Approvata e promulgata in piena estate, la legge 8 agosto 2024, n. 121, che istituisce “percorsi quadriennali sperimentali di istruzione secondaria di secondo grado” rischia di riportare indietro di alcuni decenni il nostro sistema di istruzione. Essa infatti, con la riduzione a quattro anni dei corsi degli istituti tecnici e professionali e con quanto la accompagna, introduce di fatto per i ragazzi e le ragazze una selezione precoce, inevitabilmente influenzata dalle condizioni economiche e sociali delle famiglie di appartenenza. Eppure l’intervento legislativo, espressione evidente della cultura della destra al governo, non ha suscitato le manifestazioni di dissenso che avrebbe meritato. Per questo apriamo le nostre pagine, cominciando con un articolo di Domenico Chiesa, a un approfondimento che ci sembra quanto mai necessario. (la redazione)
Un
indicatore del processo di avvicinamento, in chiave unitaria, dei percorsi
della scuola secondaria di secondo grado è stata la loro durata e ha segnato l’evoluzione
della scuola italiana dagli anni ‘60 all’inizio del 2000. Licei e istituti
tecnici hanno rappresentato il metro di riferimento: per svolgere
compiutamente un ciclo di studi secondari servono cinque anni, suddivisi in un
biennio e in un triennio. L’istituto magistrale e il liceo artistico, dopo
un lungo percorso di sperimentazione, hanno conquistato la durata di cinque
anni superando l’anno integrativo. Gli istituti professionali, dagli anni ‘60,
hanno attraversato diversi cambiamenti: nati come corsi triennali sono
definitivamente approdati al percorso quinquennale e nel 2017 hanno assunto una
struttura curricolare fortemente innovativa (su cui ci sarebbe molto da
discutere) rispetto a quelle degli altri percorsi di scuola secondaria di
secondo grado.
La
quinquennalità era, dunque, una condizione necessaria nel processo verso una
riforma caratterizzata da una maggiore unitarietà dei percorsi. Era presente nel progetto dei
nuovi piani di studio Brocca, confermata nella riforma Berlinguer di riordino
dei cicli e nella proposta di riforma Moratti. Invece, da alcuni anni,
è stata rimessa in discussione con la sperimentazione dei licei di 4 anni e ora
con il 4+2 nell’ambito degli istituti tecnici e professionali trasformati
in una filiera (sic!) formativa. Ciò rappresenta
l’azione più forte sul piano dell’assetto istituzionale/ordinamentale; unita a
quelle sul piano culturale (si pensi alla forzatura sull’educazione
civica) e alla stretta autoritaria, stravolgerà il senso e il
compito della scuola.
In realtà il
ministro Valditara fa proprie e cerca, con determinazione, di rendere legge
scelte e orientamenti che da anni, trasversalmente, sono attrattivi per un
vasto spettro di forze politiche, sindacali e economiche. Per questo motivo non
è possibile esaurire la valutazione del provvedimento nell’analisi critica dei
singoli contenuti. Sono scelte gravi e pericolose che potranno essere
contrastate solo con un livello alto di consapevolezza politica, culturale e
pedagogica, all’interno di un’idea di paese e di scuola.
La proposta
di legge n. 1739, per la riduzione a 4 anni della scuola secondaria di secondo
grado, presentata il 26 febbraio 2024, attualmente in discussione alla Camera
dei Deputati e la legge 8 agosto 2024, n. 121, di recente approvazione, che
istituisce la filiera formativa tecnologico–professionale non sono semplici
interventi innovativi in un quadro strutturale stabile; scardinano
l’attuale assetto della scuola per gli adolescenti e allontanano la ripresa di
un percorso riformatore verso una scuola per la cittadinanza; orientano la
revisione delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo e le possibili
differenziazioni nella scuola secondaria di primo grado. Essere contrari o
favorevoli alla riduzione a 4 anni della scuola secondaria superiore significa
incrociare l’alternativa politica di sempre che interessa il senso complessivo
dell’esperienza scolastica: da una parte la scuola funzionale al
mercato del lavoro (non al “lavoro”, ma all’”impresa”) in una logica
neoliberista e dall’altra la scuola per promuovere il pieno sviluppo
della persona umana, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese.
Si può
impedire la riduzione del tempo scuola orientando il ragionamento verso una
diversa prospettiva di cambiamento. In una visione alternativa di scuola per
l’età dell’adolescenza si devono riprendere, approfondire e attualizzare alcuni
snodi che hanno segnato le tappe del mai realizzato processo di rinnovamento;
snodi in cui collocare le proposte governative di questi mesi.
Innanzitutto
il problema di assumere almeno parte del quinquennio nella scuola per
tutti e per ciascuno come estensione dell’esperienza scolastica. È un
obiettivo raggiunto formalmente con la legge 27 dicembre 2006 n. 296
(finanziaria 2007) e poi abbandonato, privandolo dei decreti attuativi. La
questione del biennio è antica e necessita di un approfondimento specifico:
come può essere in continuità con il primo ciclo e come può essere collocato
nel percorso della secondaria di secondo grado dovendo comunque rappresentare
la chiusura dell’obbligo scolastico?
Il secondo
nodo da dipanare è nel rapporto tra scuola e formazione professionale. La formulazione di “istruzione” e
“della istruzione e della formazione professionale” (IeFP) come contenuta
nell’articolo 117 della Costituzione, pone non pochi problemi interpretativi e
attuativi; in particolare sorgono dubbi su come è stata praticata, da tutti i
governi, in questi due decenni. Le scelte di Valditara si collocano proprio nel
porre l’istruzione e formazione professionale (agenzie di FP) in alternativa
all’istruzione (scuola) subito dopo il primo ciclo e non come complementare
all’istruzione dopo il biennio obbligatorio. Si esalta, anche in Italia, la
contrapposizione tra la “scuola” (education) e la “scuola vocazionale” (vocational education and training); per l’istituto professionale (e pure per il
glorioso istituto tecnico) si allentano i legami con la scuola per la cittadinanza;
essi entrano a far parte di una filiera che al capo finale ha direttamente il
lavoro verso cui è finalizzata e strutturata anche l’area culturale. La
stessa idea-immagine di “filiera” riduce il percorso scolastico a un tratto di
un ciclo produttivo che realizza figure professionali compiute e alla
cui formazione contribuiscono, già nel tempo scuola, le componenti del futuro
lavoro, gli esperti provenienti dal mondo delle professioni.
Anche la
riduzione a 4 anni conferma questa tendenza. Si accetta che bastino 4 anni di
istruzione in modo da poter completare la formazione alla professione nei
bienni specialistici (ITS) liberati dalla zavorra della cultura
disinteressata. Del futuro lavoratore la scuola assume
l’impegno di formare la dimensione di produttore, marginalizzando
la costruzione degli strumenti culturali per l’effettiva partecipazione
come lavoratore all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Non
ha lo stesso significato del liceo di 4 anni; qui non c’è uno sconto sulla “quantità”
di istruzione, semmai si scambia un anno di scuola con un incremento dello
stress da prestazione; ma anche per questa scelta non ci sono coperture
pedagogiche o sociologiche , ma solo politico-ideologiche. Il problema del
curricolo, se inteso oltre la dimensione prettamente didattica, prevede un
lavoro di ricerca e di pensiero che da anni e soprattutto per questa fascia di
età non è attivo. Ricordo testi e autori che hanno determinato la mia
formazione ormai tanti anni fa e che, drammaticamente, sono incredibilmente
ancora utili per stimolare una nuova fase di ricerca: Ausubel, Bertoni Jovine,
Manacorda, Chiarante, Codignola, La Porta, Rodotà, Rossi, Pontecorvo, Massa, De
Mauro, Bernardini, Cerroni…
Rimane il
problema più complesso perché non riguarda solo la scuola: quale rapporto con
il lavoro? Esso
prevede un approfondimento di ampio respiro tenendo due punti fermi da
condividere, verso cui orientare il pensiero e le azioni: l’idea che il
miglior servizio che la scuola può fare al futuro lavoro consista nel fare bene
il mestiere di scuola e la necessità di attivare politiche del
lavoro orientate al riconoscimento e potenziamento della sua dignità. Una
scuola come percorso di umanizzazione culturale che possa consegnare i giovani
cittadini a un lavoro in cui sia garantita la dignità, avendo acquisito gli
strumenti per viverlo con padronanza. Scuola e lavoro come tempi distinti, con
distinte responsabilità ma certo non estranei. Nell’esperienza scolastica sono
presenti in modo costitutivo i fondamentali elementi che connotano anche
l’esperienza lavorativa: la partecipazione ad azioni collettive, il sapere
tecnico trasversale, la costruzione di significati e di senso,
l’interpretazione/padronanza della realtà (si veda Cidi Torino, La
scuola e il lavoro, Impremix edizioni, 2023).
L’obiettivo
delle scelte governative è dunque ridurre di un anno il tempo della scuola per
anticipare l’ingresso all’università o per rendere più stretto e vincolante lo
sbocco lavorativo. In un
mondo così complesso e in continua, radicale trasformazione, nella prospettiva
di allungamento della vita e del tempo del lavoro attivo che senso ha porsi
nella prospettiva di ridurre il tempo in cui le persone costruiscono la propria
umanità attraverso l’esperienza culturale non dosata sul futuro mestiere? Il
problema della scuola non è che ruba tempo alla vita ma che non riesce a essere
un tempo di vita; allora va cambiata radicalmente non ridotta o sostituita,
«chiede di essere ricreata e rigenerata, non semplicemente abolita o rinnovata»
(Riccardo Massa, Cambiare la scuola, Laterza, 1997).
Ho caricato
il tema in discussione con problematiche apparentemente estranee alla legge 8
agosto 2024 n. 121 e ai documenti allegati, ma non è così: se vogliamo essere
in grado di contrastare la politica scolastica di Valditara è necessario tenere
i singoli aspetti all’interno della visione in cui assumono senso e non ridurre
la nostra azione alla dovuta contrapposizione. Prima che diventi senso comune
anche tra i protagonisti della scuola, è necessario, fortemente necessario, e
urgente, costruire una prospettiva di cambiamento della scuola in una
direzione opposta a quella in atto da diversi anni, consapevoli che per
cambiare, citando ancora Riccardo Massa, «occorre per prima cosa un esercizio
di pensiero. Solo attraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di
pratico e di concreto».
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