Crisi economica, riduzione dei consumi, ritorno alla terra ed
energia: sono tanti i temi affrontati nell’intervista rilasciata dal teorico
del movimento della decrescita felice a Sardinia Post.Dapprima insegnante,
oggi apprezzato saggista che indaga i rapporti tra ecologia, tecnologia e
economia, Maurizio Pallante ritiene che la
Sardegna abbia tutte le carte in regola per decrescere felicemente. Ma occorre
cambiare rotta. E utilizzare la tecnologia per far rivivere le piccole comunità
che caratterizzano il territorio dell’Isola.
Si esce dalle crisi economiche,
strutturali o contingenti che siano, producendo maggiore ricchezza. È questo
l’imperativo ripetuto come un mantra da ogni politico. Lei invece
sostiene che la crescità è un problema, anzi, il problema. Ci spieghi perchè.
In un’economia finalizzata alla crescita, le aziende
investono in tecnologie sempre più efficienti per aumentare la produttività.
Ma, così facendo, si riduce il peso del lavoro umano e aumenta la
disoccupazione. A risentirne è la domanda di merci, che si contrae. Ed è così
che si finisce per produrre più di quanto si riesce a comprare. Stando così le
cose, chiedo io ai politici come sia possibile individuare nella crescita la
soluzione della crisi. Si deve anche ricordare che gli Stati sono ricorsi al
debito – pubblico e privato – con l’intento di ridurre il gap tra l’offerta e
la domanda. Ulteriori debiti sono poi stati contratti per far fronte
all’innalzamento dei tassi di interesse sui debiti precedenti. Di fronte a
questa spirale perversa, la destra opta per le politiche di austerità, che
finiscono per accrescere la disoccupazione e contrarre ulteriormente la
domanda, mentre la sinistra preferisce ricorre al debito per sostenere la
domanda, ma così si apre la porta alla speculazione finanziaria.
Il Movimento per la decrescita felice sostiene, invece, che si possa uscire dalla crisi riducendo gli sprechi. Le faccio un esempio: se ci fossero delle politiche volta ad abbattere i consumi energetici delle abitazioni – che arrivano a consumare fino a 20 litri di petrolio al metro quadro l’anno – , noi creeremo un’occupazione che viene ripagata attraverso il risparmio ottenuto sui costi di gestione della casa. Ecco cosa s’intende quando si parla di decrescita. Al contrario, oggi noi compriamo combustibili fossili, che sprechiamo per i due terzi, inquinando e creando tensioni internazionali molto forti.
Il Movimento per la decrescita felice sostiene, invece, che si possa uscire dalla crisi riducendo gli sprechi. Le faccio un esempio: se ci fossero delle politiche volta ad abbattere i consumi energetici delle abitazioni – che arrivano a consumare fino a 20 litri di petrolio al metro quadro l’anno – , noi creeremo un’occupazione che viene ripagata attraverso il risparmio ottenuto sui costi di gestione della casa. Ecco cosa s’intende quando si parla di decrescita. Al contrario, oggi noi compriamo combustibili fossili, che sprechiamo per i due terzi, inquinando e creando tensioni internazionali molto forti.
A proposito di debiti, la
giunta regionale della Sardegna ha di recente acceso un mutuo da 700 milioni di
euro per favorire la ripresa dell’economia: si tratta di un classico esempio di
politica neo-keynesiana. Con il patto di stabilità che grava sulla
disponibilità dei comuni, le maggiori risorse pretese dallo Stato per appianare
il debito, è sempre meglio che morire d’austerity…
Se l’unica alternativa alle politiche neokeynesiane fosse
l’austerity, potremmo ragionarci su, ma c’è appunto una terza soluzione. Tenga
conto che oggi le politiche neokeynesiane di sostegno alla crescita scontano un
forte ritardo: risalgono agli anni ’30, quando non si era ancora arrivati al picco
del petrolio (il punto oltre il quale la produzione di greggio può solo
diminuira, ndr) e non esisteva l’effetto serra. Insomma, oggi più
che mai l’economia è strettamente legata all’ambiente: semplicemente, le
politiche neokeynesiane di crescita non sono attuabili per via di limiti
fisici: le materie che impieghiamo per crescere non sono infinite. Quest’anno,
il giorno in cui l’umanità – peraltro in modo molto iniquo- ha consumato tutte
le risorse che la terra produce in un anno è arrivato il 15 agosto.
Trova che la Sardegna sia
attrezzata rispetto alla sfida lanciata dalla decrescita, a quel ritorno alla
terra da voi caldeggiato? Nello specifico, il fatto che l’Isola si presenti
come una costellazione di piccole comunità, che hanno a disposizione un vasto
territorio è uno svantaggio oppure no, viste le mire dei tanti imprenditori che
vogliono utilizzare il territorio a fini energetici?
Purtroppo, dal dopoguerra ad oggi, la Sardegna ha sacrificato
l’agricoltura a un’industria estremamente inquinante e a un turismo che ha
distrutto le coste. Mi ha sempre stupito che i sardi, in un’isola con un
clima benedetto da Dio, producano solo il 18% del cibo di cui hanno bisogno.
Mentre tutto il resto viene da fuori. Se la giunta decidesse di puntare sull’autonomia
alimentare della Sardegna, quante decine di migliaia di posti di lavoro
potrebbe creare? Molti di più rispetto a quelli creati dall’industria. Un
grosso contributo può arrivare proprio dal settore energetico, incominciando
col ridurre gli sprechi e proseguendo con la realizzazione di piccoli impianti
da fonti rinnovabili volti all’autoconsumo e collegati tra loro in rete. Questa
è anche la ricetta per favorire l’abbandono dei combustibili fossili e
preservare il territorio dagli appetiti di tanti imprenditori.
Venendo all’altra questione sollevata, leggendo Eliseo Spiga, mi sono reso conto di quanto il tessuto culturale, sociale ed economico delle comunità sarde sia stato intaccato negli ultimi sessant’anni, ma la Sardegna ha tutte le carte in regola per decrescere felicemente: la presenza di piccole comunità rappresenta infatti la condizione ideale per praticare la solidarietà tra le persone, la reciprocità, lo scambio senza l’utilizzo di denaro. Sono queste condizioni indispensabili per essere liberi: se si è costretti a comprare tutto, si finisce per diventare schiavi del mercato.
Venendo all’altra questione sollevata, leggendo Eliseo Spiga, mi sono reso conto di quanto il tessuto culturale, sociale ed economico delle comunità sarde sia stato intaccato negli ultimi sessant’anni, ma la Sardegna ha tutte le carte in regola per decrescere felicemente: la presenza di piccole comunità rappresenta infatti la condizione ideale per praticare la solidarietà tra le persone, la reciprocità, lo scambio senza l’utilizzo di denaro. Sono queste condizioni indispensabili per essere liberi: se si è costretti a comprare tutto, si finisce per diventare schiavi del mercato.
Nel vostro manifesto si fa
riferimento a piccole e medie imprese, artigiani specializzati e studi radicati
sul territorio come vettori del cambiamento. Ma com’è possibile per questi
soggetti competere con le grandi aziende e i meccanismi della grande
distribuzione?
Le piccole e medie aziende devono soddisfare i bisogni della
popolazione, lo scopo dell’economia non è mai stato la competizione, ma
produrre quello che serve per vivere bene. Dunque, tra l’altro, questo
significa che noi non siamo contrari alla tecnologia, anzi. L’importante è che
non vengano utilizzate per accrescere la produttività, ma per ridurre il
consumo di energia, materie prime e rifiuti per ogni unità di prodotto.
Tutto questo fa pensare a una
sorta di esodo, per cui c’è una frangia di società, un pezzo di economia che si
costruisce e si rigenera parallelamente e separatamente dall’economia che siamo
abituati a commentare.
Sì, dovrebbe funzionare così a mio modo di vedere, ma non per
creare piccoli spazi di resistenza, o di alternativa, bensì per dar vita a
delle concrete opportunità che possono essere sfruttate da tutti quelli che
sono ancora dentro l’attuale sistema economico. L’obiettivo non è, dunque, creare
delle nicchie di alterità, ma far sì che queste nicchie allarghino il più
possibile lo spazio dell’economia alternativa.
Come valuta, rispetto a questa
visione, iniziative come quella del Sardex?
Sono strumenti molto utili, perché pur praticando un’economia
basata sull’autoproduzione, non ci sarà mai nessun gruppo umano capace di
produrre tutto quello di cui ha bisogno: certe cose bisogna pur comprarle. Una
moneta locale presenta l’indubbio vantaggio di trattenere l’utile legato alla
vendita sul territorio. Al contrario, se pensiamo a tutti i soldi che girano
attorno ai supermercati, ci rendiamo conto che solo gli stipendi delle cassiere
restano sul territorio.
Ci faccia dunque qualche
esempio di decrescita felice già in atto.
Si tratta di esperienza parziali, ma oggi esistono ormai
centinaia di società edili che costruiscono case ad alta efficienza energetica,
aziende che producono sistemi di produzione di energia o di coimbentazione
alternativi, ci sono poi tutte le esperienze dei gruppi di acquisto solidale,
dei contadini che abbandonano l’agricoltura chimica per tornare a quella
biologica e che vendono i propri prodotti al di fuori della grande
distribuzione.
Collegata a questa nuova
visione dei rapporti economici, sociali c’è anche una visione dell’assetto
politico-amministrativo?
Su questo siamo indietro come elaborazione, tuttavia il
compito è bene definito: articolare l’idea di uguaglianza al di là delle forme
storiche date al concetto dalla destra e dalla sinistra.
Piero Loi
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