo articolo e l’integrità accademica degli studi sulla cancerogenicità presentati”.

Il nodo dell’autorizzazione in Unione Europea

Resta, ora, il dubbio sul peso che ha avuto per un quarto di secolo anche nelle valutazioni delle autorità che hanno regolato l’utilizzo del glifosato per il quale l’Unione europea ha rinnovato nel 2023 l’autorizzazione (Leggi l’approfondimento). Giova ricordare, inoltre, che il 19 novembre scorso, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la Commissione Ue non può concedere proroghe delle autorizzazioni per i pesticidi in modo automatico, in caso di ritardi nel processo di rivalutazione. La Corte si è espressa sui ricorsi presentati dalla ong Pollinis France contro la proroga del periodo di approvazione del boscalid, da Pan Europe per la dimossistrobina e da Aurelia Stiftung per il glifosato. In questo contesto, arriva la decisione presa da Regulatory Toxicology and Pharmacology di ritirare lo studio, indicando le motivazioni, anche alla luce del fatto che il co-autore Gary M. Williams non ha fornito alcuna spiegazione alle domande poste da Martin van Den Berg. Tra le ragioni (e le relative domande rimaste senza alcuna risposta), anche documenti aziendali della Monsanto venuti alla luce negli ultimi anni, durante i contenzioni intentati da cittadini statunitensi che si sono ammalati di cancro.

Studio incompleto e dubbi sull’indipendenza degli autori

Come riportato nella nota del capo redattore della rivista, le conclusioni dell’articolo ora ritirato si basano esclusivamente su studi inediti della Monsanto. Nel corso della stesura, tra l’altro, sono stati ignorati diversi studi sui temi della tossicità cronica e della cancerogenicità pure già disponibili. Non solo: alcuni documenti e e-mail inviate da dipendenti della Monsanto venuti alla luce negli ultimi anni “suggeriscono che gli autori dell’articolo non erano gli unici responsabili della scrittura del suo contenuto”. Quella corrispondenza, anzi, rivela che “i dipendenti della Monsanto potrebbero aver contribuito alla scrittura dell’articolo” senza essere citati come coautori. E la mancanza di chiarezza su quali parti sono state scritte dai dipendenti della Monsanto crea incertezza sull’integrità delle conclusioni tratte. Non è poco, dato che l’articolo afferma l’assenza di cancerogenicità associata al glifosato o alla sua formulazione tecnica, Roundup. Ergo: “Non è chiaro quanto delle conclusioni degli autori siano state influenzate da contributi esterni di Monsanto”. “Questa mancanza di trasparenza – scrive Martin van Den Berg – solleva serie preoccupazioni etiche riguardanti l’indipendenza e la responsabilità degli autori di questo articolo e l’integrità accademica degli studi sulla cancerogenicità presentati”. Di fatto, esiste altra corrispondenza divulgata durante un contenzioso che indica come gli autori potrebbero aver ricevuto un “risarcimento finanziario” da Monsanto per il loro lavoro su questo articolo. “Il potenziale compenso finanziario – scrive sempre il caporedattore della rivista – solleva significative preoccupazioni etiche e mette in discussione l’apparente obiettività accademica degli autori in questa pubblicazione”.

da qui