lunedì 16 settembre 2024

Perché il “bel paesaggio” può distruggere il paesaggio - Frederick Bradley

 

Le recenti notizie sul fenomeno dell’overtourism nelle 5 Terre e a Santorini mettono in evidenza un problema che accomuna molti territori il cui sviluppo socio-economico ha avuto il suo motore trainante in quelle che vengono giustamente definite bellezze paesaggistiche. È noto che problemi analoghi affliggono sia altri territori di pregio, come, ad esempio, la Val d’Orcia, sia diverse città d’arte, di cui San Gimignano è forse il caso più emblematico.

Quasi che possedere un bel paesaggio sia non solo la fortuna di luogo speciale, ma anche la sua nemesi per ciò che quella bellezza arriva a comportare. Sembra un non senso il fatto che un territorio di alto valore estetico venga penalizzato dal suo stesso paesaggio, e in effetti, se ciò accade non è imputabile al paesaggio in sé, ma all’accezione che comunemente ne viene data.

Almeno questa è l’interpretazione che scaturisce dall’analisi delle fasi che hanno caratterizzato la crescita socio-economica di molti territori paesaggisticamente rilevanti, modellati dall’uomo nel corso dei secoli. Nello sviluppo di queste aree è possibile riconoscere otto fasi sequenziali in cui l’approccio al paesaggio è passato dalla sua valutazione cognitiva, quindi che ne percepisce il significato, a quella meramente estetica, dove viene equiparato a un panorama. È proprio in questo passaggio che si sono create le condizioni per cui il cosiddetto “bel paesaggio” ha portato paradossalmente a incidere negativamente sul territorio.

Fase 1

In origine il territorio era povero e/o sottosviluppato, spesso un ambiente rurale rimasto ai margini della crescita socio-economica degli anni ‘60-’70 del secolo scorso. Il paesaggio non suscitava interesse per l’osservatore dell’epoca, attratto più dai segni della modernità incombente che non dal retaggio di un mondo ormai appartenente al passato da cui tendeva ad allontanarsi.

Fase 2

Il territorio viene “scoperto” dal viandante colto, spesso benestante, che dà inizio alla sua colonizzazione riattando edifici dismessi o abbandonati nel sostanziale rispetto delle realtà locali. L’attrattiva principale dell’area è la bellezza del suo paesaggio rurale e/o storico in quanto privo di significative modifiche recenti, e soprattutto rispondente a canoni riconducibili, anche inconsciamente, alla nostra identità storico-culturale.

Fase 3

Il territorio conosce le prime forme di turismo culturale che seguono sostanzialmente l’approccio della prima colonizzazione, di cui condivide la visione paesaggistica. Nel paesaggio vengono identificati luoghi di alto valore simbolico, oltre che estetico, e viene scoperta la cultura enogastronomica locale e, più in generale, quella materiale legata al prodotto tipico.

Fase 4

Il territorio viene scoperto anche dal grande pubblico, spesso tramite media che lo mostrano attraverso icone rispondenti a canoni estetici di valore commerciale. Il paesaggio diviene uno strumento di marketing su base estetica. L’aumentata frequentazione turistica porta un notevole benessere economico alla popolazione locale.

Fase 5

Sulla spinta del successo economico, la popolazione locale sposa incondizionatamente l’azione di marketing delle agenzie turistiche, le cui offerte vendono il paesaggio come bene estetico. Anche i contenuti territoriali divengono oggetto di marketing. Si pongono le basi per la massificazione del turismo, favorita dalla politica locale che vi vede un’ottima opportunità di crescita del territorio. In questa fase il paesaggio perde progressivamente il legame con il territorio, come espressione della sua realtà ambientale, sociale e culturale, per divenire un elemento astratto, funzionale esclusivamente al richiamo turistico.

Fase 6

Grazie al turismo di massa e alla sua aumentata popolarità a livello internazionale, l’area è ora in grado di richiamare investimenti esterni interessati al suo valore turistico-industriale. Le icone paesaggistiche giocano un ruolo ancora più pregnante in quanto presentati a modello della “Bella Italia”, spesso con l’avvallo della certificazione UNESCO che ne sancisce l’originalità. Il paesaggio è ormai ridotto a un’icona e il territorio, svuotato di contenuti, diviene uno sfondo per selfie.

Fase 7

Il carattere industriale del turismo di massa porta al progressivo svilimento dell’identità culturale locale. Compaiono in commercio prodotti, anche gastronomici, copia di quelli tipici originali, se non addirittura legati a culture/territori diversi ma comunque riconducibili al “made in Italy”. Si sviluppa un’edilizia residenziale brutta copia dell’architettura locale. Il territorio è spesso ridotto a supporto di iniziative con finalità turistiche poco o nulla attinenti alla realtà locale. Il paesaggio perde di identità e assume il valore di cartolina. Divenuto così un panorama (o scena), non di rado il paesaggio viene usato come sfondo di istallazioni artistiche, finalizzate anche a rivitalizzarne l’interesse.

Fase 8

La popolazione locale si trova spesso impreparata a gestire i flussi turistici di massa che arrivano a incidere negativamente sul territorio. Compare il fenomeno dell’overtourism. Sorgono non luoghi commerciali più o meno mascherati da attività di localismo. Il benessere economico inizia a confliggere con un territorio ormai modellato in funzione del turismo di massa, e con la conseguente perdita dello stile e dei ritmi di vita di un tempo. Parte della popolazione locale non riconosce più il suo paesaggio originario, basato non su stereotipi estetici ma sul riconoscimento del valore identitario del territorio. Si sente l’esigenza di un cambio di paradigma dello sviluppo turistico a cui la politica locale non vuole rispondere (per interesse) e/o non è in grado di farlo (per incompetenza).

Ovviamente lo schema di sviluppo turistico di territori paesaggisticamente rilevanti qui riportato ha un carattere generale, e non mancano eccezioni a più di una delle fasi descritte. Tuttavia, esso ben rappresenta quanto avvenuto in realtà importanti tanto da far comprendere come nelle politiche di valorizzazione territoriali sia necessario guardare al paesaggio per i suoi contenuti essenzialiaprendo così a un turismo di qualità, che non come sterile immagine ad uso e consumo smodato del territorio che raffigura.

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giovedì 12 settembre 2024

Le spiagge sono della natura e delle persone, non di chi ci lucra - Paolo Ermani

Tempi di vacanze e di spiagge assaltate da italiani e turisti, ma sono spiagge particolari perché non appartengono più alle persone o alla natura; sono spesso occupate da privati che ne hanno fatto l’ennesima fonte di profitto sulle spalle della collettività.

  

 

Tempi di vacanze e di spiagge assaltate da italiani e turisti, ma sono spiagge particolari perché non appartengono più alle persone o alla natura; sono spesso occupate da privati che ne hanno fatto l’ennesima fonte di profitto sulle spalle della collettività. Tanto è ormai la normalità usare natura e beni collettivi pagandoli spiccioli allo Stato per ricavarci lauti guadagni.
E così le spiagge sono strapiene di stabilimenti balneari attrezzati dove a costi non bassi, il cittadino paga per qualcosa che dovrebbe essere a disposizione e libero. I posti di spiaggia libera si restringono sempre di più, quindi a meno che non si vogliano fare chilometri o trovare posti sperduti, si è quasi costretti a pagare per stare sulle nostre spiagge.
Ci sono casi emblematici come le spiagge liguri, che spesso sono di qualche metro e in quei pochi metri viene occupato anche il centimetro quadrato dagli stabilimenti privati per accaparrarsi il vacanziero. Poi ci si lamenta che la vita è cara, ma ciò è ovvio se tutto viene costantemente messo a disposizione di chi ci deve fare profitto.
Ma chi di profitto ferisce, di profitto perisce, perché c’è chi lo sa fare meglio degli altri e sono le multinazionali. Così arriva la Red Bull che si prende 120 mila metri quadrati di litorale nel triestino dando l’elemosina di 9 milioni di euro (che per multinazionali di quel tipo, ci pagano il caffè al CEO), per farci il parco giochi della vela per il titolare Dietrich Mateschitz.
Vista la situazione, adesso gli stabilimenti balneari italiani protestano, perché non vogliono che gli si porti via il bocconcino prelibato, esattamente come è successo per gli agricoltori, che prima trasformano il cibo in merce avvelenando l’impossibile e poi quando arrivano i giganti per fare le stesse cose ma con molta più potenza economica, allora non va più bene. Ma se tu accetti che il profitto sia la sola e unica logica per la quale lavori e pensi, non puoi lamentarti se chi, facendo gli stessi ragionamenti, ti spazza via. Abbiamo voluto privare i cittadini e la natura dei loro spazi e farne un negozio e ora le conseguenze nefaste sono evidenti.
Tra l’altro per rendere gli stabilimenti balneari sempre più appetibili, si effettuano lavori con ruspe, camion e varia per rubare spazi a dune o altro che possa in qualche modo diminuire la possibilità di piazzare ombrelloni, sdraio, giochi, intrattenimenti con attrezzature di ogni tipo. Gli stabilimenti si inventano mille servizi e vendite di qualsiasi cosa e a fine giornata spesso si passano trattorini (che inquinano e consumano combustibili fossili per uno degli innumerevoli assurdi e insensati usi degli stessi) o si incaricano persone (spesso immigrati) per livellare la sabbia, perché quelle scomode cunette che si creano devono essere eliminate per fare in modo che il turista cammini sulla sabbia piatta come se fosse sul pavimento di casa.
E come se già la gestione delle spiagge da parte dei privati non fosse una aspetto assurdo, sempre in nome del sacro profitto, adesso arrivano pure gli stabilimenti firmati da stilisti di grido che battezzano quei luoghi con firme, colori, stoffe, mobilia, accessori, trasformandoli in “emozionanti esperienze di stile”. Il tutto a caro prezzo ovviamente e rendendo quei posti ancora più esclusivi, perché si sa, l’italiano si deve distinguere mostrando il suo lato fashion e su come è bravissimo a buttare i soldi.
Chissà se mai arriverà un giorno in cui le persone riprenderanno l’uso delle proprie spiagge, finalmente libere e a disposizione di tutti o dovremo tutti vestirci da lattine di Red Bull o chi per lui, prima di buttarci in acqua.

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sabato 7 settembre 2024

Ambiente e salute a Gaza: una catastrofe nella tragedia della guerra - Fabrizio Bianchi

 


È partita nel corso del week end la campagna vaccinale contro la polio a Gaza, nel corso di una tregua che dovrebbe essere garantita da Israele proprio per permettere di somministrare il vaccino a più di 640mila bambini. Le code testimoniano la grande partecipazione della popolazione gazawi. Ma al di là dell'urgente risposta al ritorno della polio, la situazione sanitaria nella striscia è drammatica sotto tutti i punti di vista. 

Da un recente Rapporto dell’agenzia per la protezione ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), pubblicato a giugno scorso, sulla situazione ambientale e i rischi per la salute nella striscia di Gaza emergono dati raccapriccianti: da dati satellitari è stimato che le bombe abbiano distrutto il 37% delle abitazioni e ne abbiano danneggiate gravemente il 27%, producendo 39 milioni di tonnellate di detriti di varia natura, circa 107 kg per ogni metroquadro di territorio, con un gravissimo inquinamento di terreni e acque. I sistemi idrici, di trattamento dei rifiuti e igienico-sanitari vengono definiti distrutti o prevalentemente inattivi, con la conseguenza che si aggrava di giorno in giorno la situazione ambientale e crescono a dismisura i rischi per la salute, nell’immediato e sul medio e lungo tempo.

La lettura del rapporto UNEP, che ha come titolo “Impatti ambientali del conflitto in Gaza – Valutazione preliminare”, lascia atterriti: se è possibile, la crudezza dei numeri stampati è anche più forte e tragica delle immagini passate giornalmente dai media.

L’ambiente della striscia di Gaza era già in condizioni difficili prima del 7 ottobre, con una forte pressione sugli ecosistemi a causa dell’alta densità di popolazione, di conflitti ricorrenti, delle condizioni di deprivazione socio-economica, in un’area vulnerabile ai cambiamenti climatici.

Distruzione ambientale e rischi per la salute

Le distruzioni recenti e in corso ad opera delle forze armate israeliane hanno praticamente annullato tutti gli sforzi fatti per migliorare i sistemi di gestione ambientale, specie per dotare la popolazione di impianti di desalinizzazione dell'acqua, di trattamento delle acque reflue, di sviluppo di sistemi a energia solare e per il ripristino della zona umida costiera di Wadi Gaza.

Le macerie contengono materiali e sostanze pericolose: ordigni inesplosi, rifiuti di ogni genere, amianto, polveri, che comportano rischi per la salute umana per esposizioni che più si protraggono nel tempo e più produrranno gravi danni all’ambiente e alla salute. Per questa, ragione è fondamentale abbreviare il tempo per la rimozione, il risanamento, la ricostruzione.

A seguito della chiusura dei cinque impianti di trattamento delle acque reflue, le acque non depurate, che contengono agenti patogeni e sostanze chimiche pericolose, inquinano i terreni, le acque dolci e costiere, e le spiagge, dove cercano di sopravvivere oltre 2 milioni di palestinesi. Acque e terreni sono contaminati anche dai metalli pesanti che sono nei pannelli solari distrutti, e dalle numerose sostanze chimiche contenute nelle munizioni esplose, da aggiungere ai rischi degli ordigni inesplosi, che sono particolarmente gravi per i bambini.

Il sistema di gestione dei rifiuti è collassato, 5 impianti di trattamento su 6 sono gravemente danneggiati: il rapporto UNEP riporta che, già alla fine del 2023, 1.200 tonnellate al giorno di rifiuti si accumulavano intorno ai campi e ai rifugi.

Pur in assenza di dati di monitoraggio, l’aria è valutata gravemente inquinata dagli incendi e dalle combustioni a cielo aperto di legna, plastica e rifiuti.

In questo quadro aumentano a dismisura i rischi di ogni tipo di malattia, che siano acute, croniche, infettive, assai difficili da prevedere e su cui poco possono fare i presidi sanitari d’urgenza tenuti coraggiosamente in piedi dalle ONG, mentre c’è bisogno di riorganizzare un sistema sanitario che sia in grado di affrontare gli impatti della guerra.

Naturalmente al primo posto ci sono i presidi per la cura e riabilitazione, ma sarà importante anche ricostruire la capacità di rilevamento di dati ambientali e sulla di salute della popolazione, indispensabili per la comprensione della situazione e la programmazione di un sistema sanitario in grado di rispondere alle criticità principali post-belliche.

I rischi sono già realtà

Il poliovirus di tipo 2 rilevato a luglio in liquami provenienti dai siti di Khan Younis e Deir Al- Balah e il primo caso confermato di poliomielite in un bambino di 10 mesi non vaccinato a Deir Al- Balah, sono eventi gravissimi, che non accadevano da 25 anni.

Il caso viene presentato in modo superficiale, alludendo al potere risolutivo di una campagna di vaccinazione affidata alla somministrazione per bocca del vaccino Sabin (OPV, basato su virus Polio vivi attenuati), da effettuarsi in una situazione densa di difficoltà, e non priva di rischi. Infatti, esiste una probabilità, seppure bassa, di effetti collaterali del vaccino OPV (in Italia è in uso un piano di 4 dosi di vaccino inattivato di tipo Salk) e tra i fattori di rischio riconosciuti per lo sviluppo di casi gravi di poliomielite ci sono lo stato di gravidanza, l’immunodeficienza, la presenza di ferite o lesioni, condizioni fin troppo frequenti in questo periodo.

La situazione richiede un intervento su larga scala per la vaccinazione urgente, ma ha bisogno di un piano più complesso che contempli richiami vaccinali e attenzione anche agli adulti, che possono infettarsi, sebbene con più bassa probabilità, per via oro-fecale o per contatto con ammalati o portatori sani.

In estrema sintesi, nessun ecosistema è risparmiato dalle conseguenze dirette e indirette della distruzione bellica, gli ambienti marini e costieri, i terreni coltivabili e l’aria. Oltre alle enormi perdite umane dirette, gli effetti sulla salute oggi visibili sono solo la punta dell’iceberg, e ciò che accadrà in seguito è solo approssimativamente stimabile in assenza di un ritorno alla pace.

Il rapporto UNEP conclude con l’appello “al cessate il fuoco per salvare vite umane e ripristinare l'ambiente, per consentire ai palestinesi di iniziare a riprendersi dal conflitto e ricostruire le loro vite e i loro mezzi di sussistenza a Gaza. Un'analisi ambientale, che comprenda la valutazione della contaminazione da munizioni e degli altri inquinamenti legati al conflitto, dovrebbe essere parte integrante della pianificazione della ripresa e della ricostruzione.”

- Ne avevamo parlato anche qui su Il Bo Live a inizio agosto: Striscia di Gaza: un'emergenza (anche) sanitaria 

“Cambiano gli scenari di guerra ma non cambia la sostanza e la smisurata ipocrisia di chi rifiuta la colpa o non si assume responsabilità

Nel libro di Tiziano Terzani “Lettere contro la guerra”, di recente ristampa, è scritto: “Che differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le nostre bombe a Kabul? La verità è che quelli di New York sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri 100.000 bambini afghani che, secondo l’UNICEF, moriranno quest’inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini «loro» non ci interessano più.”

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venerdì 6 settembre 2024

Hanno trovato squali positivi alla cocaina, e non fa ridere - Anna Cortelazzo

  

Quando si viene a sapere che un animale è risultato positivo a una sostanza stupefacente, può scattare un sorriso al pensiero, alimentato anche da pellicole dal dubbio umorismo come Cocainorso, una commedia tratta purtroppo da fatti realmente accaduti: nel 1985 un orso nero morì di overdose, dopo che uno spacciatore cadde da un aereo con un carico di cocaina del valore di 15 milioni di dollari. La mancata apertura del paracadute comportò non solo la morte dello spacciatore, ma anche quella dell’incolpevole orso, che per caso aveva trovato il carico e aveva ingerito quasi 4 grammi della sostanza in grado di uccidere anche un animale da 100 chilogrammi.

Il problema è proprio questo: dietro alla facile ironia che ha portato a soprannominare il malcapitato Pablo Escobear, le sostanze stupefacenti prodotte dall’uomo hanno un impatto importante, e a volte mortale, anche sugli animali che ci entrano in contatto e che non scelgono liberamente di assumerle. Il caso della cocaina è fortunatamente raro, ma una birra avanzata lasciata incustodita in un bosco è un evento più frequente, e non si contano i casi di animali domestici intossicati da oppioidi o altri farmaci lasciati incustoditi dai loro umani di riferimento. Casi come questi sono la riprova che ci troviamo a convivere con animali, selvatici e non, senza curarci più di tanto delle loro esigenze, delle loro abitudini e del loro essere diversi dagli esseri umani.

In un contesto del genere farà quindi molto meno sorridere la notizia che nelle acque del Brasile sono stati trovati degli squali positivi alla cocaina, e non è nemmeno la prima volta. Negli ultimi anni questo fenomeno ha catturato l'attenzione del pubblico, anche qui grazie al (o per colpa del) cinema, perché si sono diffusi film ma anche documentari che affrontano la tematica. Pellicole grottesche come Cocaine Shark, tra l’altro, non aiutano a trasmettere un’immagine corretta di un animale a rischio estinzione: un animale fragile che come tale andrebbe tutelato, ma è difficile farlo quando la percezione pubblica è viziata da un immaginario nutrito dalla serie Lo squalo.

La tematica degli squali che si ritrovano inconsapevolmente ad assumere droga è stata affrontata anche da un più serio documentario dal titolo quasi identico, Cocaine Sharks, in cui un gruppo di scienziati cerca di capire se gli squali del Golfo del Messico ingeriscano cocaina, visto che spesso gli spacciatori, messi alle corde dalle autorità, la buttano in mare per distruggere le prove. Il lavoro degli scienziati si era rivelato inconcludente, facendo forse tirare agli spettatori un provvisorio sospiro di sollievo (in Italia il documentario non è ancora disponibile).

Ora invece abbiamo le prove del fatto che gli squali possono essere positivi alla cocaina, e anche se non sono pericolosi come quelli delle pellicole di serie B, che diventano creature aggressive con caratteristiche somatiche che hanno solo un piccolo barlume delle fattezze originarie, la situazione è problematica, sia per ragione etiche che per problemi di conservazione delle specie. Uno studio condotto in Brasile ha fornito le prime evidenze concrete che gli squali sono effettivamente esposti alla cocaina. Le tracce di questa sostanza sono state trovate nei muscoli e nel fegato di 13 esemplari di squalo brasiliano dal naso affilato, uno squalo di piccole dimensioni classificato come vulnerabile dalla UICN, anche se è necessario procedere con ulteriori ricerche in modo da capire se gli squali (e gli esseri umani che li mangiano) vengano effettivamente danneggiati dall’esposizione, tanto più che cinque delle 10 femmine analizzate erano incinte, e non si conoscono ancora le conseguenze della droga sui feti degli animali (però è lecito supporre che ci siano, visti gli esperimenti analoghi condotti in passato sugli zebrafish).

Il problema, tra le altre cose, non è rappresentato soltanto dalla cocaina che viene gettata in mare in caso di retate: la droga viene rilevata anche nelle acque reflue, e non solo in Brasile. Esistono molti laboratori illegali nei quali gli scarti delle sostanze vengono gettati negli scarichi, per poi raggiungere il mare se non vengono rispettate le norme di smaltimento. Il giro cambia, ma il risultato no. Un’altra ipotesi è che gli squali si trovino ad assumere la cocaina indirettamente, mangiando pesci che a loro volta ci sono entrati in contatto, ma indipendentemente dalle modalità di assunzione ciò che è certo è che tutti i campioni di fegato analizzati sono risultati positivi, e la concentrazione era di 100 volte superiore a quella riscontrata negli studi precedenti su altri animali acquatici.

Lo squalo brasiliano dal naso affilato è stato scelto proprio perché vive prevalentemente in ambiente costiero, e quindi si è ipotizzato che fosse l’esemplare perfetto per questo tipo di test. L’animale trascorre infatti la sua vita in un luogo circoscritto, senza spostarsi più di tanto, e non in un luogo a caso, ma tra le acque costiere di un paese in cui il traffico di cocaina è particolarmente elevato. La zona, inoltre, non ha un sistema fognario adeguato e lo smaltimento degli scarti è da migliorare, per usare un eufemismo. Ora che è stata trovata la conferma di ciò che gli esperti sospettavano da tempo, sarebbe interessante proseguire le ricerche anche in altri luoghi del mondo, per vedere quanto questa situazione sia diffusa.

La scoperta di cocaina negli squali brasiliani mette in luce un grave problema di inquinamento che richiede attenzione immediata e ulteriori ricerche, ma anche iniziative di contrasto al traffico di droga. La protezione degli ecosistemi marini è fondamentale non solo per la salute umana (ricordiamo che molti abitanti della zona consumano carne di squalo perché ricca di proteine, e forse lo facciamo anche noi senza saperlo), ma anche per la conservazione della biodiversità, perché come dicevamo è probabile che la cocaina sia dannosa per i feti e che renda gli animali più suscettibili ad altre malattie.

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giovedì 5 settembre 2024

Plastica nel Po: misurarla non è facile - Marco Boscolo


 Quanta plastica transita nei fiumi? La realtà è che non lo sappiamo e provare a rispondere a questa domanda non è affatto semplice come potrebbe sembrare. A fine aprile, a Ferrara, sono stati presentati i risultati di un progetto che ha per lo meno provato a farlo. Si chiamava Monitoraggio Applicato alle Plastiche del Po (MAPP) e a promuoverlo sono stati la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile e l’Autorità di Bacino distrettuale del fiume Po. Per poco meno di due anni, tra settembre 2021 e giugno 2023, il progetto ha provato a misurare la quantità di plastica che passa nel Po utilizzando tre diversi metodi: l’osservazione diretta dei rifiuti galleggianti (floating litter) da diversi punti lungo il corso del fiume, lo studio via GPS dei percorsi che i rifiuti galleggianti intraprendono e un tentativo della loro individuazione tramite l’analisi delle immagini satellitari. Nessuna delle metodologie ha permesso di raggiungere una risposta definitiva, ma sono uno dei pochi tentativi diretti di misurazione effettuati sul Po e sui fiumi in generale.

I limiti delle stime

Al progetto MAPP ha partecipato anche Simone Bizziesperto di geomorfologia fluviale dell’Università di Padova, che ha fatto parte del team che ha sperimentato l’analisi satellitare per individuare la plastica galleggiante. “Esistono diverse stime della quantità di rifiuti plastici prodotti in una determinata area”, spiega, “e si basano su una serie di indicatori come per esempio la densità abitativa e industriale, il PIL locale, ecc. per inferire quanta plastica viene prodotta” e, quindi, quanta di questa è lecito aspettarsi che finisca nei fiumi. Ma tra le stime e la realtà potrebbero esserci delle discrepanze significative. “Sappiamo che in mare c’è molta plastica”, continua Bizzi, “e l’abbiamo anche potuta misurare abbastanza accuratamente”. L’esempio più famoso è quello del cosiddetto Pacific Trash Vortex, un’isola di rifiuti di plastica nell’oceano che è ben visibile anche dal satellite, ma anche lungo le coste del Mediterraneo si possono vedere accumuli di rifiuti. Di conseguenza la domanda è quanta di questa plastica arrivi dai fiumi.

Per rispondere, all’interno del progetto MAPP si è escogitato un sistema piuttosto semplice, ma ingegnoso. In diversi momenti dell’anno e da diversi punti del corso del Po sono state rilasciate in acqua delle sfere galleggianti che contenevano un segnalatore GPS. In questo modo è stato possibile monitorare il loro viaggio nel corso dei giorni e delle settimane successive, simulando il comportamento dei rifiuti plastici galleggianti. Il risultato più interessante è che solo il 15% è arrivato al mare. In altre parole, solo una piccola parte della plastica che transita sul Po finisce davvero in mare. Dove finisce però l’altro 85%?

 “I segnalatori GPS hanno permesso di individuare alcuni punti lungo l’asta del fiume dove questi oggetti galleggianti tendono a incagliarsi”, racconta Bizzi. Per esempio, nella seconda sessione di lancio dei segnalatori da Cremona alcuni si sono incagliati a pochi chilometri dalla città, altri hanno percorso molti chilometri e solo alcuni sono arrivati in uno dei rami nel Delta del Po. “Questo tipo di risultato è uno dei più interessanti del progetto”, spiega Bizzi, “perché ci fa capire come molti rifiuti vengono intercettati dalla vegetazione riparia”, cioè le piante che crescono lungo le rive del fiume. Inoltre, c’è una parte di questa plastica che si trasforma in microplastica e, quindi, diventa invisibile all’occhio nudo. “Con che velocità avvenga questo passaggio è una domanda aperta”.

 

Cosa succede con il fiume in piena

Il monitoraggio a vista del passaggio dei rifiuti plastici ha il vantaggio di essere quantitativo e preciso, ma non può essere effettuato continuativamente. In più, come si può leggere dal rapporto finale del progetto MAPP, e come ci conferma Bizzi, non è stato effettuato nelle condizioni di massima portata del fiume. Questo è il momento in cui la forza dell’acqua porta probabilmente con sé la maggior parte dei rifiuti galleggianti. Non solo, “è in questi momenti che da geomorfologo dei fiumi ipotizzo che ci possa essere una nuova movimentazione di quegli accumuli di fiumi lungo il corso”, ci spiega. In altre parole, quando il fiume ha più forza è ragionevole pensare che riesca a disincagliare almeno una parte degli oggetti intrappolati lungo le sue sponde che, così, riprendono il loro viaggio verso la foce.

Per provare ad approfondire i risultati fin qui raggiunti, a settembre dovrebbe partire un nuovo progetto di monitoraggio che sfrutterà due telecamere “smart” in grado di classificare in modo autonomo i tipi di oggetto galleggiante che vedono. Sono telecamere che sfruttano il deep learning, una tecnologia basata sull’intelligenza artificiale, e che permetteranno di monitorare in modo continuativo il fiume, misurando in modo più preciso quanta plastica vi transita. Se tutto verrà confermato, le due telecamere saranno piazzate una all’incirca a Isola Serafini, nel piacentino, e una all’altezza più o meno di Pontelagoscuro, nel ferrarese. 

Sebbene si tratti di un risultato che dovrà essere confermato dal possibile nuovo progetto, l’individuazione delle aree di accumulo dei rifiuti ottenuta dal progetto MAPP ha fornito un’indicazione significativa per due motivi. Il primo è che mostra dei punti precisi lungo il corso del fiume dove andare a scovare la plastica che non arriva al mare. Il secondo, più pratico, è che individua i tratti del fiume dove è più sensato eseguire delle pulizie dalla plastica[F1] 

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martedì 3 settembre 2024

Il business della sanità e le liste d’attesa - Giorgio Cavallero

 

Le liste d’attesa sempre più lunghe e talora inaccessibili sono, nella sanità, un dato di fatto, un’evidenza ingombrante nonostante i numerosi tentativi di occultamento. Recentemente, dopo i richiami della Corte dei conti, la magistratura ha ribadito che non è lecito chiudere le agende delle prenotazioni, ma non è raro che vengano fissati appuntamenti con scadenze superiori anche a dodici mesi.

Ovviamente la lunga lista d’attesa colpisce coloro che non possono pagare di tasca propria nel privato o in intra moenia e coloro che non riescono ad aggirarle con sistemi clientelari o utilizzando artifici leciti (o ritenuti tali). Esistono, infatti, diverse “facilitazioni” per l’accesso alle prestazioni sanitarie: il pagamento di polizze sanitarie, l’adesione a fondi di sanità integrativa, le convenzioni di categoria, i sistemi di “welfare aziendale” sono forme di sanità complementare che prevedono dei benefici fiscali e incentivano così una parte della popolazione sottraendo risorse al sistema e, in definitiva, alla generalità degli utenti. E ci sono, poi, forme di agevolazione più ambigue: per esempio in alcuni casi pagando un supplemento è possibile tagliare la coda. Tutto ciò mentre viene giustamente richiesto ai medici di base di indicare e certificare l’urgenza della prestazione. Nel contesto descritto, è evidente che la priorità dell’accesso è dettata quasi esclusivamente dal reddito del paziente e dalla sua capacità di pagare o dalla sua appartenenza a categorie protette, mentre l’urgenza e la gravità della patologia diventano spesso un criterio secondario. Si stravolge, così, il dettato costituzionale: perché la salute non è più un diritto fondamentale e perché, paradossalmente, mentre la Carta afferma che la Repubblica «garantisce cure gratuite agli indigenti» sono proprio questi ultimi a non avervi accesso e a non essere garantiti. La conseguenza è un gravissimo problema di equità, di credibilità delle istituzioni e, in ultima analisi, di carenza di democrazia reale.

Lo scorso 18 aprile 2024 Istat ha stimato che, nel 2023, 4,5 milioni di italiani hanno rinunciato a visite mediche per motivi economici e liste di attesa troppo lunghe. In questo quadro, in particolare per le classi più povere, il ricorso al Pronto soccorso diventa l’unica possibilità per ottenere un accesso tempestivo alle cure. Tuttavia l’ingorgo dei servizi di emergenza costituisce un ulteriore problema per il sistema sanitario e per tutta la popolazione oltre che uno strumento anomalo, costoso e inadeguato per gestire le problematiche legate alla cronicità, alla non autosufficienza alla prevenzione e alla cura delle patologie non acute. Non curare una parte della popolazione o curarla in regime di urgenza non è un risparmio: non a caso la Costituzione (i Costituenti erano memori di quanto avvenne con “l’epidemia spagnola”) afferma che la salute è non soltanto «un fondamentale diritto dell’individuo» ma anche «un interesse della collettività». Le infezioni da Covid hanno ulteriormente dimostrato che la salute di ciascuno dipende inesorabilmente anche dal quella degli altri e che è pericoloso e sconveniente anche dal punto di vista economico avere delle sacche di popolazione prive di assistenza sanitaria. Paradossalmente la recente pandemia ha determinato un aumento esponenziale delle sottoscrizioni di polizze sanitarie individuali anziché di investimenti durevoli e strutturali per la sanità pubblica. A fianco della crescita della popolazione esclusa dalle cure, si crea così una grande massa di cittadini che, per curarsi, ricorre al pagamento in proprio. Conseguentemente, la carenza di servizi sanitari costituisce un fattore di impoverimento di una larga fascia di popolazione.

In Italia, la spesa sanitaria out of pocket, comprendente tutte le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini che prevedono un esborso di denaro da parte dell’utente, continua inesorabilmente a salire. Come ha rilevato il monitoraggio della spesa sanitaria 2023 pubblicato dalla Ragioneria dello Stato, la spesa sanitaria a carico dei cittadini è passata da 28,13 miliardi nel 2016 a 40,26 miliardi nel 2022, con un incremento, solo nell’ultimo anno, del 8,3%, raggiungendo il 22,9% della spesa complessiva contro una media europea del 15,7%. In definitiva i tagli alla sanità pubblica hanno creato un ricco mercato privato che vede costantemente l’ingresso di nuovi soggetti e imprese che orientano gli investimenti. In altri termini, la sanità è un settore che rappresenta un business in costante espansione e durevole nel tempo. Se poi ai privati viene consentito di selezionare sia le prestazioni, evitando quelle meno remunerative, che la tipologia dei pazienti, si comprende la corsa ad entrare nel sistema sanitario. Inoltre nel nostro Paese persiste e prolifera un sistema di commistione pubblico-privato istituzionalizzato senza eguali. In tutto il mondo esistono erogatori pubblici e privati, ma con una chiara distinzione di ruoli e con il servizio pubblico pagatore che decide integralmente le prestazioni e i servizi da erogare e svolge controlli non occasionali ma strutturali. Da noi, invece, si arriva all’autoprescrizione di prestazioni da parte dei diretti fruitori della remunerazione. L’ideologia della commistione pubblico privato – che si traduce in investimenti in partnerariati (preferiti anche quando non necessari), accreditamenti e convenzionamenti con strutture private nonché esternalizzazioni finalizzate a ridurre i salari degli operatori – produce una persistente pratica di devoluzione al privato di funzioni pubbliche che trova nel concetto di sussidiarietà la sua cornice. È la riproposizione estesa di quanto a suo tempo concesso nel campo della sanità, dell’istruzione e dell’assistenza alle strutture ecclesiastiche. È l’ideologia del “meno Stato più privato” che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ideologia praticata abbondantemente anche da governi sedicenti “di sinistra”.

È in questo quadro che si è determinato l’allungamento delle liste d’attesa, dovuto principalmente a un incremento della domanda Tale incremento, peraltro, è solo in parte ascrivibile ai maggiori bisogni sanitari, pur reali sia per l’aumento della popolazione ultra sessantacinquenne (portatrice di maggiori patologie), sia per il costante progresso delle cure. Esiste, infatti, un pericoloso consumismo sanitario, una costante istigazione ad esami e farmaci inutili, alimentata da pressioni mediatiche (che incidono su una popolazione con una cultura sanitaria scarsa e incerta: del resto siamo un Paese con un livello di scolarità tra i più bassi d’Europa) e dalla conseguente necessità di “prescrivere qualcosa” per assecondare le aspettative di una popolazione fragile ed ansiosa che richiede rassicurazione. Il resto lo fanno gli interessi economici che derivano dall’implementazione dei consumi. Di fatto si calcola che sia inappropriato un terzo delle prestazioni diagnostiche, mentre l’uso di molti farmaci e parafarmaci sfrutta esclusivamente l’effetto placebo. Le cosiddette “liberalizzazioni”, che hanno equiparato i farmaci e la sanità a qualunque altro bene di consumo, hanno inoltre portato a un abnorme incremento dell’offerta e di bisogni, spesso voluttuari, indotti per alimentare il mercato sanitario. Le liste d’attesa sono un buon affare e stanno creando un mercato fiorente di sanità a pagamento: sono proprio gli esami inutili che determinano i maggiori utili finanziari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiarito che è l’investimento nella sanità pubblica ad avere determinato i significativi risultati raggiunti nell’aspettativa di vita mentre la spesa out of pocket vi contribuisce in minima parte.

Oltre che dell’incremento della domanda, il prolungamento delle liste d’attesa nel servizio pubblico (che, a differenza di quanto accade nelle attività a pagamento, cresce costantemente) risente di numerosi fattori. C’è, anzitutto, la riduzione dell’offerta da parte del Servizio Sanitario Nazionale per mancanza di medici e infermieri il cui numero è inferiore al 2010 nonostante l’incremento della loro età media. Le scarse retribuzioni del settore pubblico, poi, determinano fuga degli specialisti verso il privato e all’estero. La selezione delle prestazioni da parte del privato, inoltre, rende il servizio pubblico gravato dalle prestazioni più complesse, onerose e impegnative per il personale. Tutto ciò a fronte di una spesa pubblica per il SSN pari al 6,6% del PIL (in diminuzione nella programmazione dei prossimi anni: 6,2% nel 2025 e 6,1% nel 2026) contro una media europea del 7,1%Mentre nell’Unione europea la spesa pubblica pro capite è, mediamente, di 3.562 euro, in Italia scende a 2.312. E la situazione è aggravata dal fatto che i costi dei farmaci sono uguali e che l’Italia è, nel mondo, il Paese con l’età media più elevata dopo il Giappone.

Non c’è più spazio per la retorica del servizio sanitario migliore del mondo: non è più così da molto tempo nonostante il sacrificio degli operatori. Non a caso l’Unione europea, dopo il riscontro dell’elevata e anomala mortalità durante la pandemia, aveva previsto per la sanità italiana, attraverso il MES, un finanziamento straordinario di 38 miliardi (che prevedeva una restituzione in 10 anni al tasso del 1%), che è stato, peraltro, sdegnosamente rifiutato.

La conclusione è obbligata: le liste d’attesa sono l’esito di un incrocio di problemi apparentemente di carattere tecnico, ma in realtà di natura esclusivamente politica che dipendono dall’impianto culturale e ideologico dei governi.

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lunedì 2 settembre 2024

Chi dissente è criminale. Il caso Tav in Val di Susa - Livio Pepino

 

Volere la Luna e il Forum Disuguaglianze e Diversità hanno iniziato, nel giugno scorso, una riflessione comune sulle molte facce della svolta autoritaria in atto nel Paese. Alla prima tappa di quella riflessione (il convegno romano del 20 giugno) ha fatto seguito nei giorni scorsi la pubblicazione dell’e-book “Verso una svolta autoritaria? L’Italia e l’Europa tra neoliberismo e restrizione della democrazia”, scaricabile gratuitamente da questo sito (https://volerelaluna.it/materiali/2024/08/28/verso-una-svolta-autoritaria/) e da quello del Forum (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/download-verso-una-svolta-autoritaria/). Anche per sottolineare ulteriormente l’iniziativa pubblichiamo qui l’intervento di Livio Pepino dedicato alla repressione del dissenso, con particolare riferimento alla situazione della Val Susa. (la redazione)

1. Da un lato la deriva autoritaria che sta aggredendo l’assetto istituzionale del Paese; dall’altro il tentativo di fare terra bruciata intorno ai barbari, ai marginali e ai ribelli. Le due cose si tengono e si comprendono appieno solo nel loro collegamento.
Alla marginalità e al dissenso radicale sono stati dedicati i primi interventi legislativi del Governo della destra e della sua maggioranza (affiancati da attenzioni particolari delle autorità amministrative e di molte Procure). Nel giro di poco più di un anno è stato, tra l’altro, fortemente limitato il diritto di riunione, sono state inasprite le pene (già abnormi) per la protesta ambientale, è stato ripristinato il blocco stradale e sono state aggravate le sanzioni per i reati commessi nel corso di manifestazioni. E non basta. Il disegno di legge governativo n. 1660 sulla sicurezza, all’esame della Commissione Giustizia della Camera, completa l’opera con un ulteriore aumento della pena per le occupazioni di immobili, la previsione del blocco ferroviario, oltre a quello stradale, come reato (con pena da 6 mesi a 2 anni) «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario realizzato da una sola persona è una semplice ipotesi di scuola…), l’ulteriore aumento di un terzo della pena per la resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commesse in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza (e dunque, prevalentemente, nel corso di manifestazioni), l’introduzione del delitto di rivolta in istituto penitenziario (con la precisazione che la “rivolta” si può realizzare «mediante atti […] di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite»), l’estensione della sfera di applicazione della scriminante dell’uso legittimo delle armi da parte di ufficiali e agenti di polizia e via elencando. E c’è chi, nella maggioranza, ha presentato un emendamento teso ad aumentare a dismisura (sino a un massimo di 25 anni secondo l’interpretazione più attendibile) la pena per il delitto di resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commessa «per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» (sic!): non passerà, ma è indicativo di un clima nel quale l’Ungheria è vicina e il codice Rocco impallidisce. Ma tutto questo non è cominciato ieri e, anche per cercare di invertire la tendenza, occorre capire come si è arrivati a questo punto.

2. Illuminante è la vicenda del movimento no Tav, cioè dell’opposizione alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione, diventata, negli anni, il crocevia di questioni fondamentali per la nostra democrazia.
La Val Susa è una piccola valle alpina attraversata dalla Dora Riparia, con una popolazione di 90.000 abitanti e 40 Comuni. Una valle un tempo bellissima, che l’uomo ha gravemente ferito. Nei luoghi dove dovrebbe iniziare il traforo (di 57 km!) della nuova linea (di complessivi 270 km) già corrono due strade nazionali, un’autostrada e una ferrovia (utilizzata al 30% delle sue potenzialità), tutte destinate a restare. Non è difficile immaginare cosa sia una valle (abbastanza stretta, com’è, in genere, delle valli) attraversata da cinque arterie di grande percorrenza… Di più, questa valle è, secondo il coordinamento dei medici di base che vi operano, uno dei territori del Paese con la maggior concentrazione di tumori e di patologie connesse con l’amianto e l’uranio (presenti in misura significativa nelle montagne che si vorrebbero scavare). Non stupisce, in questo contesto, che, fin da quando, nei primi anni ‘90 del secolo scorso, si è iniziato a parlare dell’opera, gran parte dei valsusini non abbia condiviso gli entusiasmi dei promotori (guidati dalla Fondazione Agnelli), estasiati dalla possibilità di spostarsi da Milano a Parigi per prendere un aperitivo sotto la Tour Eiffel (sic!). E l’entusiasmo non è certo aumentato quando, nei decenni successivi, le profonde trasformazioni sociali e un occhio ai dati hanno indotto i fautori dell’opera a lasciare a terra i passeggeri e a convertire il progetto da alta velocità in alta capacità per trasporto merci (a cominciare da quelle auto che, intanto, la ex Fiat smetteva di costruire a Torino…). Di qui la nascita del movimento no Tav, da subito impegnato contro lo scempio ambientale e l’attentato alla salute della popolazione, l’inutilità della nuova linea (data la caduta verticale degli scambi di merci sulla direttrice est-ovest), lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica. Ragioni ulteriormente consolidatesi nel tempo alimentando un’opposizione tuttora viva e vitale, dopo oltre 30 anni. Così il microcosmo della Val Susa, angolo del Piemonte in precedenza sconosciuto ai più, è diventato un laboratorio: di partecipazione, di azione politica, di democrazia dal basso, ma anche di criminalizzazione e repressione del dissenso.
I fatti, dunque.
La serietà delle ragioni dell’opposizione (concernenti i diritti fondamentali delle persone) e il carattere diffuso della protesta (con manifestazioni che hanno superato i 70.000 partecipanti) avrebbero meritato, in una democrazia coerente con il proprio nome, un confronto reale e approfondito. Invece… Lascio la parola al Tribunale permanente dei popoli che, nella sentenza 8 novembre 2015, ha rilevato, tra l’altro, che «si sono ignorati totalmente le opinioni, gli argomenti, ma ancor più il sentire vivo delle popolazioni direttamente colpite» e che «ciò rappresenta, nel cuore dell’Europa, una minaccia estremamente grave all’essenza dello Stato di diritto e del sistema democratico che deve necessariamente essere fondato sulla partecipazione e la promozione dei diritti e il benessere, nella dignità, delle persone». In altri termini, si è proceduto in Val Susa con un approccio di carattere neocoloniale, trasferendo nel nostro Paese metodi praticati nel secolo scorso dalle potenze occidentali in Africa, in Asia e in America latina: certo, con modalità meno brutali e cruente, ma seguendo la stessa logica, in una prospettiva di crescente svuotamento della democrazia, le cui istituzioni diventano sempre più luoghi di ratifica di decisioni prese altrove.

3. La sequenza e le modalità dell’intervento istituzionale contro il movimento di opposizione in Val Susa sono esemplari.

La prima reazione dell’establishment è stato il tentativo di marginalizzare la protesta, confidando nel suo sgonfiamento sotto l’azione del tempo. Protagonisti di questa operazione, oltre ai promotori, le istituzioni nazionali e regionali e i media (quei media nei cui consigli di amministrazione sedevano – e siedono – spesso gli azionisti di società interessate all’opera e che, in tutta la vicenda, saranno una presenza decisiva). Si sono alternati, in questa fase, riconoscimenti di facciata, paternalistiche assicurazioni di futuri confronti, grottesche rappresentazioni dei protagonisti della protesta come anacronistici Obelix o Asterix (quando non come aborigeni con l’osso al naso, ripresi dall’iconografia coloniale fascista), critiche a un presunto luddismo incapace di guardare al futuro e legato alla sindrome Nimby (“Non nel mio cortile”), patriottici richiami allo spirito del Conte di Cavour “padre” del primo traforo del Frejus e molto altro ancora. Poi, visto che gli “indiani di valle” non accennavano a demordere si è cambiato registro.

È iniziata così la seconda fase, quella “del bastone e della carota”, nella quale si sono susseguiti tentativi di “comprare” il movimento con promesse di compensazioni (lustrini e perline dei tempi moderni), istituzione di finti tavoli di concertazione (a cominciare dall’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione, pubblicizzato come luogo del confronto democratico, ma presto trasformatosi in “caminetto” riservato ai sindaci favorevoli all’opera), velate minacce di interrompere il confronto e di passare alle “maniere forti”. Ma l’effetto è stato opposto a quello sperato: il movimento no Tav, lungi dal disgregarsi, si è ulteriormente rafforzato, è riuscito a impedite carotaggi e apertura di cantieri, è diventato un riferimento nazionale e internazionale, ha aggregato tecnici e intellettuali e ha riscosso un ampio consenso di opinione (quantificato, dall’Ispo di Mannheimer, in un’indagine commissionata dal Corriere della Sera all’inizio del 2012, nel 44 per cento degli italiani).

Ciò ha aperto la strada alla terza fase: quella della criminalizzazione e della repressione, iniziata nel 2005 e sviluppatasi in modo particolarmente brutale a partire dal 2011, dopo lo sgombero del presidio allestito alla Maddalena di Chiomonte per impedire l’inizio dello scavo di un tunnel geognostico e i connessi scontri. I passaggi fondamentali di questa fase sono, in estrema sintesi, i seguenti:

a) la creazione, in Val Susa, di una sorta di stato di eccezione realizzato attraverso un’inedita militarizzazione del territorio (assai maggiore di quella riscontrabile in zone a forte presenza criminale, con presenza massiccia, in funzione dissuasiva e di controllo, di forze dell’ordine e di reparti dell’esercito, spesso in tenuta antisommossa); l’istituzione (in evidente continuum con la prassi iniziata a Genova nel luglio 2001) di zone rosse in prossimità dei cantieri (aperti o semplicemente previsti), con divieto generalizzato di accesso, recinzioni di filo spinato e concertina e presidi di forze di polizia (si contano, dal 2011, oltre 50 ordinanze prefettizie in tal senso, emesse senza soluzione di continuità ai sensi dell’art. 2 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza, che – come noto – le prevede solo «nel caso di urgenza e per grave necessità pubblica»…; una gestione dell’ordine pubblico, in occasione di qualsivoglia evento o manifestazione, disinteressata a ogni forma di contrattazione e caratterizzata da interventi estremamente violenti, uso di idranti, lancio di lacrimogeni ed addirittura di gas vietati da convenzioni internazionali;

b) un provvedimento legislativo ad hoc (l’art. 19 della legge n. 183/2011) con il quale «le aree e i siti del Comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di interesse strategico nazionale»;

c) la torsione della giurisdizione da luogo di accertamento di eventuali responsabilità per reati specifici in protagonista di politiche di diretta tutela dell’ordine pubblico, con alcune modalità del tutto anomale: c1) l’istituzione, presso la Procura della Repubblica di Torino, di un pool per la persecuzione dei reati connessi con l’opposizione al Tav addirittura prima dell’esplodere del conflitto e dei connessi reati (e il suo attuale assorbimento nel Gruppo Terrorismo ed Eversione dell’Ordine Democratico: sic!); c2) la creazione di corsie preferenziali per la trattazione dei procedimenti a carico di appartenenti al movimento no Tav (anche se per reati di minima entità, come i danneggiamenti alle reti dei cantieri, accantonati, secondo le disposizioni organizzative dell’ufficio, ove commessi in altri contesti), a fronte dell’inerzia o dei tempi lunghi riservati a quelli a carico degli operatori di polizia; c3) la lievitazione del numero di indagati e arrestati (nel periodo dal 2011 al 2019, gli imputati sono stati oltre 2.000 con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel 2011); c4) la dilatazione impropria, da parte della Procura della Repubblica e dei giudici della cautela, del concorso di persone nel reato sino a delineare quella che è stata definita una “responsabilità da contesto”; c5) il ricorso a contestazioni (a dir poco) sovradimensionate, sino a quella di «attentato per finalità terroristiche» (la cui infondatezza è stata dichiarata in tutti i gradi di giudizio ma che, intanto, ha prodotto effetti devastanti tra i quali un anno di carcere duro e in condizioni di isolamento per gli imputati e di massacro mediatico per l’intero movimento no Tav); c6) l’uso massiccio, anche nei confronti di incensurati, di misure cautelari, trasformate da extrema ratio in regola (fondate sempre su una presunta pericolosità sociale, perlopiù desunta da annotazioni incontrollate di polizia e spesso esclusa nei successivi dibattimenti); c7) il frequente diniego, in fase esecutiva, di misure alternative al carcere, nonostante l’inserimento sociale e l’attività lavorativa dei condannati, con motivazioni concernenti esclusivamente l’appartenenza al movimento No Tav;

d) il ricorso sempre più ampio (60 casi nella sola estate 2023) a misure di prevenzione o di polizia, in particolare l’avviso orale, il foglio di via e l’obbligo di soggiorno;

e) il ricorso ad azioni civili vessatorie, come le richieste di risarcimento dei ministeri degli Interni e della Difesa nei confronti di attivisti in relazione ai costi sostenuti dall’amministrazione per «l’attività infoinvestigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti […] e di ripristino dell’ordine pubblico»;

f) un’ulteriore aggressione ai patrimoni degli esponenti più attivi del movimento mediante l’applicazione di sanzioni amministrative per fatti (diffusione di musica, somministrazione di bevande senza autorizzazione, infrazioni al codice della strada etc.) intervenuti nel corso di manifestazioni o eventi abitualmente tollerati in occasioni analoghe;

g) il supporto di una informazione embedded (in particolare della Stampa, della Repubblica e del Tg3) arruolata nell’attività di propaganda e onnipresente partecipe delle operazioni di ordine pubblico al seguito delle forze di polizia, le cui pagine sono diventate simili a comunicati stampa della Procura e sempre meno distinguibili dai mattinali della Questura.

4. È tempo di conclusioni. La criminalizzazione e la repressione del dissenso in Val Susa rappresentano una ipotesi scolastica di costruzione di quel diritto penale del nemico che accompagna, da sempre, l’irrigidimento autoritario delle istituzioni. Con due necessarie chiose. La prima è che, dopo trent’anni, in Val Susa non è ancora stato costruito neppure un metro della nuova linea ferroviaria Torino-Lione e i tempi si stanno ulteriormente dilatando (anche per la parziale marcia indietro della Francia, cointeressata all’opera): ma, in parallelo, l’apparato repressivo lì utilizzato è diventato un sistema ordinario, quotidianamente sperimentato dai lavoratori della logistica, dagli studenti nelle piazze e nelle Università e dagli esponenti del movimenti ambientalisti radicali, da Ultima Generazione a Extinction Rebellion (assurti al rango di nemico pubblico). La seconda chiosa è che la repressione dei movimenti sta diventando, con il governo della destra, più accentuata e sistematica ma non è nata oggi: è stata sperimentata nel tempo con governi di diverso colore (e, in particolare, da una sinistra sempre propensa a fare la destra). Sarebbe tempo di aprire gli occhi e di cambiare approccio. Forse non è troppo tardi

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domenica 1 settembre 2024

Una diga sul Vanoi per risolvere la crisi idrica. Ma che diritto abbiamo di sacrificare una valle? – Italia Nostra

 

 

Poco più a monte di dove abitiamo, nelle terre a confine tra Trentino e Veneto, si sta dibattendo animatamente sul progetto che prevede la costruzione di una diga nell’ultima valle dove un torrente scorre libero. Scarse notizie sono arrivate in pianura, eppure la vicenda riguarda tutto il Veneto, tutto il Trentino e tutta l’Italia. Il progetto della diga sul Vanoi risale agli anni Venti del secolo scorso e a più riprese è stato valutato e scartato a causa dei reali pericoli idrogeologici. Dopo un centinaio di anni, tenendo conto degli studi degli anni 60 e degli anni 80, un nuovo progetto, un po’ più a monte dei precedenti, si è fatto avanti per ingabbiare anche queste acque che scorrono selvagge e per ora libere.

Lo Studio di fattibilità delle alternative progettuali (DOCFAP) redatto da un raggruppamento temporaneo di imprese il cui capogruppo è Lombardi Ingegneria S.r.l., su affidamento del Consorzio di Bonifica Brenta, è stato inviato con una lettera datata 2 luglio 2024 – all’interno della fase di consultazione preliminare (ex art. 5 del DPCM n. 76/2018) – solo ad alcuni Enti, avvisando dell’intenzione di avviare il dibattito pubblico, previsto dalla Legge, obbligatorio poiché la diga supererebbe i 30 m di altezza. In seconda battuta altri Enti e alcune associazioni, fra cui le nostre, sono state aggiunte e invitate a esprimere interesse a partecipare e a proporre eventuali osservazioni al riguardo: è stato quindi possibile venire a conoscenza dei documenti relativi al progetto.

Notizie più specifiche e la possibilità di essere convocati per il dibattito pubblico si sono palesate a seguito di una diffusa mobilitazione popolare del trentino e del bellunese, animata da un susseguirsi di pronunciamenti avversi da parte di enti pubblici di quella zona. Di particolare rilievo fra questi una diffida firmata il 12 luglio 2024 dal Presidente della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti al Consorzio di Bonifica Brenta a non dare seguito al progetto. Del resto, come sottolineato da molti, questa opera non appare in alcun documento di programmazione urbanistica comunale, provinciale o regionale.

Alcuni dei nostri Comuni, invece, si erano già precedentemente pronunciati a favore della realizzazione di questo invaso e nessuna mobilitazione finora è avvenuta in pianura, dove molti cittadini – probabilmente – non sono consapevoli dei rischi che questo progetto potrebbe comportare: per esempio il possibile allagamento dei territori a valle dell’invaso in caso di ipotetico collasso della diga, aggravato anche dalla conseguente probabile tracimazione della diga del Corlo di Arsiè, evento che potrebbe quindi interessare una estesa parte del territorio di Bassano e poi numerose altre zone lungo l’asta fluviale fino a Piazzola sul Brenta (come da documento obbligatorio di simulazione di DAM BREAK prodotto dagli stessi progettisti). La localizzazione dell’invaso viene prevista nella Val Cortella lungo il corso del torrente Vanoi, poco prima della sua confluenza col Cismon, in un luogo i cui problemi idrogeologici sono stati già segnalati nei precedenti studi e confermati dalla Carta di Sintesi della Pericolosità della Provincia di Trento, nella quale è segnata a livello P4, ovvero il grado più elevato.

La diga è fortemente voluta da chi sostiene sia indispensabile per la pianura al fine di risolvere i problemi causati dal cambiamento climatico, rendendo più efficaci le infrastrutture irrigue, la bonifica idraulica, la difesa dalle esondazioni e costituendo un nuovo bacino di accumulo. I problemi della pianura, tuttavia, non sono dovuti esclusivamente al cambiamento climatico ma ad un modello di urbanizzazione e un sistema di agricoltura che sono stati riconosciuti da molti come non più sostenibili. La realizzazione dell’invaso, per alcuni opera imprescindibile per tentare di risolvere la crisi idrica della pianura e per questo molto attesa, potrebbe portare con sé una serie di notevoli ripercussioni di carattere ambientale che influirebbe non solo a monte ma su tutto l’ecosistema fluviale, alterando le dinamiche di deposito dei sedimenti, la portata del fiume e gli habitat delle comunità vegetali e animali, determinando nella valle del Vanoi lo stravolgimento della vita, del benessere e delle attività di tutti i suoi abitanti. La localizzazione in quell’area di una massa d’acqua di almeno 20 milioni di m3 (previsti nella meno impattante e più accreditata delle 4 ipotesi analizzate nello studio, l’ipotesi C) influirebbe sul clima degli abitati a monte e i cantieri decennali altererebbero la viabilità e implicherebbero sbancamenti di notevoli dimensioni e la probabile messa in circolazione di una grande quantità di polveri.

Si sottolinea che la valle del Vanoi è tutelata in quanto sito Natura 2000 e che esiste specifica normativa appena approvata dal Consiglio Europeo che impone fra l’altro il rispetto della naturalità dei corsi d’acqua e del loro fluire libero per almeno 25.000 Km entro il 2030, ristabilendo quindi connessioni e abbattendo sbarramenti esistenti. Una direttiva volta nel suo complesso a mitigare gli effetti della crisi climatica e a contrastare la drammatica perdita di biodiversità in atto. Che diritti abbiamo allora di sacrificare l’ennesima valle in nome dell’emergenza climatica, senza valutare l’attuazione di interventi veramente sostenibili e notevolmente più economici di questa impresa titanica che a colpi di cemento cancellerebbe un territorio intero?

Il progetto in realtà non presenta alternative alla costruzione di invasi di diverse dimensioni e capienza. Ma molti sottolineano altre possibilità per risparmiare, tesaurizzare l’acqua. Gli esempi di forme alternative di ricarica della falda acquifera sono già stati sperimentati e hanno dato ottimi risultati: si pensi alle Aree Forestali di Infiltrazione (le cosiddette AFI) o all’allargamento dell’alveo dei fiumi. Politiche di risparmio dell’acqua dovrebbero essere adottate con sistematicità, sia nell’industria che nel settore domestico, mentre è improrogabile l’implementazione di pratiche agricole meno idroesigenti. Piccoli bacini di accumulo delle acque piovane potrebbero essere ospitati da ex cave o realizzati vicino ai luoghi di utilizzazione accogliendo acque di riciclo come già sperimentato. Infine, lo sghiaiamento dei 5 bacini già presenti lungo la valle del Cismon e dei suoi affluenti permetterebbe di recuperare la capacità degli invasi attivi e disponibili.

Non siamo i comitati e le associazioni del “no” come alcuni politici, in maniera superficiale, ci hanno etichettati. Non è questione di dire “no” a tutto, ma di dire “basta” allo sperpero di territorio, al restringimento degli habitat naturali, alla distruzione di quella che è la casa nostra e degli altri esseri viventi! È tempo di cambiare paradigma: in altri paesi si riconosce personalità giuridica ai fiumi e ai laghi, mentre in Italia si continua ad agire secondo una logica di estrattivismo e di predazione delle risorse. È necessario rovesciare il modo di pensare, scostandosi dal concetto di “utilità immediata” e adottando un pensiero lungimirante e rispettoso. C’è bisogno di essere accompagnati in questo cambiamento da contributi esperti, sia sulle dinamiche ambientali sia sulle esperienze di nuovo governo della risorsa idrica e sulla innovazione delle pratiche agricole. Proporremo a metà settembre un evento pubblico al quale inviteremo alcuni studiosi con cui siamo in contatto per trovare soluzioni basate sulla natura piuttosto che su interventi ingegneristici così impattanti.

Italia Nostra Bassano del Grappa
Acqua Bene Comune Vicenza
Associazione per il Rispetto Ambientale A.RI.A. bassanese
Centro di Iniziativa Politico Culturale Romano Carotti Bassano del Grappa
Consulta per l’Ambiente

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